La guerra santa dei coloni

L’occupazione israeliana dei territori palestinesi in Cisgiordania va avanti da decenni con insediamenti illegali. E negli ultimi mesi la loro violenza è fuori controllo

Shane Bauer – Internazionale https://intern.az/1Jyq

Il suono della distruzione attraversava la valle. Era il 28 ottobre 2023, ed ero su un pendio roccioso in Cisgiordania insieme a Bashar Ma’amar, un palestinese che documenta le aggressioni dei coloni israeliani. Ma’amar ha inquadrato con la sua videocamera un gruppo di persone che stavano saccheggiando una casa più in basso. Un paio di giorni prima i coloni l’avevano incendiata; il proprietario era andato alla polizia, che però non era intervenuta. Mentre guardavamo, un colono prendeva a calci la porta d’ingresso e un altro tentava di sfondare le mura carbonizzate con un’asse di legno. Altri hanno fatto un buco nel tetto e sono scivolati dentro. Sulla collina di fronte a noi, tre soldati israeliani e un uomo con un fucile stavano a guardare. Alla fine i coloni hanno raggiunto i soldati per tornare a piedi a Eli, il loro insediamento, dove le mamme spingevano i passeggini in quartieri con vie alberate e case dai tetti rossi, le persone giocavano a tennis su campi affacciati sui terreni palestinesi, e uomini e donne con M16 e Uzi a tracolla facevano shopping nei centri commerciali.

“È il momento giusto per realizzare i loro obiettivi”, mi ha detto Ma’amar. “Tutta l’attenzione è su Gaza”. Ma’amar ha 41 anni, è alto e magro. Con la sua macchina sgangherata siamo tornati a Qaryut, il villaggio di tremila abitanti dove vive. Qaryut, 32 chilometri a nord di Ramallah, si trova nei fertili altipiani centrali della Cisgiordania, il territorio di 5.800 chilometri quadrati occupato da Israele dal 1967. Dopo aver vinto la guerra dei sei giorni, combattuta contro Egitto, Giordania e Siria, Israele si impossessò di questa regione, che la maggior parte degli israeliani chiama Giudea e Samaria. Oggi in Cisgiordania ci sono mezzo milione di coloni, uno ogni sei palestinesi. L’Autorità nazionale palestinese (Anp), che formalmente la governa, ha il controllo della sicurezza – spesso con l’assistenza israeliana solo nei centri urbani. Nel restante 82 per cento del territorio, comanda Israele.

A Qaryut Ma’amar gestisce una sede della Mezzaluna rossa e amministra alcune chat di gruppo che monitorano le azioni dei coloni e dell’esercito israeliano.

Il giorno della vendetta

Quando sono andato a trovarlo, Ma’amar ha impilato una decina di videocamere sulla sua scrivania, alcune rotte dai coloni. È una collezione messa insieme nei quasi vent’anni passati a documentare le violenze dei coloni e le usurpazioni di terre palestinesi. “Le mie videocamere sono la mia arma”, mi ha detto. “Probabilmente a Qaryut sono la persona che ha presentato più denunce alla polizia e alla corte suprema”. Ci sono stati alcuni successi. La maggior parte delle volte, però, gli esposti non hanno portato a nulla. “Il sistema legale israeliano non agisce nell’interesse dei palestinesi”, ha spiegato.

Ma’amar conserva atti di proprietà e mappe amministrative vecchie di secoli, che dimostrano che gli insediamenti circostanti sono stati costruiti su terreni privati. Quando lui è nato nel 1982, vicino al suo villaggio c’era solo un insediamento, Shilo, costruito su terre sottratte a suo nonno. L’insediamento di Eli fu fondato quando Ma’amar aveva cinque anni, confiscando altre parti di Qaryut. Eli e Shilo, entrambi con circa cinquemila abitanti, hanno inglobato tre delle cinque sorgenti di Qaryut. Il villaggio ha dovuto comprare l’acqua dalla Mekorot, l’azienda idrica nazionale israeliana.

Era il 1996 quando Ma’amar assistette per la prima volta alla violenza dei coloni. Benjamin Netanyahu, intenzionato a bloccare qualunque progresso verso una soluzione del conflitto con la creazione di due stati, era appena stato eletto capo del governo per la prima volta. Shilo confiscò altre terre a Qaryut per farne un vigneto. Il villaggio organizzò una protesta, filmata da Ma’amar. L’esercito e i coloni arrivarono di corsa, sparando in aria. I coloni picchiavano le persone e cercavano di togliere le videocamere a chi documentava la scena. Un tribunale israeliano stabilì che le terre dovevano essere restituite a Qaryut, ma Ma’amar ha raccontato che i coloni continuarono ad attaccare chi si avvicinava. Negli anni successivi piantarono tende, e poi case mobili, sulle colline.

Gli insediamenti generalmente sono considerati illegali secondo il diritto internazionale, ma questi avamposti erano illegali anche per la legge israeliana. Eppure, il governo fece poco o niente per dissuadere i coloni della collina, che si consideravano dei pionieri. Gli avamposti furono rapidamente collegati agli insediamenti più grandi con reti idriche, linee elettriche e strade asfaltate. Nel tempo si è formato un corridoio d’insediamenti, che taglia la Cisgiordania in modo da rendere la mappa sempre più simile a quella immaginata da molti coloni e leader politici, dove i palestinesi sono ridotti a vivere in aree piccole e separate all’interno di un Israele che si espande. Qaryut si trovava proprio sul tracciato di questo corridoio; ora nel raggio di otto chilometri dal villaggio ci sono otto insediamenti ufficiali e almeno undici avamposti più piccoli.

Nel novembre 2022 Netanyahu è stato rieletto premier per la sesta volta. Per formare una coalizione di governo, si è alleato con i leader dei partiti di estrema destra, tra cui Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich, che vogliono annettere la Cisgiordania. Da allora la situazione è peggiorata drammaticamente.

Nei primi nove mesi del 2023 Ma’amar ha denunciato alla polizia una settantina di casi di violenze compiute dai coloni. A giugno un palestinese armato ha ucciso quattro coloni vicino a Eli; il giorno dopo centinaia di coloni sono scesi a Turmus Aya, un villaggio vicino, sparando e incendiando auto e case, alcune con gli abitanti all’interno. A settembre le Nazioni Unite avevano documentato circa tre incidenti al giorno legati ai coloni, il numero più alto dal 2006, da quando raccoglievano dati. Mille e cento palestinesi in Cisgiordania sono stati costretti a lasciare la loro abitazione.

Con il volto coperto

Dopo il 7 ottobre 2023, quando miliziani palestinesi guidati da Hamas hanno sfondato la recinzione sul confine tra Gaza e Israele e hanno ucciso circa 1.200 persone e sequestrato 250 ostaggi, gli attacchi nei dintorni di Qaryut sono diventati una routine. I coloni hanno bruciato auto e case, hanno bloccato strade, danneggiato le reti elettriche, confiscato campi, tagliato tubi per l’irrigazione, aggredito contadini nei loro oliveti, e hanno ucciso, sempre senza subire ripercussioni. Ma’amar mi ha detto che 400 ettari di terra sono stati sottratti a Qaryut. L’Onu ha documentato 573 attacchi in Cisgiordania dall’inizio della guerra. Nella metà dei casi i coloni erano accompagnati dalle forze armate israeliane. Almeno nove palestinesi sono stati uccisi dai coloni e 432 dai soldati. Nove israeliani hanno perso la vita e almeno uno era un civile.

Il 9 ottobre i coloni hanno inviato via Facebook agli abitanti di Qusra, a pochi chilometri da Qaryut, un’immagine che ritraeva uomini a volto coperto e con asce, mazze, una tanica di benzina e una motosega. Il testo che accompagnava la foto diceva: “A tutti i ratti nelle fogne del villaggio di Qusra, vi aspettiamo e non avremo pietà per voi. Il giorno della vendetta sta arrivando”.

L’11 ottobre al confine del villaggio alcuni coloni hanno dato fuoco ai pali del telefono e hanno tentato di fare irruzione in una casa. Per mezz’ora una famiglia si è rintanata all’interno; poi sono arrivati alcuni giovani dal villaggio e hanno lanciato pietre agli israeliani. Ma’amar è arrivato sul posto con l’ambulanza. A quel punto i coloni hanno cominciato a sparare. Un uomo ha consegnato a Ma’amar una bambina di sei anni che era stata ferita. Poi, mentre si allontanava, è stato colpito e ucciso. Ma’amar mi ha raccontato che quando l’ambulanza è ripartita a tutta velocità, i coloni le hanno sparato contro. Tre palestinesi sono stati uccisi. Poi l’esercito israeliano ha assalito il villaggio e ha ucciso un ragazzo di tredici anni.

Il giorno dopo Hani Odeh, il sindaco di Qusra, ha organizzato un corteo funebre per trasportare i corpi dall’ospedale al villaggio. L’esercito israeliano ha imposto il tragitto, poi ha ordinato di cambiare percorso per evitare i coloni. Ma decine di questi hanno comunque bloccato la strada e lanciato sassi sui partecipanti. “Sono andato a parlare al comandante israeliano, implorandolo di far andare via i coloni”, ha detto Odeh. “Mi ha detto di tornare indietro”. I coloni hanno ucciso un uomo di 62 anni e suo figlio di 25.

“Non possono continuare a sguinzagliare i coloni contro di noi in questo modo”, mi ha detto Odeh. “La mia generazione ha sempre cercato di ragionare con i giovani, ma ora non ne possono più. Cosa dovrei fare? Le persone come me, che hanno sostenuto la pace per tutta la vita, non sono più rispettate. Ci dicono: ‘Cosa ha fatto per noi Abu Mazen (il presidente dell’Anp)?’. Hanno ragione. Lui continua a chiedere alle persone di protestare pacificamente. Ma non c’è niente di pacifico nella situazione in cui ci troviamo”.

Il 29 ottobre i coloni sono comparsi in una delle due sorgenti rimaste a Qaryut. Hanno issato una bandiera israeliana e, in presenza dei soldati, hanno demolito uno dei grandi bacini d’acqua che da generazioni gli abitanti del villaggio usavano per irrigare i campi. Poi l’esercito ha chiuso la strada di accesso alla fonte. La strada separava Shilo ed Eli, e secondo Ma’amar lo scopo di coloni ed esercito era collegare i due insediamenti. Per due settimane i coloni sono tornati spesso alla sorgente, accompagnati dai soldati.

Un giorno sono andato alla fonte con Ariel Elmaliach, il sindaco di Eli. Una decina di giovani erano al lavoro per trasformare uno dei bacini di cemento in una piscina. Il sindaco ha chiesto perché lo stavano facendo. “Per prendere più spazio intorno all’insediamento”, ha risposto un ragazzo sui quindici anni. “Per la nostra patria”, ha detto Nadav Levy, un giovane con la barba poco più che ventenne. Ory Shimon, vent’anni, ha affermato che secondo lui Israele subisce un giudizio ingiusto: “L’America è arrivata con le navi, ha ucciso gli indiani e li ha schiavizzati. È orribile, ma oggi l’America non dice ‘Ci dispiace, riprendetevi la terra’”.

Senza pietà

Nel febbraio 2023 Bezalel Smotrich, ministro delle finanze e capo del Partito sionista religioso, ha ricevuto da Netanyahu un incarico che gli conferisce ampi poteri sulle colonie della Cisgiordania. Nel 2005 Smotrich fu arrestato perché faceva parte di un piccolo gruppo in possesso di settecento litri di benzina. L’ex vice capo dello Shin bet, i servizi segreti israeliani, lo accusava di voler far esplodere delle macchine su un’autostrada per protestare contro il ritiro degli insediamenti dalla Striscia di Gaza (Smotrich negò l’accusa e non fu condannato). Ora Smotrich ha l’autorità di rendere legali gli avamposti non autorizzati, impedire l’applicazione della legge contro le costruzioni ebraiche illecite, ostacolare i cantieri palestinesi e concedere terre ai coloni.

Nei giorni della nomina di Smotrich, un palestinese armato ha sparato a due coloni, uccidendoli. Smotrich ha detto che l’esercito avrebbe dovuto “colpire senza pietà le città del terrore e i suoi istigatori con carri armati ed elicotteri”. Mentre l’esercito stava a guardare, centinaia di coloni hanno invaso Hawara, un villaggio a sud di Nablus, uccidendo una persona e ferendone un centinaio, e incendiando circa trenta case e cento auto. È stata la peggior ondata di violenza dei coloni in decenni (l’esercito israeliano non ha risposto alla richiesta di un commento).

Smotrich, che vive in un insediamento, è diventato uno dei più importanti ideologi dei coloni. Nel 2017 ha pubblicato il suo “Piano decisivo” per il conflitto israelo-palestinese. Il primo passo, scriveva, è rendere “l’ambizione di uno stato ebraico dal fiume al mare… un fatto compiuto”, “creando nuove città e insediamenti all’interno del territorio e portando centinaia di migliaia di altri coloni a vivere lì”. Una volta raggiunta la “vittoria per insediamento”, continuava Smotrich, i palestinesi avrebbero due opzioni: restare in Israele senza il diritto di voto alle elezioni nazionali, oppure emigrare. “Il sionismo”, aggiungeva, “si è fondato su uno scambio di popolazione, per esempio l’immigrazione di massa, spontanea o meno, degli ebrei dai paesi arabi e dall’Europa in Israele, e l’uscita, spontanea o meno, di masse di arabi che vivevano lì verso le zone arabe circostanti. Questa tendenza storica sembra dover raggiungere il culmine”.

I piani per l’espulsione risalgono al 1937, quando il Regno Unito propose la spartizione della Palestina in due stati e il trasferimento di circa duecentomila arabi fuori del territorio destinato allo stato ebraico. I pionieri sionisti tentarono di espandere il loro territorio costruendo insediamenti al di là dei confini proposti. David Ben-Gurion, futuro primo ministro di Israele, in una lettera al figlio scrisse: “Dobbiamo espellere gli arabi e prendere il loro posto”. Alla fine Ben-Gurion accettò una proposta di spartizione dell’Onu che non prevedeva l’espulsione degli arabi da Gaza e dalla Cisgiordania, ma cominciò immediatamente a fare mosse tattiche per espandere il territorio. Insieme ad altri leader elaborò una strategia militare chiamata Piano Dalet, che mirava a “prendere il controllo delle aree dello stato ebraico” e delle “aree di insediamento ebraico… situate oltre i confini”, attraverso “operazioni contro i centri abitati nemici” e la “distruzione di villaggi”. In caso di resistenza, “la forza armata deve essere distrutta e la popolazione deve essere espulsa”. L’Haganah (un’organizzazione militare poi integrata nell’esercito israeliano) devastò i villaggi palestinesi e fece massacri. Trecentomila arabi furono mandati via o fuggirono prima del ritiro britannico, avvenuto nel maggio del 1948. Allora Israele dichiarò l’indipendenza, Egitto e Siria invasero il territorio, e altri 400mila arabi furono cacciati. Nel 1949 circa l’80 per cento della popolazione araba era stata espulsa dal territorio rivendicato da Israele, ormai più esteso di quello previsto dal piano di spartizione dell’Onu, che non fu mai attuato, e centinaia di villaggi erano stati cancellati. I palestinesi chiamano questi eventi Nakba, la “catastrofe”.

Il desiderio di Smotrich di rivendicare tutta la Palestina per Israele era condiviso da molte persone già nel 1948, ma all’epoca la sua convinzione che questa colonizzazione fosse un comandamento divino era marginale. Il sionismo era un movimento in gran parte laico, e la maggior parte degli ebrei ortodossi lo considerava una ribellione contro Dio: se aveva esiliato gli israeliti, allora solo lui poteva stabilire quando questa punizione sarebbe dovuta finire. Smotrich, come un terzo dei coloni attuali della Cisgiordania, segue gli insegnamenti di un rabbino di nome Tzvi Yehuda Kook, secondo cui gli ebrei devono adoperarsi attivamente per ottenere il perdono di Dio impadronendosi di tutta la terra biblica di Israele.

Quando Israele occupò la Cisgiordania nel 1967 i funzionari del governo non erano d’accordo su cosa fare di quel territorio. I massimalisti come Yigal Allon, ex comandante delle forze speciali, avevano dovuto rinunciare a conquistarlo nel 1949, e volevano portare a termine il lavoro; altri funzionari temevano che incorporando novecentomila palestinesi in Israele si sarebbe persa la maggioranza ebraica del paese. Allon propose un compromesso: annettere le regioni meno popolate – un terzo del territorio – e dare il resto alla Giordania. Suggerì di creare degli insediamenti fino a completare l’annessione.

Il problema era trovare persone disposte a viverci: la giovane generazione di israeliani laici non aveva nostalgia del pionierismo dei sionisti della prima ora. I seguaci di Kook invece erano più zelanti: mentre il governo deliberava, annunciarono che si sarebbero stabiliti a Hebron. Allon, un tempo socialista, fece causa comune con i coloni di destra, garantendogli prontamente posti di lavoro e cercando di procurargli armi. Poi convinse l’esecutivo ad autorizzare un insediamento.

I kookisti impararono una lezione importante: se avessero agito direttamente e trovato funzionari comprensivi, il sostegno dello stato sarebbe seguito. Formarono un movimento, Gush emunim (il blocco dei fedeli), che tentò di creare degli avamposti sulla dorsale montuosa densamente popolata a sud di Nablus, dove si trova Qaryut.

Nel 1977 il Partito laburista, che era stato al potere fin dalla fondazione dello stato, fu sconfitto dal partito Likud. Come il Gush emunim, il Likud rivendicava la completa sovranità israeliana “dal mare al Giordano”. Il governo avviò la costruzione di insediamenti in tutta la Cisgiordania e ne affidò la gestione al Gush emunim, finanziandolo. Lo stato incoraggiò gli israeliani a trasferirsi, offrendo sussidi per la casa, imposte ridotte sui redditi e sovvenzioni per le aziende. All’inizio degli anni novanta c’erano circa centomila israeliani che abitavano in 120 colonie in Cisgiordania.

Cambiare versione

Il 28 ottobre 2023 Bilal Saleh si è svegliato presto per prepararsi alla raccolta delle olive nel villaggio di Al Sawiya. Sapeva che sarebbe stato rischioso. Un paio di giorni prima i contadini di ritorno dagli oliveti nel vicino villaggio di Deir Istiya avevano trovato dei volantini sulle auto con scritto: “Avete voluto la guerra, ora vi aspetta la grande Nakba. È la vostra ultima occasione per scappare in Giordania, poi vi cacceremo con la forza dalle terre sante, che ci sono state concesse da Dio”. Nelle chat dei coloni dopo il 7 ottobre i raccoglitori di olive erano descritti come agenti di Hamas sotto copertura o come nazisti.

Saleh, 40 anni, teneva per sé le sue opinioni ed evitava le proteste. Ma quella terra appartiene alla sua famiglia da generazioni. E senza la raccolta delle olive sarebbe stato in serie difficoltà.

Così quella mattina ha caricato l’asino di famiglia e si è incamminato con la moglie e i figli, superando la strada dove passano gli autobus per soli israeliani che portano i coloni al lavoro, f ino al suo terreno. Sopra di loro, a meno di un chilometro di distanza, incombeva l’insediamento di Rehelim. La famiglia ha steso il telo sotto un albero e ha cominciato la raccolta.

Intorno alle 10.30 Sami Kafineh, un amico di Saleh, stava tornando in auto da Nablus ad Al Sawiya. Appena prima di raggiungere il villaggio, ha notato quattro uomini vestiti di bianco arrivare da Rehelim e dirigersi verso l’oliveto. Si è accostato e ha urlato che si stavano avvicinando dei coloni.

Le persone che erano nel campo mi hanno raccontato che appena Bilal Saleh si è reso conto dell’arrivo dei coloni ha immediatamente portato in salvo la moglie e i figli. Camminando verso la strada si è accorto di aver lasciato il telefono ed è tornato indietro. Arrivato sul campo, è stato colpito da una pallottola.

Kafineh era ancora sulla strada. Quando ha sentito i colpi di fucile ha cominciato a filmare. I quattro coloni erano in una radura, uno aveva in mano un M16 e camminava lungo il margine del campo. Hanno sparato di nuovo, poi sono andati via. Un video mostra Saleh steso a terra, con il petto e la bocca sanguinanti.

In seguito i coloni hanno cambiato versione alla storia. Yossi Dagan, capo del consiglio regionale dei coloni sotto la cui autorità ricade anche Rehelim, ha affermato in un comunicato che un soldato in congedo era stato “attaccato da decine di miliziani di Hamas”. Successivamente i coloni hanno condiviso una foto del funerale di Saleh in cui suo fratello Hisham sventola una bandiera di Hamas. Poco dopo la polizia israeliana ha arrestato Hisham. I sondaggi mostrano che il sostegno per Hamas in Cisgiordania, dove il malcontento nei confronti dell’Anp è diffuso, è aumentato dal 12 al 44 per cento negli ultimi mesi. Il 72 per cento dei palestinesi intervistati ha affermato che l’attacco del 7 ottobre è stato “corretto” (il 94 per cento degli israeliani sostiene che l’esercito sta usando un livello di forza adeguato o insufficiente a Gaza).

“Non abbiamo speranza”, mi ha detto Hazem Saleh, cugino di Bilal. Mi ha indicato alcune case nuove nel villaggio. I proprietari non volevano che fossero “demolite o bombardate”, ha detto. “Non chiedono di combattere, uccidere, o fare la guerra. Ma se hanno paura di uscire, non hanno una vita minimamente dignitosa, sono messi sotto pressione, la loro reazione sarà uguale all’azione”.

Hisham Saleh ha passato tre mesi in carcere, senza accuse, per aver sventolato la bandiera di Hamas.

Sognare e fare

Il colono che ha ucciso Bilal Saleh è stato arrestato e rilasciato dopo pochi giorni. Dato che era rientrato in servizio nell’esercito, ho fatto visita a una sua vicina, una donna di 46 anni di nome Reuma Harari. All’ingresso di Rehelim i soldati hanno preso il mio passaporto, poi la sicurezza mi ha scortato a casa di Harari. Il suo cortile era un idillio provinciale: un’altalena su un prato di erba sintetica, una quercia, un cagnolino; Tel Aviv era solo a quaranta minuti di distanza. La donna mi ha invitato a sedermi sotto un olivo. “Ironico”, ha detto ridacchiando.

Harari era impaziente di raccontarmi le origini del suo insediamento. Nel 1991 un autobus di coloni diretti a Tel Aviv per protestare contro i colloqui di pace in corso a Madrid fu attaccato da alcuni palestinesi, che uccisero l’autista e una colona di Shilo di nome Rachel Drouk. Dopo il funerale di Drouk venticinque donne allestirono una tenda funebre sul luogo dell’uccisione. Poi pubblicarono il loro Manifesto femminista: “Restiamo qui chiedendo di fondare un insediamento, perché è l’unica risposta sionista a un omicidio criminale”. Sotto la protezione dell’esercito i coloni confiscarono terreni del villaggio di Saleh e installarono delle case mobili.

Due anni dopo il primo ministro Yit zhak Rabin e Yasser Arafat, leader dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), raggiunsero un’intesa sulla prima fase degli accordi di Oslo. Israele e l’Olp si sarebbero riconosciuti reciprocamente e i palestinesi avrebbero ottenuto un’autonomia limitata a Gaza e in parte della Cisgiordania, sotto l’amministrazione dell’Autorità nazionale palestinese appena creata. Ma alcune delle questioni principali – il futuro di Gerusalemme, il ritorno dei rifugiati palestinesi, le colonie e il confine – furono rimandate a un accordo finale da raggiungere entro cinque anni. Quell’accordo non si è mai realizzato e la speranza di una soluzione a due stati è progressivamente svanita.

Sotto le pressioni internazionali Israele impedì per lo più la costruzione di nuovi insediamenti, ma nel 1998, in vista dei colloqui di Oslo per l’assetto definitivo dell’area, l’allora ministro degli esteri Ariel Sharon incoraggiò i coloni a occupare direttamente il territorio. Nei nove anni successivi furono creati circa un centinaio di avamposti illegali.

Nel 2001, durante la seconda intifada (la rivolta popolare palestinese contro l’occupazione), Harari e la sua famiglia decisero di trasferirsi da Gerusalemme a Rehelim. Harari si chiese: “Cosa posso fare per questo paese?”. Sapeva che, ovunque fossero andati i coloni, “l’esercito sarebbe arrivato”, ha spiegato. “Per me il sionismo è sognare e fare”. Quattro anni più tardi un rapporto governativo rivelò che l’Organizzazione sionista mondiale e alcuni ministeri avevano segretamente dirottato milioni di dollari verso gli avamposti coloniali con la complicità dell’esercito e della polizia. Il governo annunciò che quegli avamposti sarebbero stati sgomberati, ma nel secondo decennio del duemila Netanyahu ne ha legalizzati molti, tra cui Rehelim.

Harari ha chiarito che l’atteggiamento di Rehelim nei confronti dei suoi vicini palestinesi è sempre stato: “Se voi sarete pacifici e tranquilli, noi saremo pacifici e tranquilli”.

Quando le ho ricordato i vari attacchi commessi dagli abitanti del suo insediamento, Harari ha risposto facendo esempi di coloni uccisi in altre parti della Cisgiordania, o citando i fatti del 7 ottobre. “I miei vicini, se ne avessero la possibilità, verrebbero a massacrarmi nel letto”, mi ha detto. Ha paragonato l’attacco di Hamas ad Auschwitz, ma mi ha anche confidato di aver sentito un “brivido di gioia”, perché “ora abbiamo ritrovato la nostra unità. Ora è di nuovo come nel 1948”.

Harari capisce perché i palestinesi possono provare rancore verso i coloni: “Se fossi palestinese probabilmente penserei che noi non dovremmo essere qui e che dovremmo andarcene”. A volte si chiede: “Ne vale la pena?”. Poi torna in sé. “Non ce ne andremo da qui”, ha detto. “‘Patria’ non è una figura retorica”.

A circa quindici chilometri da Rehelim, oliveti, insediamenti affollati e villaggi palestinesi lasciano il posto alla distesa color caramello della valle del Giordano. Si estende per dieci chilometri in larghezza, dal fiume Giordano alle colline degli altipiani centrali, e per ottanta in lunghezza, dal mar Morto alla città israeliana di Beit She’an. Israele mise gli occhi sulla regione per annetterla già con il piano di Allon del 1967. Quest’area, scarsamente popolata, costituisce circa un quarto della superficie della Cisgiordania. Dal 2012 Israele sta costruendo quello che Dror Etkes, un esperto in materia di colonie, ha definito il suo “progetto infrastrutturale più grande e costoso” in Cisgiordania: trasportare l’acqua da Gerusalemme alle piantagioni di datteri dei coloni nella vallata. A ogni famiglia ebraica che si trasferisce nella valle del Giordano sono concessi otto ettari di terra coltivabile.

Gli abitanti degli oltre venti insediamenti della vallata sono un miscuglio di ebrei ortodossi e discendenti laici dei primi coloni laburisti. Nella “eco-colonia” di Rotem ci sono attività che offrono agopuntura, cosmetici naturali e “terapie olistiche”. Le abitazioni sono iurte ed edifici fatti di canapa, mentre nei bar cameriere scalze servono pasti vegani. Tuttavia, come in altre parti della Cisgiordania, la violenza fa parte della quotidianità: ho visto una famiglia in posa per una foto mentre guardava la vallata, con l’uomo che sollevava in aria un M16.

Molti dei 65mila palestinesi della valle del Giordano sono discendenti dei beduini fuggiti nel 1948 da quello che è oggi Israele. Tel Aviv da tempo limita il loro accesso all’acqua e demolisce le loro costruzioni. Nei cinque mesi precedenti al 7 ottobre, centinaia di palestinesi che vivevano in tre comunità sono andati via. L’esodo è stato indotto dall’arrivo di un tipo relativamente nuovo di colono: il pastore ebreo ortodosso.

Un po’ qua un po’

Nella parte settentrionale della valle sono andato a trovare Moshe e Moriah Sharvit, il cui allevamento di ovini ora è diventato anche un bed and breakfast che offre tende in stile beduino con l’aria condizionata. Moriah, 28 anni, indossava un vestito a fiori e un foulard verde scuro sulla testa, e portava sulla schiena un neonato biondo avvolto in una fascia. A ovest dominavano le montagne e a est, oltre i villaggi palestinesi, s’intravedeva il profilo vago degli altipiani giordani. Tutto questo, secondo lei, le è stato dato da Dio.

Moriah è nata nel New Jersey ed è cresciuta negli insediamenti della Cisgiordania. Dopo essersi sposati a diciannove anni, lei e Moshe desideravano una vita diversa. Le colonie, con le loro recinzioni, telecamere e sicurezza, erano come dei “ghetti”, ha detto Moriah, invitandomi nella sua casa mobile. Un paio di M16 erano appoggiati su una stufa a legna. Moshe, un uomo dalla carnagione olivastra con una corta barba nera, mangiava in cucina. L’ho riconosciuto. Gli attivisti israeliani contrari all’occupazione lo avevano filmato mentre disperdeva alcune greggi dei palestinesi con il suo fuoristrada, facendole incalzare dai suoi cani, e seguendole con un drone.

In passato Moshe aveva un vigneto e un oliveto, mi ha detto Moriah, ma questo non gli permetteva di controllare molta terra, perciò si è dato all’allevamento. “Quando hai le pecore, vai un po’ qua un po’ là, dovunque ci sia erba da brucare”, ha detto. “Puoi proteggere più terra”.

Gli Sharvit hanno creato l’avamposto nel 2020. La loro missione, ha spiegato Moriah, è impedire il furto di terreni. Ha indicato una finestra che affacciava su alcune fattorie palestinesi a circa un chilometro di distanza: “Tutte quelle case sono arabi che sono arrivati dall’area A all’area C e hanno rubato la terra. Se noi non fossimo qui ora ci sarebbero loro”.

Gli accordi di Oslo hanno suddiviso la Cisgiordania in tre aree: A, B e C. Le città palestinesi sono state dichiarate area A e poste sotto il pieno controllo dell’Anp. I villaggi principali – area B – sono rimasti sotto l’amministrazione civile palestinese, con Israele responsabile della sicurezza. Insieme le aree A e B costituiscono il 40 per cento della Cisgiordania, ma sono frammentate in 165 isole. Il mare in cui galleggiano – l’area C – è sotto il controllo israeliano e comprende non solo gli insediamenti ma anche gran parte dei terreni agricoli della Cisgiordania. Gli accordi stabilivano che l’area C, dove oggi vivono mezzo milione di coloni e circa 300mila palestinesi, sarebbe stata “gradualmente trasferita alla giurisdizione palestinese”, ma Israele l’ha trattata sempre di più come se fosse sua.

Israele impone ai palestinesi di ottenere un permesso per qualunque nuova costruzione nell’area C, ma ha respinto il 98 per cento delle richieste. Le strutture non autorizzate sono regolarmente demolite dall’esercito, eppure i coloni pensano che il governo non stia facendo  abbastanza. Un sondaggio del 2020 mostrava che la metà degli israeliani ritiene che l’area C dovrebbe essere annessa.

La strategia del pascolo ha cominciato a prendere piede verso il 2018, introdotta dall’organizzazione di coloni Amana. Nel 2021 , in una conferenza intitolata “La battaglia per le terre dello stato”, il segretario generale di Amana Ze’ev Hever, un pregiudicato dell’organizzazione terroristica Jewish underground, ha spiegato che gli insediamenti tradizionali si erano rivelati un metodo inefficiente per impadronirsi della terra. Gli allevamenti di pecore, al contrario, possono controllare “più del doppio della superficie delle colonie”.

Avi Naim, ex direttore generale del ministero per gli insediamenti, ha affermato che gli avamposti di pastori contribuiscono a “impedire le invasioni di palestinesi” nell’area C: “Bisogna prendere delle persone convinte che questa sia una missione da pionieri, e lasciare che siano loro a guidare il controllo delle riserve di terra”. Secondo le stime di Dror Etkes, oggi in Cis giordania ci sono circa novanta avamposti di pastori. In base ai suoi calcoli, nel complesso controllano più o meno 217 chilometri quadrati, circa il 10 per cento dell’area C.

Tutti questi avamposti sono illegali secondo la legge israeliana, ma Moriah ha raccontato che lei e Moshe hanno ricevuto un grande sostegno dallo stato. Hanno fatto “un sacco di riunioni” con l’amministrazione civile, l’esercito, il consiglio regionale della valle del Giordano e altri enti statali. Amana li ha allacciati alla rete idrica. “Moriah!”, l’ha rimproverata Moshe dalla cucina, avvertendola di stare attenta a quello che diceva.

Prima delle elezioni del 2019 Netanyahu aveva annunciato un piano per annettere il 22 per cento della Cisgiordania, soprattutto nell’area C, compresa la maggior parte della valle del Giordano. Gli Sharvit si sono stabiliti all’interno dell’area destinata a questa annessione, che non è ancora avvenuta. “Io penso che qui sia tutto nostro. Ma c’è la legge”, ha affermato Moriah. Sui fabbricati del loro avamposto pende da due anni un ordine di demolizione, ma Moriah ha detto che nessuno ha fatto pressioni per mandarli via: “Israele comprende. Se non stiamo qui noi la terra sarà presa”.

In salotto un monitor mostrava in diretta le immagini riprese dalle videocamere che sorvegliano la zona circostante. La loro fattoria serve da “occhio” per l’esercito, mi ha spiegato Moriah: “Possiamo fare segnalazioni sulle costruzioni illegali, sulla caccia illegale. Lavoriamo insieme”. Sullo schermo un’inquadratura è cambiata; Moriah mi ha spiegato che, come le videocamere di altri avamposti nella valle, anche le loro sono controllate da un soldato in un centro di comando.

Troppo buoni

Dopo il 7 ottobre un’unità dell’esercito ha presidiato l’avamposto per un mese. I militari hanno detto che ogni insediamento di pastori aveva bisogno di almeno tre armi lunghe, così le ha fornito un M16, ha raccontato Moriah: “Ne stanno distribuendo moltissimi”. Dal 7 ottobre l’esercito ha consegnato circa settemila armi ai coloni, oltre alle diecimila che il ministero della sicurezza nazionale ha ordinato di distribuire agli ebrei in tutto Israele e in Cisgiordania. Come altri circa 5.500 coloni, Moshe e suo fratello David sono stati arruolati nei cosiddetti battaglioni di difesa regionale dell’esercito, i cui ranghi sono quintuplicati da quando è cominciata la guerra.

Moriah mi ha spiegato che per loro il problema non è solo Hamas, ma i palestinesi in generale. Non sono “persone normali”, ha detto. La violenza è “nel loro dna”. Gli attacchi del 7 ottobre sono avvenuti perché gli israeliani “sono stati troppo buoni”, ha aggiunto. “Penso che dobbiamo fare quello che è necessario per fermare questa situazione. Dobbiamo dare un’alternativa agli arabi che vivono qui. C’è la Giordania, c’è l’Egitto, c’è la Siria”.

Moriah mi ha portato in macchina lungo una strada sterrata fino ai campi su cui si affaccia l’avamposto. Ha indicato alcune case che erano abitate da palestinesi: “Qui è tutto in area C” (in realtà secondo le mappe dell’amministrazione civile, la maggior parte delle case si trovava nell’area B). Poco dopo il 7 ottobre, mi ha raccontato, è successa una cosa curiosa: “Se ne sono andati tutti”.

Cinque giorni dopo ero da David Elhayani, governatore del consiglio regionale della valle del Giordano. In Cisgiordania ci sono sei di questi consigli eletti che forniscono servizi ai coloni. Pur essendo fuori da Israele ricadono sotto l’autorità del ministero dell’interno. Secondo Elhayani, Netanyahu non era stato abbastanza determinato nell’annessione dei territori: “Non abbiamo più una leadership in questo paese”. Se potesse ottenere più terra per Israele, ha detto, lo farebbe “anche se è illegale”. E ha aggiunto: “La battaglia del 1948 è la stessa di oggi in Giudea e Samaria”: uno scontro per la terra.

“Sai cosa significa homa u’migdal?”, mi ha chiesto. Vuol dire “muro e torre”. Sotto la dominazione britannica il governo aveva limitato la creazione di insediamenti ebraici, ma durante la rivolta araba del 1936-1939 ne furono fondati più di cinquanta, con lo scopo di conquistare il territorio per un futuro stato. I britannici li lasciarono stare, sulla base di una legge ottomana che stabiliva che le autorità non potevano demolire una struttura una volta costruito il tetto. Il sionisti “venivano di notte, innalzavano un muro, una torre, e dicevano ‘Siamo qui’”, ha raccontato Elhayani. Gli avamposti dei pastori “sono la stessa cosa”.

Ho detto a Elhayani che ero stato con alcuni palestinesi nelle loro case vuote, vicino all’avamposto degli Sharvit. Un anziano mi aveva raccontato che pochi giorni dopo il 7 ottobre Moshe lo aveva picchiato, gli aveva saccheggiato la casa e ordinato di andarsene (Moriah Sharvit mi ha detto: “Nessuno in questa fattoria ha commesso reati”). Dodici famiglie avevano lasciato la loro abitazione.

“Mentono”, ha risposto Elhayani.

“Posso accompagnarla anche ora”, gli ho detto.

“Non voglio”.

Pugno in faccia

Il giorno dopo, insieme alla fotografa Tanya Habjouqa, sono andato a Wadi al Seeq, una comunità da poco spopolata sulle colline sopra la valle del Giordano. Dagli anni novanta vivevano lì circa quaranta famiglie palestinesi, ma le ultime erano andate via ormai da un mese. Dentro una scuola i banchi erano a terra ribaltati, le lezioni ancora scritte sulle lavagne.

Mentre scendevamo lungo una strada sterrata un camioncino ci ha sbarrato il passaggio. Un uomo abbronzato con una lunga barba color zenzero e due riccioli ai lati del viso si è fatto avanti. Era Neria Ben-Pazi, un colono pastore a capo di una manciata di avamposti. Aveva organizzato lui l’espulsione delle famiglie palestinesi. Avevo tentato più volte di intervistarlo, ma non mi aveva mai risposto. Quando compaiono i coloni pastori, spesso poco dopo arrivano i loro amici, quindi ho fatto inversione e ce ne siamo andati.

Ben-Pazi è cresciuto a Kohav HaShahar, dieci chilometri a nord di Wadi al Seeq. Nel 2015 ha fondato lì vicino un avamposto chiamato Baladim. Lo Shin bet lo considerava una base dei terroristi, alcuni dei suoi abitanti volevano rovesciare lo stato di Israele e sostituirlo con il regno di Giudea. Almeno due di loro sono stati condannati per incendi dolosi con movente d’odio: tra le altre cose nel 2015 hanno lanciato bombe incendiarie contro un’abitazione palestinese, uccidendo un bambino di diciotto mesi e i suoi genitori. Dopo quell’attacco Baladim è stato sgomberato dall’esercito e Ben-Pazi è stato arrestato per averlo costruito in una zona militare, ma è stato presto rilasciato. In seguito l’accampamento è stato ricostruito.

Nel 2019, dopo che Netanyahu ha annunciato il suo piano di annettere parte della Cisgiordania, i rapporti tra Ben-Pazi e il governo sono cambiati. Nel giro di poche settimane il colono ha fondato un nuovo avamposto di pastori vicino a Rimonim, un insediamento laico che probabilmente sarebbe rientrato all’interno delle aree da annettere. Un documento dell’amministrazione civile mostra che a Ben Pazi è stato assegnato un appezzamento di 55 ettari. Ha ricevuto anche fondi dal ministero dell’agricoltura per pagare persone che si occupassero della sorveglianza. In poco tempo, Ben-Pazi e i suoi uomini si sono impadroniti di più di cinquecento ettari di terre palestinesi. Secondo una pubblicazione dei coloni, diversi ufficiali dell’esercito e rappresentanti politici, tra cui il ministro della difesa Yoav Gallant, visitavano regolarmente la sua fattoria.

Ben-Pazi ha fondato il suo avamposto di Wadi al Seeq nel febbraio 2023, subito dopo che Netanyahu ha concesso a Smotrich la giurisdizione sull’amministrazione civile e sui coloni della Cisgiordania. Quasi immediatamente i giovani coloni hanno cominciato a pascolare le loro greggi sui campi palestinesi. In poco tempo quasi tutti i pozzi di Wadi al Seeq sono finiti nelle mani dei coloni, e i palestinesi sono stati costretti a far arrivare l’acqua con le autocisterne. Non potendo più accedere ai loro terreni in sicurezza, hanno smesso di coltivarli. Hanno dovuto comprare i mangimi, perché non potevano più pascolare gli animali su gran parte delle colline circostanti. Alcune famiglie se ne sono andate.

Quelle rimaste hanno chiesto agli attivisti israeliani per la pace di restare nel villaggio, nella speranza che la loro presenza scoraggiasse i coloni. La commissione dell’Anp per la resistenza al muro e agli insediamenti ha previsto che ci fossero anche dei volontari palestinesi. Alla guida del gruppo c’era Mohammed Matar, meglio conosciuto come Abu Hassan, un attivista di 46 anni diventato funzionario, con una lunga storia di disobbedienza civile contro le forze di occupazione.

Dopo il 7 ottobre i coloni hanno cominciato ad attraversare sempre più spesso Wadi al Seeq con i loro veicoli, ormai vestiti in uniforme e armati di fucili d’assalto. Hanno allestito posti di blocco improvvisati all’ingresso del villaggio, hanno picchiato persone, rubato i telefoni e fatto irruzioni notturne nelle case.

La maggior parte degli abitanti del villaggio palestinese ha deciso di andarsene, e il 12 ottobre ha cominciato ad ammucchiare sui camion materassi, mangiatoie e i tetti in lamiera delle case. Quella mattina sono arrivati sei pickup con a bordo i coloni. Abu Hassan e il suo collega Mohammed Khaled, insieme a cinque attivisti israeliani e diversi abitanti del villaggio, sono rimasti indietro e hanno chiesto l’intervento dell’esercito. I coloni hanno legato Abu Hassan e Khaled e hanno cominciato a picchiarli. A un certo punto, ricordano i due uomini, è arrivato un ufficiale dell’amministrazione civile, ha parlato con i coloni e poi si è allontanato. “Dove vai?”, gli ha chiesto Abu Hassan. “Questi uomini sono l’esercito”, ha detto l’ufficiale indicando le persone che li stavano picchiando.

Tre attivisti israeliani erano nascosti con una famiglia palestinese in una baracca parzialmente smantellata. Hanno visto Ben-Pazi parlare con insistenza al telefono, poi è arrivato un mezzo dell’esercito.

Dopo che gli attivisti si sono fatti avanti un soldato ha dato un pugno in faccia a uno di loro. “Perché non sei a Gaza!”, ha gridato un altro soldato. “Sei in arresto per aver aiutato il nemico in guerra”.

Abu Hassan e Mohammed Khaled hanno raccontato di essere stati torturati per quattro ore: picchiati con i bastoni, ustionati con le sigarette, aggrediti sessualmente, ricoperti di urina e costretti a mangiare lo sterco delle pecore. Hanno passato due giorni in ospedale.

Poco dopo lo sgombero di Wadi al Seeq è stata realizzata una nuova strada sterrata che porta all’avamposto di Ben-Pazi. La polizia israeliana non ha interrogato nessuno dei palestinesi o degli attivisti israeliani che si trovavano lì.

Ammirare il paesaggio

Il 5 dicembre il dipartimento di stato statunitense ha annunciato restrizioni sui visti ai “coloni estremisti” che hanno commesso violenze o hanno impedito l’accesso dei civili ai bisogni fondamentali. L’esercito israeliano ha emanato un’ordinanza restrittiva che vieta a Ben-Pazi di entrare in Cisgiordania, a eccezione dell’insediamento di Ariel, per tre mesi. Sfidando apertamente la misura, in occasione della festività ebraica dell’Hanukkah Ben-Pazi ha ospitato vari rabbini capo e centinaia di fedeli nel suo avamposto di Wadi al Seeq. Anche Amichai Eliyahu, ministro dei beni culturali, ha passato la notte nell’accampamento.

Il 1 febbraio il presidente statunitense Joe Biden ha ordinato sanzioni economiche contro quattro coloni israeliani. Abu Hassan sostiene che la pressione politica è importante, ma che le sanzioni “dovrebbero riguardare anche le istituzioni politiche e finanziarie che sostengono i coloni e gli ufficiali di polizia e dell’esercito che cospirano con loro”.

Alla fine di dicembre Moshe Feiglin, presidente del partito di estrema destra Zehut, ha visitato la fattoria di Ben-Pazi. Feiglin si è guardato intorno, ammirando il paesaggio: “Abiti in un’area che è grande tre volte il comune di Tel Aviv”. “Alla fine conta il legame con la terra”, ha detto Ben-Pazi. “Se vogliamo la terra, l’avremo”. ◆ fdl

Shane Bauer è un giornalista d’inchiesta statunitense. I suoi articoli sono usciti su Mother Jones, The New Yorker, The Nation e Los Angeles Times. Il suo ultimo libro è American prison (Penguin Random House 2018).