Ricordi di Hebron.

I racconti di Zeinab, domenica 11 giugno 2011

Il papà stava lì, seduto nella veranda, bevendo il caffè con la solita sigaretta in mano.
Il suo sguardo scrutava il giardino davanti a lui, come se fosse alla ricerca di qualcosa.
Era una bella giornata di Giugno, con il sole e l’aria ancora fresca di pioggia del giorno prima. Il papà andò in giardino e si diresse verso uno dei suoi alberi preferiti: l’ulivo stava in fondo al prato, tra due alberi di fichi e uno di noce. Rimase lì, a guardarlo, come se sentisse il bisogno di parlargli.


Quel piccolo ulivo non potè far altro che trasportare il papá nella sua terra, la Palestina, prima ad Akka (Acri) dove la storia della sua famiglia ebbe inizio ai tempi del califfo Omar e poi ad al-Khalil (Hebron), dove nacque e crebbe. Un sorriso appena accennato, gli occhi che diventarono lucidi al ricordo di sua madre che cuciva i vestiti tradizionali e preparava la ceretta con zucchero e limone alle sorelle, i qatayef per il Ramadan e il maqlubeh almeno una volta a settimana, le particolari attenzioni a lui, il figlio più piccolo. Il padre del papà coltivava i campi, tra ulivi e aranceti.

Hebron di notte.

Si ricordò di una delle cose che più lo facevano divertire dell’essere Palestinese: con chissà quale magia e maestria, le mamme, le zie e le nonne riuscivano a riempire qualsivoglia pietanza di riso!
Si ricordò anche delle uscite con i suoi amici e dei viaggi fino a Betlemme per andare al cinema, quest’ultimo all’epoca degli anni Cinquanta assente ad al-Khalil (Hebron), o dei viaggi fino a Nablus per assaggiare il dolce tipico della città, il knafeh Nabulsi.

Un sorriso più acceso dominò le sue labbra al ricordo di quell’anziano signore vicino casa sua, un povero contadino cieco, con cui giocava con i suoi amici mettendosi in fila indiana, presentandosi al povero signore non vedente, e ritornando in fondo alla fila e ripetere il gioco all’infinito, e altrettante infinite furono le botte di quando suo papà lo colse in flagrante di ritorno dal campo.

E come poteva non ricordare quel giorno in cui lasciò la sua casa, la sua terra per colpa di una guerra che sostituì i carretti dei venditori di frutta e di spezie con i carri armati firmati con la stella di Davide, la pietra bianca delle case con la polvere, l’azzurro del cielo con il nero del fumo, il profumo dei campi, del pane con zeit e za’tar appena sfornato, degli arghilè e del tè alla menta con il tanfo della distruzione. Quel dolore viscerale che riempiva le vene lo hanno sempre legato intrinsecamente alle sue radici, perché sono proprio i momenti più brutti ad essere quelli meglio ricordati e che ci fanno legare a ciò che più amiamo al mondo.
“Torneremo, andremo via solo finché la situazione non si calma”, queste erano le parole della sua mamma e del suo papà, e che continuava a ripetersi anche dentro di sé. “Torneremo, vedrai, hai lasciato lì il pallone, come puoi non tornare!”.

Abbassò la testa sull’erba verde, sulle radici di quell’ulivo. Una lacrima riuscì a superare lo sforzo di trattenerla. E in quella lacrima c’era tutto il dolore di un popolo e della sua terra.

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