Ultima parte – Perché molti ebrei americani stanno diventando indifferenti o addirittura ostili a Israele

V. Associazioni di volontariato versus associazioni di non volontariato

Infine, la vita ebraica americana e la vita israeliana riflettono la differenza tra le associazioni di volontariato e non.

Che Israele esemplifichi quest’ultima categoria è chiaro. Il servizio militare pressoché per tutti (almeno in teoria) ne è l’esempio più ovvio, ma non meno critica è la completa dominanza esercitata dal capo del rabbinato del paese su questioni personali come il divorzio, la conversione all’ebraismo e, in misura minore, il matrimonio e la sepoltura. Neppure l’ebreo più furiosamente secolare o anti-religioso in Israele può ottenere un divorzio senza il coinvolgimento di un rabbino ortodosso. La conversione all’ebraismo, generalmente libera negli Stati Uniti sotto gli auspici non ortodossi e ortodossi, avviene in Israele essenzialmente solo attraverso gli uffici del capo del rabbinato.

Il servizio militare e un istituto religioso sponsorizzato dallo stato non esauriscono la lista. Ebrei israeliani di tutti i ceti sociali abitano una società in cui l’impegno civico è un “must” istintivo. Ne ho avuta la prova all’inizio di quest’anno quando ho accompagnato un gruppo di studenti del Jerusalem Shalem College a un incontro con la leadership ebraica comunale e religiosa della San Francisco Bay Area. Nel corso della nostra discussione, uno studente israeliano ha chiesto a un rappresentante di una delle istituzioni meglio note della comunità cosa deve fare un ebreo per essere incluso in una particolare iniziativa. La risposta è stata: “Qui nella Bay Area non usiamo la parola “deve”. Gli israeliani, che andavano dagli ultra-ortodossi agli ultra-secolari, erano indistintamente storditi e anche profondamente turbati. Nessuno di loro, non importa in che punto si collocasse all’interno dello spettro politico o religioso, poteva anche solo immaginare un’esistenza ebraica sensata che non abbia come nucleo centrale la nozione di obbligo.

Ed ecco un altro paradosso: la natura non volontaria della società israeliana, lungi dall’erodere la volontà dei cittadini di dedicare tempo, energia e passione alle cause oltre se stessi, produce di fatto volontarismo a tassi superiori. I giovani israeliani in genere, prima di iniziare la loro formazione militare, si offrono volontari per un intero anno di servizio pubblico, in cambio del quale non ricevono crediti, militare o accademico. Le organizzazioni di ogni genere – un tipico esempio ne è la Hashomer Haḥadash che unisce lo studio ebraico e sionista al pattugliamento attivo di aree che la polizia israeliana non può proteggere adeguatamente da invasori – attualmente attirano decine di migliaia di volontari ogni anno.

Infatti, lo spirito di volontariato in Israele sembra innato, non tanto una questione di scelta deliberata quanto semplicemente una questione di ciò che cittadini di ogni età fanno. Il monito di John F. Kennedy, “Non chiedere cosa il tuo paese può fare per te, chiedi cosa puoi fare tu per il tuo paese” (evocazione di Luca 12:48 : “a quelli a cui molto è dato, molto è richiesto”), caratterizza la società israeliana molto più di quanto non faccia in America – segnando un’altra differenza radicale tra l’ethos della vita ebraica americana e quella israeliana.

VI. Conclusioni

Come ho osservato in precedenza, tutti questi marcatori di differenza sono stati in bella vista per molto tempo, anzi per un tempo molto lungo. Perché l’abisso risultante si debba aprire in maniera così estesa negli ultimi anni non è del tutto evidente. Ma si possono elencare alcuni fattori concorrenti. Includono la suddetta erosione della memoria dell’Olocausto, l’ostinata perseveranza del conflitto di Israele contro i palestinesi e la totale ignoranza degli ebrei americani più giovani di quando e come è iniziata “l’occupazione”. Aggiungete a tutto ciò l’impennarsi del tasso di matrimoni misti in America che, a sua volta, rende sempre più controversa ogni nozione di giudaismo come la fede di un unico e singolare popolo. Aggiungete anche l’idea americana del primato dell’universale sul particolare e l’insistenza ideologica sulla religione come materia rigorosamente privata. La maggior parte degli ebrei americani pensa all’ebraismo solo in termini religiosi, senza la componente di patria di un popolo, il meno necessario e meno giustificato Israele diventa il più anomalo e il più abnorme. Le religioni, dopo tutto, di solito non hanno paesi. C’è un paese metodista? Uno stato Baha’i?

E poi, naturalmente, a peggiorare le cose, ci sono le attuali tendenze nei campus americani. L’anti-sionismo diffuso in molte università americane, spesso una sottile maschera per l’antisemitismo, innesca in molti giovani ebrei un impulso comprensibile a nascondersi o a segnalare la propria dissociazione da Israele per non essere segnato dal marchio dell’ignominia. Né, in un clima in cui gli amministratori dei campus esonerano furiosi oratori anti Israele e dimostranti dal divieto generale di ogni genere di aggressioni minori, l’attaccamento a Israele potrebbe appellarsi a chiunque, ma solo alle anime più dure. E questo per non parlare di quei giovani ebrei, incoraggiati da membri di facoltà come Hasia Diner e molti altri, che cercano attivamente l’ulteriore diffamazione e delegittimazione dello Stato ebraico, se non la sua effettiva distruzione, attraverso piattaforme come Students for Justice in Palestine, BDS (boicottaggio, sanzione e disinvestimento), Jewish Voice for Peace di reminescenza orwelliana e altri dello stesso genere.

Infine, la cultura della correttezza politica nei campus universitari, rafforzata dalla dottrina ormai onnipresente di “intersectionality,” condanna sionismo e sionisti ad una perdizione da cui pochi hanno il coraggio, o la padronanza necessaria per bilanciare fatti e argomenti, di uscire e dare aperta battaglia. Questo rullo di tamburi di denuncia, amplificato com’è nelle camere di risonanza di organismi mondiali, razionalizzato da importanti settori di opinione di élite in America e specialmente in Europa, vergognosamente tollerata o giustificata dai custodi della convenzione culturale, è più che sufficiente per convincere ogni giovane ebreo, non altrimenti armato, che il bianco è nero, il nero è bianco, e che la società ebraica di Israele, libera, aperta, chiassosa, resiliente, tollerante, felice, compassionevole e decisa è piaga dell’umanità.

C’è una luce in questo quadro a tinte fosche? Forse una piccola. La cultura politica americana nel suo complesso sta subendo un grande sconvolgimento. In questa fase iniziale non si può sapere come si svolgeranno le cose, ma è perlomeno plausibile che il frantumarsi del compiacimento liberale, inclusa la situazione attuale e le prospettive future dell’ebraismo americano stesso, possa condurre alcuni ebrei più giovani ad abbracciare e difendere le lezioni di fioritura ed orgoglio che resiste nello Stato ebraico e democratico di Israele. Questi giovani ebrei hanno bisogno di ogni aiuto, incoraggiamento e sostegno che una comunità attenta ai suoi veri interessi può fornire.

Quanti hanno gusto per l’ironia storica potrebbero puntare ad un altro sviluppo all’orizzonte. Potrebbe il divario crescente tra ebrei americani e Israele lentamente ridursi se, come sembra abbastanza possibile, la maggior parte della comunità ebraica americana ancora affiliata presto sarà composta da coloro che già condividono impegni etnicamente particolaristici e religiosamente tradizionalisti?

Le prove qui sono demografiche. In gran parte a causa della caduta dei tassi di natalità e dei fattori relativi tra ebrei americani secolari e non ortodossi, nella seconda metà di questo secolo, osserva Steven M. Cohen, è probabile che si vedrà “una popolazione non ortodossa in forte calo. . . e una crescente frazione di ebrei ortodossi”. Mettendo su carta questa affermazione, due ricercatori hanno tracciato il potenziale numero di discendenti di 100 ebrei in ognuna delle cinque categorie: laica, Riforma, conservatrice, ortodossi centristi e ortodossi di destra. Dopo quattro generazioni, è la loro proiezione, e assumendo che continueranno le tendenze attuali, 100 ebrei secolari oggi daranno solo quattro discendenti. Di 100 ebrei della Riforma, il numero in quattro generazioni sarà sceso a 13; di 100 ebrei conservatori a 52. Al contrario, 100 ebrei centristi-ortodossi di oggi saliranno a 337 ebrei alla fine dello stesso periodo di tempo, mentre i discendenti ebrei di 100 ebrei ortodossi di destra saranno 3.398. E per quel totale ortodosso combinato di 3.735, come confermano i dati Pew sull’ “attaccamento” molto, riguardo Israele, sembrerà meno estraneo e meno problematico.

In sintesi, i nostri dotati di ironia potrebbero concludere che la demografia potrebbe risolvere un problema che non siamo stati capaci di affrontare in altro modo. Ma questo non è certo motivo di festeggiamenti. Ci vuole un particolare tipo di miopia per trarre soddisfazione o conforto addirittura dallo spettro della scomparsa di ampie fasce del popolo ebraico. Inoltre, la storia ebraica ha da tempo mostrato l’effettiva impossibilità di sapere quale specie di vita ebraica si rivelerà resistente. Nei decenni dopo la distruzione del Secondo Tempio, pochi avrebbero scommesso che il giudaismo rabbinico avrebbe trionfato mentre tutte le altre forme di ebraismo autoritario sarebbero essenzialmente svanite. Poco dopo la fondazione di Israele, David Ben-Gurion esonerò studenti yeshiva haredi dalla leva militare, perché era sicuro che presto non sarebbe rimasto un haredim. Alla fine degli anni ’50, il sociologo ebreo americano Nathan Glazer argomentò che nel giudaismo americano la fede religiosa ortodossa era destinata a morire. E così via. Mentre Nils Bohr, vincitore del Premio Nobel per la fisica, una volta scherzando disse: “Una predizione è molto difficile, soprattutto se si tratta del futuro.”

Ma non illudiamoci. Salvo un cambiamento radicale nelle loro disposizioni politiche, culturali e morali, percentuali considerevoli di ebrei americani continueranno ad arrabbiarsi non solo per ciò che Israele fa, ma per ciò che, nella loro mente, Israele rappresenta ed è. Almeno per quanto l’occhio può vedere, questo auto somministrato esercizio di distacco e disarmo morale, con tutte le sue più grandi implicazioni per la coesione ebraica oltre che per la politica estera americana in Medio Oriente, probabilmente si diffonderà e approfondirà .

 

L’autore

Daniel Gordis è Koret Distinguished Fellow e preside di formazione di base al Shalem College di Gerusalemme. Il suo nuovo libro, Israel: A Concise History of a People Reborn, ha vinto il premio “Libro dell’anno” del Libro ebraico per il 2016.

 

Traduzione Simonetta Lambertini – invictapalestina
Fonte: https://mosaicmagazine.com/essay/2017/05/why-many-american-jews-are-becoming-indifferent-or-even-hostile-to-israel/

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