L’approccio “apolitico” alla crisi dell’acqua in Palestina (Seconda parte)

L’UNICEF, dopo decenni di raccolta fondi da parte di UE e altri, ha inaugurato l’impianto nel gennaio 2017. A febbraio era stato completato solo parzialmente, attualmente e’ fermo per mancanza di combustibile.

Copertina:  6 aprile 2017  –  Il tredicenne Ahmad e Shahd di 12 anni, si trovano nel nuovo impianto di dissalazione dell’acqua di mare. La loro classe è andata a visitare l’impianto nell’ambito di una campagna  sostenuta dall’UNICEF per sensibilizzare sull’acqua sicura.[https://www.unicef.org/wash/oPt_95521.html]

30 luglio 2017, Muna Dajani

Come i finanziamenti dei donatori consolidano lo status quo di Israele

La comunità internazionale dei donatori, con il suo desiderio di dimostrare l’utilità degli investimenti di milioni di dollari sostenuti, esaspera questo sistema di disuguaglianza tra Israele e  Palestina  nell’ approvvigionamento idrico. Sebbene l’intento dei donatori sia quello di aumentare la disponibilità di acqua e di proteggere la salute delle persone e dell’ambiente nell’ambito dell’occupazione, viene comunque soddisfatto in cambio di un tacito consenso sullo status quo. L’aiuto non dovrebbe essere un intervento a lungo termine, ma offrire un sostegno agli attori locali e alle comunità tale da poter perseguire lo sviluppo sostenibile delle risorse e il risanamento dell’esistente.

Considerando gli interventi di un decennio e i milioni di dollari spesi per canalizzazioni idriche verso i Territori Occupati Palestinesi (OPT), l’incapacità della comunità dei donatori di migliorare le condizioni di vita dei palestinesi dimostra come l’aiuto abbia finito per danneggiare il riconoscimento dei diritti palestinesi.

Dagli anni ’90 le agenzie internazionali dei donatori hanno aumentato gli investimenti nel settore dell’acqua palestinese costruendo impianti, sia piccoli che su vasta scala, di trattamento delle acque reflue , reti idriche, linee di fognatura e persino un impianto di desalinizzazione a Gaza. La maggior parte di questi progetti e’ realizzata secondo i termini degli Accordi di Oslo in base ai quali il comitato misto dell’acqua (1) deve approvare i progetti prima che i soldi vengano assegnati all’AP. In questo modo viene limitato lo sviluppo del settore idrico al di fuori dell’ambito ristrettivo di Oslo. (2)

Gli investimenti internazionali si sono concentrati in genere nella costruzione di impianti di depurazione delle acque reflue in Cisgiordania, con un crescente interesse dei donatori per lo sviluppo di sei grandi impianti a Nablus West, Jenin, Jericho, Al-Bireh, Ramallah e Tulkarm. Tuttavia, un numero significativo di questi progetti non e’ mai stato completato.

Palestinesi raccolgono acqua da una sorgente nel villaggio di Salfit in Cisgiordania. Gli abitanti del villaggio sono rimasti senza acqua per giorni, poiché le carenze croniche delle forniture indotte dalle autorità di occupazione israeliane continuano a colpire molte parti del territorio. Immagini di Nedal Eshtayah APA

L’impianto di trattamento delle acque reflue di Salfit, per esempio, ha ottenuto finanziamenti negli anni ’90, ma non è mai entrato in funzione. Il JWC ha presentato il progetto attraverso un iter burocratico tale da condizionare la sua approvazione al collegamento con l’insediamento Ariel, uno dei maggiori blocchi di insediamenti in Cisgiordania, che canalizza le sue acque di scarico non trattate nei villaggi palestinesi vicini.

L’inquadramento ufficiale di questi progetti oscura le questioni politiche sottostanti. Nel 2015, ad esempio, l’Unione europea e l’Autorità dell’Agenzia Palestinese dell’Acqua (PWA) hanno firmato un accordo per la costruzione di un impianto di trattamento delle acque reflue da 20,5 milioni di dollari nella regione di Tubas nella costa occidentale della Cisgiordania. Il capo della PWA, Mazin Ghunaim, ha dichiarato:

Le acque reflue non trattate rimangono una sfida importante in Palestina e hanno gravi implicazioni sulla salute, sull’ambiente e sull’agricoltura. Questo progetto ridurrà significativamente i rischi per la salute della popolazione del North Tubas Governorate e la contaminazione dell’ambiente. Consentirà inoltre il riutilizzo in agricoltura delle acque reflue trattate, preservando cosi’ le limitate risorse delle falde acquifere in Palestina.

Questa convinzione sulla necessità di infrastrutture di scarico per sostituire una risorsa “limitata” sono riprese da molti funzionari AP, agenzie di donatori e organizzazioni della società civile.

Sebbene il trattamento delle acque reflue sia necessario, il suo inquadramento come fonte di acqua supplementare per l’agricoltura rafforza il concetto della necessita’ di trovare mezzi alternativi per ottenere i diritti sulle acque in Palestina. In altre parole, l’accento sull’importanza delle acque reflue piuttosto che sulla mancanza di diritti all’acqua dei palestinesi fa sì che l’acqua sia una crisi naturale che ha bisogno di una soluzione tecnologica, piuttosto che un problema creato dall’uomo che deliberatamente priva i palestinesi di una risorsa vitale.

Per quanto riguarda la Striscia di Gaza, negli ultimi dieci anni articoli e news, relazioni e campagne internazionali hanno descritto la sua scarsità d’acqua come “catastrofica”, “allarmante”,  prossima a diventare “crisi umanitaria”. Infatti, la popolazione è costretta a fare i conti con una sorgente principale dell’acqua – un acquedotto costiero – che per  il 96% è inadatto al consumo umano. Ciò è dovuto a decenni di sovra-estrazione, contaminazione delle acque reflue e infiltrazione di acqua marina. Il blocco e gli attacchi di Israele hanno esacerbato in modo esponenziale questo problema e provocato una regressione nello sviluppo delle infrastrutture, in gran parte dovuta alla distruzione di impianti per il trattamento delle acque reflue, serbatoi e centrali elettriche.

La comunità internazionale e l’AP, dalla fine degli anni ’90, hanno presentato la crisi idrica di Gaza come risolvibile grazie a un impianto di dissalazione. Il Segretariato dell’Unione per il Mediterraneo, organismo che riunisce 28 paesi dell’UE e 15 nazioni delle rive meridionali e orientali del Mediterraneo, ha particolarmente caldeggiato il progetto.

L’Unione sostiene:

Senza alcuna alternativa esistente di acqua dolce, un impianto di dissalazione su vasta scala è un requisito assoluto per affrontare il disavanzo idrico di Gaza. L’urgenza di desalinizzazione per Gaza è aumentata con l’aumento della crisi umanitaria legata a risorse idriche inadeguate con conseguente impatto sulla salute umana.

Un tale approccio rafforza la narrazione della separazione geografica e politica della Striscia di Gaza dalla Cisgiordania, trattando Gaza come un’entità autonoma che richiede una propria dotazione energetica per l’acqua. Queste pretese ignorano il fatto che l’acqua della Cisgiordania, quasi interamente controllata da Israele, potrebbe fornire sollievo a Gaza.

Questo è il parere di  Clemens Wasserschmid, un idrogeologo tedesco che lavora nel settore dell’acqua palestinese:

Secondo la legge internazionale sull’acqua, Gaza ha diritto ad una quota equa del bacino idrografico costiero. Gaza non può essere separata dal resto della Palestina. Gaza deve essere rifornita dall’esterno, proprio come New York, Londra, Parigi o Monaco. La Cisgiordania, ricca di acqua, acquista sempre più acqua dalla compagnia Mekorot (Israele), mentre Gaza dovrebbe bastare a se stessa? Questa è al 100 % la pura logica e logica idro-politica a lungo termine di Israele. In questo nuovo paradigma la storica lotta palestinese per il diritto all’acqua, per una “quota equa e ragionevole delle risorse idriche transfrontaliere”, sancita dalla legge internazionale sull’acqua, viene abbandonata. Il Negev israeliano ha un surplus di acqua perché l’intero fiume Giordano superiore è deviato verso il   lago Tiberiade nel National Water Carrier che passa vicino ai confini di Gaza. Grandi quantità di acqua in eccesso scorrono letteralmente oltre Gaza, mentre la Striscia continua a prosciugarsi.

Similmente agli impianti di trattamento delle acque reflue della Cisgiordania, l’impianto di dissalazione di Gaza, sebbene costruito, non è mai in piena  operativita’. L’UNICEF, dopo decenni di raccolta fondi da parte dell’UE e di altri, ha inaugurato l’impianto nel gennaio 2017. Tuttavia, alla fine di febbraio l’impianto era stato completato solo parzialmente, alimentato con combustibili d’emergenza. Gli impianti di dissalazione richiedono anche manutenzione continua, pezzi di ricambio e materiali, ora facilitati dal meccanismo di ricostruzione di Gaza.

Progettato per “facilitare la ricostruzione urgentemente necessaria”, il meccanismo ha fatto del blocco il suo punto di partenza, una mossa che Oxfam ha criticato come normalizzazione dell’assedio e “conferendo un aspetto di legittimazione ad un ampio regime di controllo”. Inoltre, Oxfam ha ribadito il pericolo derivante dalla separazione dell’aspetto economico dalle soluzioni tecnologiche e dalle condizioni politiche.

Quando i politici palestinesi e internazionali sbandierano la desalinizzazione come l’unica soluzione alla situazione idrica di Gaza, si basano sulla narrazione che il progresso tecnologico salvera’ la situazione, senza affrontare le realtà politiche e le restrizioni sul campo.

Inoltre si semplifica l’approccio naïve dei donatori alla soluzione idrica di Gaza e della Cisgiordania. In sostanza, questi progetti non riescono a sfidare – e quindi, anche involontariamente, denunciare – le violazioni del diritto internazionale di Israele, vale a dire la sua continua occupazione e l’esproprio delle terre palestinesi e delle risorse naturali.

Inoltre, i principali donatori, vale a dire l’UE, il Regno Unito e gli Stati Uniti, non solo finanziano progetti disastrosi, ma promuovono attivamente la tecnologia israeliana e l’avanzamento scientifico, ignorando l’importanza della ricerca sull’acqua palestinese.

 

trad. Invictapalestina.org

Fonte: https://al-shabaka.org

Note:

1 – Joint Water Committee (JWC) Comitato composto da israeliani e palestinesi.

2 – Inoltre, Israele ha utilizzato la mancanza di infrastrutture di acque reflue nella Cisgiordania per accusare i palestinesi di flussi inquinanti e siccità. Nonostante tutto, il JWC e l’Amministrazione Civile israeliana hanno messo il veto e hanno così bloccato lo sviluppo delle infrastrutture per le acque di scarico della Cisgiordania. Gli insediamenti israeliani e le loro acque di scarico industriali minacciano anche la salute dei palestinesi e distruggono l’ambiente. Israele inoltre capitalizza su questa depurazione, trattandola nei suoi impianti  scaricando  responsabilità e oneri sull’AP. L’acqua di scarico trattata viene poi utilizzata per l’agricoltura israeliana. Vedi B’Tselem, “Foul Play: Neglect of Wastewater Treatment in the West Bank,” 2009.

3 – http://poica.org/2017/03/stop-work-order-on-water-pool-in-east-tubas-governorate/

 

Muna Dajani

Muna Dajani

Membro   di Al-Shabaka, Muna Dajani è una ricercatrice ambientale e attivista palestinese di Gerusalemme. Muna è titolare di un Master in Sviluppo Internazionale e Ambiente. Attualmente ha un dottorato presso la London School of Economics (LSE)  dipartimento di Geografia e Ambiente. La sua ricerca mira a identificare il legame tra l’identità, la resistenza e l’agricoltura in un’occupazione belligerante, dove l’agricoltura acquisisce la soggettività politica come forma di resistenza culturale. Gli interessi della sua ricerca sono la politica ambientale, la gestione delle risorse della comunità e gli impatti sociali del cambiamento climatico.

 

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