La Grande Partenza a Gerusalemme è un evento apertamente politico che servirà ad imbiancare l’oppressione del popolo palestinese, sostiene Nick Christian. Un boicottaggio è l’unica risposta adeguata.
parole di Nick Christian, 10 ottobre 2017
Non dimenticherò mai la prima volta che ho visto il muro da vicino durante un viaggio turistico in Cisgiordania nel settembre dello scorso anno. Le fotografie, come quelle del libro fotografico di Banksy, ‘Wall and Piece’, lo hanno reso immediatamente familiare, ma non possono trasmettere l’incredibile impressione lasciata dalle lastre di cemento.
Il muro alto venti, trenta piedi, se lo si vedesse nella prigione di un film di Hitchcock, farebbe pensare che le sue dimensioni siano esagerate per un effetto di ripresa.
Gli israeliani lo chiamano di sicurezza, ma lo scopo del muro è creare disagi, intimidire, annettere e alienare. In tutte queste sue ambizioni è molto efficace.
Le Nazioni Unite hanno sostenuto questo punto di vista. Nel 2004 l’Assemblea Generale votò in massa a sostegno di una sentenza della Corte Internazionale di Giustizia (ICJ) che stabiliva che il muro è “contrario al diritto internazionale”, e chiedeva che non solo Israele “cessasse immediatamente i lavori di costruzione”, ma abbattesse quello che aveva già costruito. Israele ha continuato a costruire, perché i forti fanno quello che vogliono.
Non dimenticherò mai il mio primo assaggio di gas lacrimogeni. Con poche ore di libertà prima della cena nel nostro hotel Betlemme, un piccolo gruppo di noi decise di andare a fotografare i murales sul muro.
Ad un certo punto ci siamo trovati su un tratto di strada chiuso quando abbiamo sentito un paio di garbati “botti”. Soldati dei due posti di controllo dell’esercito israeliano, alle estremità opposte della strada, avevano sparato verso il muro. Mentre due nauseabonde nubi chimiche si dirigevano verso di noi non c’era un posto dove si potesse andare e non potemmo fare altro che tirarci su i vestiti davanti alla bocca e aspettare che l’aria si ripulisse.
Non c’erano stati disordini, tanto meno una sommossa o qualcosa di lontanamente simile a violenza da soffocare. Forse i soldati erano un po’ annoiati? Un piccolo gruppo di gente del posto, dagli adolescenti agli anziani, da un vicino laboratorio ci guardava con una curiosità stupita ma gentile, senza alcun accenno al fatto che questo non fosse altro che normale.
Indimenticabile anche la terra bruciata di Bil’in. Spogliata degli olivi che una volta assicuravano una vita agiata agli agricoltori del villaggio, ora seminata con poco più che proiettili di gomma. Duri e pesanti, più armi da guerra che palline che rimbalzano, sono utilizzati per sedare le proteste settimanali contro l’insediamento illegale adiacente. Possono uccidere. Lo hanno fatto, lo fanno, lo faranno ancora. Indimenticabile, sì, ma normale.
Normal Palestine sembra molto diversa dal Normal Israel che Richard Abraham sostiene con grande eloquenza nel suo recente articolo e che incoraggia gli appassionati di ciclismo a sperimentare con cautela attraverso la lente del Giro d’Italia.
192 atleti sorprendenti, da oltre 30 diversi paesi, facendo a turno a infilarsi dentro e rotolare fuori mentre telecamere sopra la testa trasmettono una facciata “sport-washed” della storia della città più divisa al mondo. Una città in cui un gruppo di persone ha diritti e l’altra ha una patina di “permessi” – su una patina di difficoltà discriminatorie – quando va bene.
Ovviamente Israele vuole mostrare Normal Israel. La normalizzazione è il punto. Quello che lo Stato di Israele non vuole che tu pensi è che il prezzo di Normal Israel è la prigione a cielo aperto che è Normal Palestine.
Qualunque mio collega potrebbe dire, se non pensavi a questo prima del Giro, probabilmente non succederà nemmeno quando arriverà la gara. Non in modo tale da sminuire gli sforzi delle pubbliche relazioni dello Stato di Israele. Altrimenti non l’avrebbero ospitata fin dall’inizio.
Il ciclismo per me è libertà, ma per quanto riguarda il Giro a Gerusalemme rappresenterà solo e aumenterà ulterioriormente l’imprigionamento di un popolo.
“Dove si traccia la linea in un mondo globalizzato?” chiede Richard. La mia risposta è, davvero non segni una linea in un qualche punto? Accusare di incoerenza porta solo in un luogo dove regnano apatia e nichilismo. Non ci sono crimini contro i quali saresti pronto a marciare? A meno che non ti opponga a tutte le ingiustizie con la stessa foga, se ti opponi a una sei un ipocrita?
Tuttavia, il suggerimento più inquietante è che la ragionevole, neutra, civile posizione è quella di appoggiare la Grande Partenza a Gerusalemme, e che scegliere di non guardarla equivale a un atto di aggressione. Che cosa può esserci di più pacifico che esercitare il proprio diritto a rinunciare a un’abitutine?
Se si decide di guardare il Giro il maggio prossimo, specialmente se si parteciperà personalmente, sarà come fare una dichiarazione politica più forte di quella di chi decida di non farlo. Non c’è nulla per cui lo Stato possa esistere al di fuori della politica. L’applicazione di Israele a voler ospitare il Giro d’Italia è stato un atto indiscutibilmente politico, come pure la decisione di RCS di aggiudicarglielo.
Sia di supporto o di opposizione, qualsiasi risposta è anche inevitabilmente politica.
L’argomentazione è che il boicottaggio del Giro sarebbe “una risposta semplice a una questione complicata”, ma si sarebbe detto lo stesso per il boicottaggio del bus di Montgomery nel 1955? O del movimento anti-apartheid sudafricano?
I diritti umani sono i diritti umani. L’accusa di incoerenza funziona in entrambe le direzioni.
Un ricordo finale, slegato dal mio viaggio nei territori occupati, è il viaggio attraverso la Cisgiordania su di un vecchio minibus sgangherato.
Guardando fuori dal finestrino, mentre rotolavamo lungo valli antiche e sopra colline che spingevano al limite il motore del veicolo, mi sono accorto di pensare a due ruote e non quattro, e che cosa potrebbe essere caricare il paesaggio sulle mie gambe.
Poi mi sono chiesto se ci potrebbe mai essere un Giro della Palestina. Poi mi sono fermato. Sembrava troppo lontano dal normale.
Tocca a te decidere cosa fare il maggio prossimo, per quanto mi riguarda a questo punto io non credo che potrò guardare il Giro. Perché non dimenticherò mai la prima volta che ho visto il muro.
traduzione Simonetta Lambertini – invictapalestina.org
Questo è un boicottaggio difficile, perchè odio vedere alla tv le gare di ciclismo. Possiamo boicottarlo solo così? Peccato sia di maggio… fosse stato in estate avremmo potuto andare lì a mettere puntine sulla pista… 😉