Cent’anni di espulsione degli arabi in Palestina

La dichiarazione Balfour del 2 novembre 1917 esprime l’atteggiamento del governo britannico nella creazione di una patria ebraica in una terra che l’Impero Ottomano aveva perso dopo la Prima Guerra mondiale. Nell’intervista il  professore di storia a Oxford Avi Shlaim ricorda le radici dell’attuale instabilità del Medio Oriente e critica il documento con il quale gli inglesi promisero la Palestina araba agli ebrei.

 

Břetislav Tureček,  29.12.2017

 

Břetislav Tureček da oltre vent’anni è giornalista in Medio Oriente. Dal giugno 2013, è  relatore alla Radio Ceca con sede a Gerusalemme.

Avi Shlaim, storico e professore emerito di relazioni internazionali presso la Oxford Unversity, nell’intervista dice tra l’altro: “Una soluzione di pace non è possibile. La causa principale è la condizione  di squilibrio di entrambe le parti. I palestinesi, in confronto a Israele, sono sotto tutti gli aspetti considerevolmente più deboli. Da ciò ne consegue che un accordo, a cui entrambe le parti dovrebbero aderire volontariamente, è impossibile. Una parte è troppo debole, l’altra troppo forte. Per questo l’occupazione israeliana continuerà.”

Česká pozice: A novembre è stato celebrato il centenario della dichiarazione Balfour. Per questo il premier israeliano Benjamin Netanjahu ha visitato l’Inghilterra; i cento anni dall’uscita del documento vengono molto ricordati in Israele. Perché questo giubileo è così importante per quel Paese?

Shlaim: Con la dichiarazione Balfour il governo britannico promise il sostegno per la fondazione di una patria in Palestina per il popolo ebraico, a condizione che ciò non incidesse sui diritti civili e religiosi degli abitanti non ebrei. Fu il primo riconoscimento internazionale delle rivendicazioni dei sionisti sul territorio della Palestina, e quindi per il movimento sionista si trattò di una grande svolta.

I sostenitori della dichiarazione Balfour, fra cui Netanjahu che l’ha celebrata a Londra assieme al premier Theresa May e a lord Rothschild (pronipote del destinatario della dichiarazione Balfour – nota di redazione), purtroppo non menzionano mai i dati statistici di fondo del 1917. A quel tempo gli arabi in Palestina costituivano il 90% degli abitanti, mentre gli ebrei solo un decimo. Per quel che riguarda la proprietà terriera, gli ebrei in Palestina ne possedevano solo il 2%. La dichiarazione Balfour quindi negava essenzialmente i diritti naturali della maggioranza della popolazione araba in Palestina. Fu l’ufficiale inizio della graduale espulsione degli arabi culminato nel 1948 con la proclamazione [dello stato] di Israele.

Balfour, Banksy in scena ‘scuse Londra’

Un numero di rappresentanti palestinesi, in concomitanza con l’anniversario, ha invitato il governo inglese ad annullare la dichiarazione, a scusarsi per la sua attuazione e simili. Possono tali appelli avere una possibilità di successo?

L’Autorità palestinese ha chiesto le scuse. L’Inghilterra le ha rigettate. Allo stesso tempo in Inghilterra è stato chiesto al governo di scusarsi con una petizione di ben 13.000 persone. Il ministero degli Esteri ha loro risposto che l’Inghilterra non ha nulla di cui scusarsi e che il governo, al contrario, è orgoglioso che con quel passo abbia potuto contribuire a rendere possibile la creazione delle Stato ebraico in Palestina. Questa è la posizione ufficiale di Londra.

Ma quale fu cent’anni fa la motivazione del governo inglese per l’emanazione della dichiarazione? La formulazione esatta del documento venne perfezionata in modo complesso, ne andava di ogni parola…

Le motivazioni dei politici inglesi di allora erano varie. Iniziamo con la spiegazione ufficiale secondo cui si trattava di una nobile azione cristiana per rendere possibile all’antica nazione ebraica il ritorno alla propria madrepatria. Secondo questa tesi, da parte britannica si trattò di una sorta di altruismo di stato.

Una spiegazione molto più prosaica, a cui anch’io sono incline, consiste in questo: che si trattasse di un’azione basata sull’imperialismo britannico. L’Inghilterra era in guerra, aveva bisogno di alleati, e così era praticamente pronta a promettere qualunque cosa a chiunque. Perciò nel 1915 l’Inghilterra promise a Hussein, sharif della Mecca, che se avesse condotto la rivolta araba contro l’Impero Ottomano a fianco degli inglesi, Londra, dopo la guerra, avrebbe provveduto affinché, nella zona comprendente la Palestina, nascesse un regno arabo indipendente.

Nel 1916 l’Inghilterra e la Francia siglarono in segreto il così detto accordo Sykes-Picot in cui si spartirono in sfere di interesse il Medio Oriente del dopoguerra, in contraddizione con la promessa allo sharif. E alla fine giunse la dichiarazione Balfour che promise nuovamente la Palestina, precedentemente promessa agli arabi, questa volta ai sionisti. Va sottolineato che per un simile provvedimento gli inglesi non avevano nessuna autorizzazione, né morale né legale. Lo scrittore ebreo Arthur Koestler disse una volta in merito che una nazione aveva promesso la terra di una seconda nazione a una terza.

Lo storico israeliano Tom Segev nel suo libro “One Palestine, Complete”  fa riferimento a  una terza motivazione dietro la dichiarazione Balfour: l’antisemitismo. Molti politici inglesi infatti volevano sbarazzarsi per esempio degli ebrei che, durante la migrazione dalla Russia verso gli Stati Uniti erano rimasti sull’isola, e all’improvviso era possibile mandarli via col messaggio: “Guardate, i sionisti vi invitano in Palestina!”. E’ d’accordo con questo?

Le principali motivazioni sono quelle che ho menzionato, calcoli di potere dell’amministrazione britannica. Per quanto anche l’antisemitismo di alcuni politici abbia giocato un ruolo. Guardi lo stesso ministro degli esteri Arthur Balfour. La sua famosa lettera viene oggi fatta passare da molti come espressione di simpatia verso gli ebrei. Indubbiamente, però, in privato condivideva opinioni antisemite.

Nel 1905 Balfour era primo ministro e in parlamento impose l’adozione dell’Aliens Act, una legge che per la prima volta nella storia limitava l’emigrazione. Ufficialmente si trattava di combattere il crimine. Nella realtà però era diretta agli ebrei in fuga dai pogrom e dalle persecuzioni verso l’Inghilterra dalla Russia zarista e dall’Europa orientale .

Se davvero Balfour fosse stato interessato al benessere degli ebrei, lo avrebbe potuto dimostrare dodici anni prima della pubblicazione della sua famosa dichiarazione. Invece vediamo un politico che era antisemita e allo stesso tempo sosteneva il sionismo. Ma ciò non dovrebbe sorprendere, questi atteggiamenti non si escludono e Balfour non era l’unico in questa situazione. Il fondatore del sionismo Theodor Herzl osservò che gli antisemiti sarebbero diventati i più affidabili amici dei sionisti.

Che atteggiamento adottò l’opinione pubblica ebraica nei confronti del sionismo in Inghilterra?

La comunità ebraica era contro la dichiarazione Balfour, in Inghilterra i sionisti erano costituiti da un gruppetto di fanatici. L’unico membro ebreo del governo di David Loyd George era il segretario di Stato per l’India Edwin Samuel Montagu che nell’agosto 1917 presentò al governo un memorandum di quattro pagine sull’antisemitismo del governo [allora] attuale. Vi scriveva che l’ebraismo è una religione e niente affatto una nazionalità e per questo non ha senso pensare a un territorio per gli ebrei in Palestina. Obiettò anche che uno Stato ebraico in Palestina avrebbe minato la lotta per la parità dei diritti degli ebrei in Inghilterra, in Europa e altrove. Montegu su queste posizioni era assolutamente in accordo con la maggioranza degli ebrei inglesi. I sionisti attorno a Chaim Weizmann, per giunta, non erano ebrei originari dell’Inghilterra, ma stranieri che erano venuti da fuori. Il primo ministro David Loyd George tuttavia preferì le voci di questi radicali alle opinioni della comunità ebraica locale.

Cosa lo indusse a farlo?

Non il ministro Balfour, ma il Primo Ministro fu la forza determinante della dichiarazione. Il motivo era la sua convinzione dell’immensa influenza del mondo ebraico. Il capo della leadership sionista in Inghilterra Weizmann spesso ha deliberatamente nutrito una tale idea. Era l’anno della rivoluzione in Russia dove gli ebrei parteciparono fortemente agli eventi rivoluzionari. I sionisti stavano dando origine all’idea che, allo stesso modo, potevano influenzare la politica del governo americano. Per questo David Loyd George aveva presupposto che se fosse stato compiacente nei confronti dei sionsti ne avrebbe fruttato la benevolenza di Americani e Russi.

La realtà però era diversa e il Primo Ministro George, con il sostegno al progetto sionista, scommise sul presupposto errato e antisemita che dietro le fila della politica mondiale si nascondessero gli ebrei. Ma gli ebrei non avevano una tale influenza. Dal punto di vista inglese, l’adozione della dichiarazione Balfour fu un colossale errore strategico, cosa che già allora alcuni politici e diplomatici sottolinearono. Londra si inimicò tutto il mondo arabo e musulmano e solo pochi si ingraziarono i sionisti. Per questo quando se ne andarono dalla Palestina nel 1948 vennero considerati come nemici da entrambe le parti.

A oggi nessuno è d’accordo se gli inglesi fossero pro-ebrei o pro-arabi. Come descriverebbe in generale l’atteggiamento degli inglesi verso la questione palestinese dagli anni ’20 agli anni ’40?

La politca era chiara: appoggio ai sionisti. Iniziò con la dichiarazione Balfour che fu l’espressione iniziale del piano. Importante fu poi il mandato britannico della Palestina stabilito dalla Società delle Nazioni. Gli inglesi ricevettero il mandato nel 1920 e inserirono la dichiarazione Balfour nel preambolo del mandato. La promessa, originariamente solo inglese, divenne così un obbligo della comunità internazionale. Solo che la dichiarazione Balfour aveva due parti: l’imposizione della creazione di un focolare ebraico e, al contempo, la difesa dei diritti civili e religiosi del novanta per cento della maggioranza non ebraica della popolazione palestinese. Ma questa parte Londra la ignorò completamente.

Gli inglesi durante il loro governo in Palestina fecero di tutto per impedire l’adempimento di qualsiasi principio democratico o l’organizazzione delle elezioni come avevano richiesto gli arabi cristiani e musulmani. Gli inglesi, durante l’intero periodo del mandato, in modo implicito, ostacolarono soprattutto qualunque organizzazione rappresentativa perché nel paese gli arabi avevano la maggioranza.

Quando lo Stato Islamico nel 2014 ha conquistato la frontiera fra Iraq e Siria in modo cerimonioso ha distrutto i cartelli di confine liquidando in questo modo il sistema Sykes-Picot. Ora l’Isis è in rovina, ma non è possibile che l’organizzazione riemerga di nuovo e che possa ancora attaccare  l’assetto che cent’anni fa hanno impresso le forze occidentali al Vicino Oriente?

Quello che hanno instaurato le forze occidentali dopo la Prima Guerra mondiale è stato illegittimo. E’ stata la pace dei vincitori imposta alla regione senza riguardo nei confronti  della volontà e dei diritti della popolazione locale. La dichiarazione Balfour è la prova di come funzionava. I confini sono stati creati in modo illegittimo, artificialmente e senza riguardo verso la popolazione. Anche i sistemi politici sono stati imposti in modo illegittimo.

Gli inglesi hanno impedito l’instaurazione della democrazia ovunque governassero, non solo in Palestina ma anche in Iraq. Insediarono come re locale Faysal, della regione dell’Hegiaz, ma era solo una marionetta, un mezzo affinché Londra controllasse la regione.

Chiamo questi infausti eventi sindrome post-ottomana, che a oggi destabilizza le terre dal Golfo Persico al mar Mediterraneo.

Intanto i poteri insistono per il mantenimento dei confini stabiliti: quando nell’agosto del 1990 Saddam Hussein occupò il Kuwait, contro l’Iraq si formò un’ampia coalizione internazionale. Recentemente, a sostegno dell’Occidente, i curdi iracheni vanamente erano in attesa di un referendum sull’indipendenza…  

L’unica eccezione è Israele dove, a oggi, i confini non sono fissati. Siamo in una situazione in cui Israele parla di pace e sicurezza ma rifiuta di stabilire dove si trovano i suoi confini. Sono stabiliti con Egitto e Giordania, con cui Israele ha concluso trattati di pace ed entrambi gli stati arabi li osservano.

Sulla base del principio “terra per la pace” si trattò anche del patto di Israele con la Siria, ma quel processo è fallito perché Israele avrebbe dovuto restituire le alture del Golan.

Il più problematico è il confine orientale dove Israele dovrebbe cedere il controllo della Cisgiordania ai palestinesi. Però si rifiuta di farlo, così dà l’impressione di preferire la terra alla pace. E con questo arriviamo a un altro problema spinoso: gli insediamenti ebraici nei territori occupati. Non si può occupare la terra di qualcuno e allo stesso tempo trattare con lui di pace; o l’una o l’altra.

La questione degli insediamenti è anche un fattore di forma nella politica interna israeliana. Ci sono stati dei momenti in cui anche il premier Netanjahu ha finto di essere per la soluzione dei due stati. Prima delle scorse elezioni ha però detto in modo categorico che durante il suo governo non permetterà, in nessun caso, la nascita di uno stato palestinese indipendente, e lo ha ripetuto quest’anno a Londra, a novembre.

Quindi la speranza in una risoluzione equa del conflitto arabo-ebraico non la vede?

Temo che una soluzione di pace non sia possibile. La causa principale è la condizione di squilibrio di entrambe le parti. I palestinesi, in confronto a Israele, sono sotto tutti gli aspetti considerevolmente più deboli. Da ciò ne consegue che un accordo, a cui entrambe le parti dovrebbero aderire volontariamente, è impossibile. Una parte è troppo debole, l’altra troppo forte. Per questo l’occupazione israeliana continuerà. L’unica speranza in questa situazione è l’intervento di una terza parte, nello specifico gli USA. Però non sono dei mediatori leali poiché sono chiaramente dalla parte di Israele. Gli americani, invece di sforzarsi di bilanciare entrambi i protagonisti impari, passano dalla parte del più forte, Israele. Gli USA gli forniscono armi, soldi e consigli diplomatici. Israele si prende le armi, i soldi, ma ignora i consigli.

Un altro problema è che questo sostegno americano a Israele è incondizionato, e così fa praticamente qualunque cosa senza pagare in nessun modo. Ogni volta che nel Consiglio di sicurezza dell’Onu c’è una proposta di risoluzione che critica Israele, l’America vi pone il veto…

Non ogni volta…

Sì, l’anno scorso a dicembre, prima della fine del governo Obama, gli USA eccezionalmente su una non posero il veto. Ma non appena subentrò il nuovo presidente, Donald Trump, questa decisione venne annullata. E la sua decisione di dicembre di riconoscere Gerusalemme capitale di Israele è la dimostrazione più eclatante che gli USA non sono un mediatore onesto, bensì l’avvocato di Israele.

Trump ha completamente fatto saltare cinquant’anni di supporto sovrannazionale statunitense per una soluzione a due stati, soprattutto perché ha riconosciuto la sovranità israeliana non solo nella parte ovest ebraica,  ma anche a Gerusalemme est, araba.

I sostenitori di Israele argomentano che merita sostegno poiché si tratta di uno stato democratico.

Faccio una piccola correzione. E’ vero che a Israele piace presentarsi come una democrazia attorniata da un mare di totalitarismi. Nella realtà, in una certa maniera, però non lo è. E’ una etnocrazia, un sistema in cui un gruppo etnico domina un altro gruppo etnico. Guardi la Cisgiordania sotto controllo israeliano: un sistema legale per gli ebrei, soggetti al diritto civile israeliano, e accanto a questo un sistema  giuridico militare per i palestinesi.

Grazie alla continua protezione da parte degli USA, a Israele viene concesso qualsiasi cosa. Negli ultimi dieci anni  ha attaccato la Striscia di Gaza tre volte, hanno avuto luogo crimini di guerra, migliaia di civili hanno sofferto, come è stato documentato anche dagli osservatori dell’Onu. Tuttavia Israele in nessun modo è stato punito per questo. Gli attacchi contro i civili – sottolineo che non sto parlando di azioni contro i militanti di Hamas, ma di civili – non avevano nessuna giustificazione.

Il più grande conflitto dell’ultimo decennio è stato preceduto da un cessate il fuoco entrato in vigore nel giugno 2008. All’inizio di novembre di quell’anno però Israele attaccò Gaza uccidendo sei combattenti di Hamas, e il cessate il fuoco è saltato. Se per Israele si trattasse solo della protezione dei propri cittadini, come afferma, gli basterebbe mantenere la tregua.

I media israeliani hanno ipotizzato che, con le imminenti elezioni anticipate, il ministro della Difesa Ehud Barak volesse dimostrarsi un leader forte, e per questo causò quel conflitto. Ma se torniamo al sostegno incondizionato degli Stati Uniti a Israele, l’Europa, allo stesso modo, non supporta in modo incondizionato la Palestina? Qualunque cosa faccia, Bruxelles le invia centinaia di milioni di euro.

La cosa è un po’ diversa. Israele è la forza occupante. Sebbene nel 2005 si sia ritirato da Gaza, si è trattato di una mossa a senso unico. Israele ha ancora pieno controllo dei confini, dello spazio aereo e della zona costiera della Striscia di Gaza, così, dal punto di vista del diritto internazionale, continua a essere responsabile di quest’area come potenza occupante. Una gran parte degli aiuti internazionali, non solo a Gaza ma anche in Cisgiordania, è in realtà il finanziamento dell’occupazione israeliana. Invece che, come stabilisce l’ordinamento giuridico internazionale, sia la potenza occupante ad assicuarare il fabbisogno alla popolazione civile, questo è finanziato dalle organizzazioni internazionali, dall’Unione europea, dai governi europei e via dicendo. E questo contribuisce a far sì che Israele non abbia nessun motivo di ritirarsi dai territori occupati;  il dominio sui palestinesi non gli costa niente, il conto per lui lo paga qualcun altro.

Assegnare, anche solo ipoteticamente, il governo a qualcuno di parte palestinese, non è semplice: a Gaza il governo Hamas ha governato dieci anni, in Cisgiordania Fatah, solo nelle ultime settimane è in corso un tentativo più speranzoso di creazione di una amminstrazione congiunta…

Certo, ma ha una sua genesi, non è venuto da sé. Nel gennaio 2006 nei territori dell’Autorità paletinese si sono tenute le elezioni parlamentari dove Hamas ha vinto in modo inequivocabile. Tutto era controllato da circa 300 osservatori stranieri che documentarono la regolarità delle elezioni. Ma Israele respinse il risultato di quelle elezioni e analogalmente si comportarono così anche gli americani e iniziarono a complottare con Fatah su come capovolgere il risultato delle elezioni.

Ricordo le mie interviste, in quel periodo, con i rappresentanti di Fatah che in segreto dicevano: Aspetti ciò che accadrà…

E cos’è accaduto? E’ nato il governo di unità nazionale palestinese, se non che  Israele, Fatah, funzionari militari statunitensi nella regione e i servizi segreti egiziani prepararono subito un piano per spodestare Hamas. Hamas ha prevenuto il putsch assumendo violentemente il controllo della Striscia di Gaza nel giugno 2007 e Fatah  viceversa ha preso il controllo della Cisgiordania. E così Israele ha imposto il blocco su Gaza che dura ancora oggi e sta inasprendo fortemente la vita di due milioni di abitanti.

Quindi da un lato l’Occidente invita alla democrazia, ma se i palestinesi molto coscienti sfruttano l’occasione e in modo politico eleggono la loro leadership, allora lo stesso Occidente, insieme ad Israele, straccia il risultato elettorale come un pezzo di carta perché i palestinesi hanno eletto un partito che non gli va bene.

Ma  potrebbero esserci delle ragioni per una tale presa di posizione, per esempio Hamas, nel suo statuto, chiede l’eliminazione di Israele nella Palestina storica. 

Mi sta solo ripetendo la propaganda israeliana. Lo statuto di Hamas è un esecrabile documento antisemita. Però se segue attentamente il modo di fare dei leader di Hamas, scoprirà che nessuno fa più riferimento allo statuto. Hamas ha un’ala armata accanto alla quale esiste una leadership politica formata per lo più da persone molto istruite che a poco a poco cercano di far valere un programma moderato, compresa una proposta di tregua di lungo periodo che Israele ha rigettato.

Negli ultimi anni sulla scena palestinese è comparsa una nuova forza: non più Hamas che parla solo di lotta contro l’occupazione della Palestina, ma gruppi che si rifanno al Jihad globale ispirato ad al-Qaeda o allo Stato Islamico e per cui Hamas, che stipula accordi con Israele, è un’organizzazione collaborante. Non c’è il pericolo che estremisti prendano il  potere?

Il premier israeliano Netanjahu dice che non c’è nessuna differenza fra Hamas e al-Qaeda o l’Isis…

Allo stesso modo si è espresso il presidente ceco Miloš Zeman che due anni fa, al congresso dell’organizzazione americana pro-Israele AIPAC, ha affermato che l’Hezbollah sciita deriva dalla Fratellanza musulmana sunnita…

Con tutto rispetto, il presidente  Zeman non sa di cosa parla. Fino a poco tempo fa pensavo che il più cieco sostenitore di Israele in Europa fosse la premier May. Ma quando sono venuto nella Repubblica Ceca ho scoperto che, sotto quest’aspetto, il vostro presidente è ancora più cieco e ignorante. Non so da cosa derivi, ma non ha la minima idea di come sia complessa la situazione in Medio Oriente.

Benjamin Netanjahu sa davvero perché Hamas è a fianco di al-Qaeda?

E’ parte della propaganda. Vuole screditare Hamas agli occhi del mondo, delegittimare i suoi sforzi e ogni sua richiesta. Sebbene Hamas sia un movimento nazionalista con un’agenda limitata alla questione palestinese, in confronto con i jihadisti globali è molto moderata.

Quindi non c’è un pericolo che alla fine perda in un duello interno in Palestina?

Il pericolo che sempre più palestinesi, soprattutto a Gaza, si uniscano al jihadismo, esiste. Purtroppo Israele contribuisce a questo. Hamas, in modo sempre più esplicito, punta al mainstream, inizia a propendere per la soluzione della coesistenza di due stati. Ma ogni qualvolta tenta di unirsi al governo di unità nazionale palestinese, Israele intraprende un’azione militare a Gaza, inasprisce la crisi locale, e così di nuovo divide politicamente Gaza dalla Cisgiordania.

Di conseguenza, per i palestinesi  il movimento Fatah diventa sempre più un’organizzazione collaborante e perde legittimità, mentre Hamas si propone come organizzazione che, coraggiosamente, combatte contro l’occupazione. Da questa logica si deduce che i gruppi jihadisti possono ottenere maggiore popolarità.

La Primavera araba e le persistenti ondate sanguinose dei conflitti intra-arabe non hanno dimostrato che quello arabo-iraeliano è piuttosto marginale?

E’ vero che dopo il 2011 gli eventi che ha menzionato hanno attirato maggior attenzione. Tuttavia la questione palestinese è un tema che unisce tutto il mondo arabo. Recentemente si è parlato di come l’Arabia Saudita, dietro le quinte, si avvicini a Israele nelle questioni di sicurezza internazionale. Al contempo, però, Riyad considera gli interessi palestinesi come uno degli elementi chiave della propria politica estera.

Non sto affermando che con l’appianare il conflitto israelo-palestinese si sistemino tutti gli altri. Ciononostante sono convinto che se finisse questo contrasto, aiuterebbe considerevolmente la risoluzione anche delle altre questioni regionali.

 

Trad. Clara Urban – Invictapalestina.org

Fonte: http://ceskapozice.lidovky.cz/sto-let-vytesnovani-arabu-v-palestine-dxr-/tema.aspx?c=A171227_000320_pozice-tema_lube

 

 

Avi Shlaim 

  • Storico e professore emerito di relazioni internazionali alla Oxford university, membro della British Academy
  • Di famiglia ebraica, nasce a Baghdad, durante l’infanzia emigra in Israele con la famiglia.
  • Appartiene ai così detti nuovi storici che spesso descrivono la storia israeliana in contraddizione con l’interpretazione ufficiale sionista, spesso riguardo alle recenti pubblicazioni d’archivio rese accessibili.
  • Il libro più famoso di Shlaim è The Iron Wall: Israel and the Arab World (2001) [Tradotto in italiano, nel 2003, dalla Casa editrice il Ponte con il titolo “Il muro di ferro. Israele e il mondo arabo“.]

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