Israele vede la campagna internazionale di boicottaggio come una minaccia all’esistenza allo Stato ebraico. I Palestinesi la considerano la loro ultima risorsa.
Foto: Proteste anti-israeliane a Cape Town, in Sudafrica, a maggio. Una fotografia: Nic Bothma / EPA
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Nathan Thrall – 14 agosto 2018
Video tradotto e inserito nel contesto da Invictapalestina.
Il movimento per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni contro Israele – noto come BDS – ha fatto un po’ ammattire il mondo. Sin dalla sua fondazione tredici anni fa, si è guadagnato quasi lo stesso numero di nemici sia tra gli Israeliani che tra i Palestinesi. Ha intralciato gli sforzi degli Stati arabi per interrompere il loro pluridecennale boicottaggio a favore di una cooperazione sempre più aperta con Israele. Ha svergognato il governo dell’Autorità Palestinese a Ramallah denunciando la sua collaborazione sicuritaria ed economica con l’esercito e l’amministrazione militare israeliana. Ha irritato l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina invadendo la sua posizione, riconosciuta a livello internazionale, di difensore e rappresentante dei Palestinesi in tutto il mondo.
Ha fatto infuriare il governo israeliano cercando di trasformarlo in un lebbroso agli occhi dei liberali e dei progressisti. Ha esasperato ciò che resta del partito della pace israeliano allontanando i Palestinesi dalla lotta contro l’occupazione a favore di quella contro l’apartheid. Ha provocato una campagna di contrasto così antidemocratica da parte del governo israeliano da far temere ai liberali israeliani per il futuro del loro Paese. E ha causato grossi grattacapi ai governi europei che fanno donazioni ai Palestinesi, messi sotto pressione da Israele per non collaborare con organizzazioni che sostengono il BDS nei territori palestinesi, una richiesta impossibile dato che quasi tutti i principali gruppi della società civile a Gaza e in Cisgiordania sostengono il movimento.
In un’epoca di responsabilità sociale delle imprese, il BDS ha causato cattiva pubblicità a importanti aziende legate all’occupazione israeliana (Airbnb, Re / Max, HP) e ha contribuito a spingere altre grandi aziende fuori dalla Cisgiordania. Ha ostacolato festival cinematografici, concerti e mostre in tutto il mondo. Ha irritato organizzazioni accademiche e sportive politicizzandole, chiedendo loro di prendere posizione rispetto al conflitto. Ha innervosito artisti e artiste palestinesi che lavorano con le istituzioni israeliane, accusandoli di dare copertura palestinese alle violazioni dei diritti umani di Israele.
Nel Regno Unito, il BDS ha provocato subbuglio nei tribunali e nei consigli locali, coinvolgendoli in dispute sulla legalità dei boicottaggi locali dei beni provenienti dagli insediamenti. Negli Stati Uniti, ha indotto due dozzine di Stati a elaborare progetti di legge o emettere ordinanze che reprimono o penalizzano chi boicotta Israele o i suoi insediamenti, scavando un solco tra gli alleati di Israele e i sostenitori della libertà di parola come l’American Civil Liberties Union. Sempre negli USA ha acceso dibattiti nelle chiese protestanti, alcune delle quali, anche molto grandi, hanno disinvestito dalle società che traggono profitto dall’occupazione israeliana. È diventato l’assillo degli amministratori dei college, costretti a pronunciarsi sulle lamentele dei professori e degli studenti sostenitori del BDS che denunciano come la loro libertà di parola sia stata soffocata, e sui reclami della Facoltà Sionista, i cui donatori e studenti affermano che i loro campus sono diventati spazi “non sicuri”. Ha attirato i liberali verso un maggiore sostegno per i Palestinesi, rendendo Israele una questione sempre più di parte, associata più a Trump, agli Evangelici e all’estrema destra che non ai democratici e ai progressisti.
Nella diaspora ebraica, il BDS ha creato nuove fratture nel centro-sinistra, stretto in una morsa tra i sostenitori del governo israeliano di destra e degli insediamenti da una parte, e dalla sinistra non-sionista dall’altra. Ha spinto i Sionisti liberali a domandarsi perché accettano il boicottaggio dei prodotti dagli insediamenti, ma non il boicottaggio dello Stato che li ha creati e che li sostiene. Ha costretto i sostenitori più critici di Israele a dover giustificare la loro opposizione a forme di pressione non violenta su Israele, quando l’assenza di una pressione reale ha fatto si che nulla fosse fatto per porre fine all’occupazione o all’espansione degli insediamenti. Ha addossato ai Sionisti liberali l’onere di difendere il loro sostegno non all’ideale astratto di come sperano Israele possa un giorno diventare, ma alle attuali e continue pratiche dello Stato, compresi gli espropri della terra palestinese a favore degli insediamenti ebraici; detenzione di centinaia di Palestinesi senza processo o accusa; punizione collettiva di due milioni di abitanti di Gaza che vivono sotto un assedio più che decennale; disuguaglianza istituzionalizzata tra cittadini ebrei e cittadini palestinesi. Il BDS ha privato i sostenitori liberali di Israele della scusa che le cause delle pratiche antidemocratiche dello Stato sono un’occupazione aberrante o governi di destra.
Forse la cosa più significativa è che il BDS ha sfidato il consenso della comunità internazionale sulla soluzione dei due Stati. In tal modo ha sconvolto l’intero settore presente all’interno del processo di pace in Medio Oriente, a partire dalle organizzazioni senza scopo di lucro, alle missioni diplomatiche e ai gruppi di esperti minando la loro premessa centrale: che il conflitto possa essere risolto semplicemente ponendo fine all’occupazione israeliana di Gaza, di Gerusalemme Est e della West Bank, lasciando irrisolti i diritti dei cittadini palestinesi di Israele e dei Rifugiati.
Per molti ebrei della diaspora, il BDS è diventato un simbolo del male e un ricettacolo di terrore, una forza nefanda che trasforma il dibattito israelo-palestinese da una negoziazione sulla fine dell’occupazione e la divisione del territorio, in una discussione sulle radici più antiche e profonde del conflitto: il dislocamento originario della maggior parte dei Palestinesi e l’istituzione di uno Stato ebraico sulle rovine dei loro villaggi conquistati. L’emergere del movimento BDS ha riacceso vecchie domande sulla legittimità del Sionismo, su come giustificare il privilegio dei diritti ebraici rispetto ai non ebrei, e sul perché in altri conflitti, ma non in questo, i Rifugiati possano tornare alle loro case. Soprattutto, ha evidenziato una questione imbarazzante che non può essere trascurata indefinitamente: se Israele, anche nel caso dovesse cessare la sua occupazione della Cisgiordania e di Gaza, possa essere sia una democrazia che uno Stato ebraico.
Nella città vecchia di Betlemme, lungo una via serpeggiante vicino al souk e a Piazza Manger, si erge un secolare edificio in calcare che ora funge da quartier generale della Holy Land Trust, un’organizzazione palestinese dedita alla resistenza non violenta all’occupazione israeliana. Sami Awad, il fondatore del no-profit, ha un ufficio all’ultimo piano; sui suoi scaffali si allineano libri d’importanti teorici e attivisti della disobbedienza civile: Gene Sharp, Mahatma Gandhi, Nelson Mandela e Martin Luther King Jr, tutte figure prominenti nei loro insegnamenti, nella scrittura e persino nel linguaggio occasionale.
Awad s’incontra spesso con delegazioni di Ebrei israeliani e americani; a differenza di molti attivisti palestinesi, non esita a discutere il legame ebraico con questa terra: “Posso negarlo finché il regno non verrà. Ma è molto profondo e molto emotivo”. Allo stesso tempo, parla candidamente di occupazione e razzismo, e insiste sul fatto che Israele non darà mai la libertà ai Palestinesi, salvo che non venga forzato.
“Nessun gruppo di oppressori decide volontariamente, solo per essere moralmente corretto, di cambiare il suo comportamento”, mi ha detto. “Qualcosa deve accadere: attivismo, resistenza, boicottaggio”.
Ebrei e Arabi si sono boicottati gli uni gli altri sin dagli albori del Sionismo. Nei decenni che precedettero la fondazione di Israele, il movimento sionista intraprese campagne per boicottare i lavoratori arabi, rifiutare i prodotti arabi, escludere gli Arabi dalle comunità residenziali ebraiche e proibire l’acquisto di terre di proprietà ebraica da parte di Arabi. Il quinto Congresso arabo della Palestina chiese un boicottaggio dei beni ebraici nel 1922. Dopo che Israele occupò la Cisgiordania e Gaza nel 1967, gli avvocati palestinesi boicottarono le corti israeliane e gli insegnanti scesero in sciopero con lo slogan “nessuna istruzione sotto occupazione”. Israele rispose a questi e ad altri atti di disobbedienza civile con arresti, multe, restrizioni di viaggio, chiusure di negozi, coprifuoco e deportazione di insegnanti, avvocati, sindaci e presidi universitari.
Lo zio di Sami, Mubarak Awad, fu un pioniere della resistenza nonviolenta palestinese negli anni ’80: Mubarak incoraggiò i Palestinesi a rispedire fatture scritte esclusivamente in ebraico, a rifiutare le citazioni in tribunale e a sventolare la bandiera palestinese, atto causa di arresto. Ispirato dal boicottaggio del cotone britannico da parte di Gandhi, sollecitò la sostituzione dei prodotti israeliani con quelli palestinesi.
Fu durante la prima intifada, la sollevazione popolare contro l’occupazione iniziata nel 1987, che il programma promosso da Mubarak e da altri ebbe la possibilità di esprimersi pienamente. Le tattiche che aveva promosso in piccole aule e su riviste accademiche erano ora ampiamente utilizzate da un movimento popolare sostenuto da importanti partiti politici: i consumatori boicottavano beni e servizi israeliani, i lavoratori delle industrie israeliane si rifiutavano di lavorare, i negozi chiusi all’unisono, i clienti ritiravano i fondi dalle banche israeliane, i residenti si rifiutavano di pagare le tasse e la maggior parte degli esattori delle tasse palestinesi e membri della polizia si dimisero. La Banca di Israele riferì che durante il primo anno della rivolta il boicottaggio palestinese costò a Israele 650 milioni di dollari ($ 1,4 miliardi oggi). Mubarak fu accusato di “fomentare una ribellione contro lo Stato”; come dozzine di altri, fu deportato da Israele durante il primo anno dell’intifada.
Sami Awad fu mandato dai suoi genitori in Kansas per continuare i suoi studi. Quando tornò a Betlemme nel 1996, la città era stata trasformata dal processo di pace di Oslo. Decine di migliaia di funzionari e combattenti dell’OLP erano tornati dall’esilio nei Paesi Arabi e si erano trasferiti in Cisgiordania e a Gaza, e ora erano funzionari della neonata amministrazione palestinese. La cultura della resistenza era stata sostituita da quella della coesistenza. Fiorì un’industria della pace, con fondi stranieri che scorrevano in abbondanza per finanziare i gruppi di dialogo, le ONG e le iniziative dirette tra persone. Awad, come la maggior parte dei Palestinesi, era ottimista sul fatto che la pace fosse all’orizzonte.
Nel giro di due anni, il suo ottimismo svanì. La nascente amministrazione palestinese istituita in seguito agli accordi di Oslo del 1993 sembrava più un crescente Stato di polizia che non una fiorente democrazia che avrebbe portato all’indipendenza della West Bank e di Gaza riuniti in un unico Paese. Sentiva un’infinità di discorsi sulla pace e sulla coesistenza, ma ciò che vedeva sul campo era una maggiore segregazione e maggiori limitazioni alla sua libertà. Le aree autonome palestinesi nella West Bank erano piccole isole sconnesse, 165 delle quali erano circondate da un mare di territorio sotto il controllo israeliano. All’interno di quel mare – il 60% della Cisgiordania è off limits per il governo palestinese – Israele confiscava terreni per gli insediamenti, demoliva edifici palestinesi e forniva incentivi finanziari per la crescita della popolazione dei coloni. Se Oslo era la strada per una soluzione a due Stati, Awad cominciava a chiedersi se quella fosse la destinazione che voleva raggiungere.
Quando nel settembre del 2000 scoppiò la seconda intifada, con gli attentati suicidi dei Palestinesi e con l’invasione e gli attacchi missilistici israeliani, le attività di dialogo e di pacificazione di gruppi come l’Holy Land Trust s’interruppero. Per Awad, l’attenzione era ora concentrata sulla resistenza nonviolenta, che non era né popolare né semplice. Dopo la guerra del 1948, fu il periodo più sanguinoso dei combattimenti israelo-palestinesi. Più di 3000 Palestinesi e 1.000 Israeliani furono uccisi. La militarizzazione dell’Intifada aveva reso pericoloso affrontare Israele in qualsiasi modo, anche pacificamente.
Eppure Awad e altri attivisti riuscirono a ritagliarsi un piccolo spazio per la resistenza nonviolenta. Manifestarono contro la confisca delle terre in Cisgiordania e, dopo il 2002, contro la costruzione di quello che gli Israeliani definiscono una barriera di sicurezza e i Palestinesi chiamano il muro dell’apartheid. La barriera – un mix di lastre di cemento alte otto metri, recinzioni e filo spinato – taglia la West Bank e Gerusalemme, dividendo i Palestinesi gli uni dagli altri e gli abitanti dei villaggi dalle loro terre. Con la barriera, Israele si è effettivamente annesso quasi il 10% della Cisgiordania. Nella parte occupata di Gerusalemme Est, fino a un terzo dei residenti palestinesi è stato isolato dalle scuole, dalle cliniche e dai luoghi di lavoro. Una densa folla di abitanti di Gerusalemme e della Cisgiordania poteva essere vista alle quattro e alle cinque del mattino, ammucchiata come bestiame, mentre avanzava a passo lento attraverso i checkpoint ingabbiati per raggiungere l’altro lato del muro.
Mentre l’escalation della violenza della seconda intifada continuava, crebbe una campagna di solidarietà internazionale con i Palestinesi. Nei primi mesi della rivolta, gli studenti dell’Università di Berkeley, in California, eressero finti checkpoint e mostrarono striscioni che recitavano “Disinvestiamo dall’apartheid israeliano”. La facoltà di Harvard firmò una petizione per il disinvestimento nel 2002. A Durban, in Sudafrica, contemporaneamente a una controversa “Conferenza mondiale contro il razzismo” sponsorizzata dall’ONU, rappresentanti di circa 3.000 ONG invitarono la comunità internazionale a imporre verso Israele, come stato di apartheid, una politica di completo e totale isolamento. Campagne di boicottaggio e disinvestimento si diffusero nei campus statunitensi, britannici ed europei, ottenendo il sostegno di numerosi accademici israeliani e di un gran numero di Palestinesi.
In Cisgiordania e a Gaza arrivarono attivisti internazionali e Israeliani offrendo il loro sostegno. La loro presenza forniva protezione ai dimostranti palestinesi, poiché in loro presenza l’esercito israeliano agiva in modo più cauto. Awad lavorava ancora con gli Israeliani, ma ora insisteva sul fatto che qualsiasi cooperazione fosse basata non sulla coesistenza, ma sulla co-resistenza, con i Palestinesi in testa. Fu colpito da lacrimogeni, picchiato e detenuto insieme a membri di gruppi di azione diretta come l’International Solidarity Movement, i Christian Peacemaker Teams e gli Israeliani di Anarchici Contro Il Muro.
Dopo una settimana o più tra gli abitanti dei villaggi palestinesi, gli attivisti stranieri sarebbero tornati nei loro campus, nei gruppi parrocchiali e nei sindacati, spiegando che c’era un movimento di resistenza nonviolenta palestinese, ancora poco conosciuto, che poteva essere sostenuto attraverso il disinvestimento e il boicottaggio. Il primo disinvestimento da parte di un’istituzione americana d’istruzione superiore, l’Hampshire College – che già era stata la prima scuola americana a disinvestire dal Sud Africa – fu capeggiato da uno studente israeliano di nome Matan Cohen, che a 17 anni era stato colpito a un occhio da un proiettile israeliano durante una dimostrazione contro la barriera di separazione. L’attivismo nonviolento della seconda intifada fu il preludio di quella che sarebbe diventata una campagna mondiale di boicottaggio.
Trad: Grazia Parolari “contro ogni specismo, contro ogni schiavitù”
Invictapalestina.org
Fonte: https://www.theguardian.com/news/2018/aug/14/bds-boycott-divestment-sanctions-movement-transformed-israeli-palestinian-debate