Già da molto tempo prima di morire in un incidente sul lavoro in un cantiere israeliano la vita di Muhamad Barghouth era dettata dai capricci violenti dell’occupazione militare.
Aviv Tatarsky, 5 novembre 2018
Copertina – Un ragazzo palestinese osserva un bulldozer che spiana la terra per il muro di separazione israeliano che circonda il villaggio di Walajeh, in Cisgiordania, 5 settembre 2011. (Ryan Rodrick Beiler)
Il mese scorso, il nipote di un mio caro amico è rimasto ucciso. Muhamad Bargouth, 22 anni, il cui nonno mi è stato vicino nel corso degli anni nelle mie numerose visite al villaggio palestinese di Walajeh, è rimasto ucciso in un incidente in un cantiere israeliano non molto lontano dalla sua casa di famiglia. Gli incidenti possono succedere. Ma la morte di Muhamad è stata più che un incidente: tutta la sua vita è stata segnata dalla violenza che l’occupazione israeliana ha fatto ricadere sulla sua famiglia e sul suo villaggio – violenza che ha anche indirizzato la sua vita verso quel cantiere in cui è morto.
Le forze di sicurezza israeliane negli anni ’90 hanno arrestato il padre e il nonno di Muhamad. Furono imprigionati entrambi per diversi mesi senza processo, mesi durante i quali furono torturati. Il padre di Muhamad non si è mai completamente ripreso dal danno fisico e psicologico.
Nel 2010, quando Muhamad aveva 14 anni, Israele iniziò a costruire la barriera di separazione sulla terra appartenente al suo villaggio, Walajeh, che si trova tra Gerusalemme e Betlemme. La barriera taglia attraverso l’appezzamento della sua famiglia, a meno di 60 metri da casa sua. Gli anni dell’adolescenza di Muhamad sono stati caratterizzati da esplosioni che hanno aperto buche nel paesaggio della sua infanzia e dai bulldozer israeliani che hanno sradicato i frutteti piantati da suo nonno. Da adolescente ha dovuto abituarsi ai gas lacrimogeni lanciati regolarmente e sparati contro i dimostranti nonviolenti che manifestavano lungo il percorso della barriera vicino a casa sua. Fu lì che assistette alle botte e agli arresti subiti dai suoi amici e parenti per mano dei soldati.
Muhamad si diplomò pochi anni dopo. In circostanze diverse avrebbe molto probabilmente continuato gli studi all’università, come fanno molti dei suoi coetanei che vivono nei territori occupati. È cresciuto con una famiglia vicina e solidale, con una nonna gentile e assertiva e un nonno carismatico e aperto, un capo nel consiglio del villaggio. Ma gli studi non hanno interessato molto Muhamad – è così quando cresci con un padre sopravvissuto alla tortura e quando sperimenti il trauma e la violenza della barriera di separazione che serpeggia a casa tua.
Anche senza un diploma universitario, Muhamad avrebbe potuto guadagnarsi da vivere con i frutti della terra; suo nonno era un abile agricoltore che conservava le antiche conoscenze agricole di generazioni. Ma il governo israeliano, che ambiva alla terra di Walajeh, ha costruito la barriera proprio accanto alle case degli abitanti del villaggio. Per facilitarne la costruzione, le autorità hanno sradicato 180 ulivi appartenenti alla famiglia di Muhamad, mentre altre decine sono finite sul lato “israeliano” della barriera.
Molte famiglie a Walajeh hanno affrontato perdite simili, in grado di cambiare la loro vita per mancanza di sostentamento. Israele ha costruito la barriera in modo tale da tagliare il villaggio da circa 300 acri di terra – per lo più terrazze di ulivi e una grande sorgente. Il comune di Gerusalemme ha trasformato rapidamente questa zona in un “parco nazionale per il benessere dei residenti di Gerusalemme”, su centinaia di ettari che erano già stati espropriati per costruire l’insediamento di Gilo. Nonostante Israele si sia annesso la terra di Walajeh, non ha annesso la gente che vive su di essa, rifiutandole lo status di residente permanente posseduto dalla maggior parte dei palestinesi a Gerusalemme Est. Non sono nemmeno cittadini di seconda classe.
Nel corso delle mie innumerevoli visite al villaggio negli anni ho assistito al deterioramento economico della famiglia Bargouth. Il nonno e gli zii di Muhamad, un tempo intraprendenti imprenditori, sono stati costretti alla disoccupazione e sempre più senza speranza. Spetta ai nipoti guadagnare per la famiglia. È così che Muhamad è venuto a lavorare nel cantiere in Israele dove è morto.
Occupazione non è un concetto astratto: la miriade di modi in cui influisce sulla vita dei palestinesi ha effetti che vanno ben oltre la privazione di un autogoverno. Persino i violenti incidenti che catturano l’attenzione dei media non ne trasmettono tutte le implicazioni. L’occupazione fa sì che ogni aspetto della propria vita sia dettato dalla volontà di un esercito straniero.
Anche la sepoltura di Muhamad avrebbe potuto essere dettata dai capricci dell’ occupazione. Anche gli ancestrali cimiteri della famiglia di Muhamad sono stati tagliati fuori dal villaggio dalla barriera, una decisione su cui l’Alta Corte di Israele ha messo il suo marchio di approvazione pochi anni fa.
Quando ho visitato la famiglia il giorno dopo il funerale, ho cercato di immaginare il nonno orgoglioso di Muhamad dover discutere con un ufficiale dell’esercito per il diritto di seppellire il proprio nipote accanto ai suoi antenati. Ho cercato di immaginare cosa potrebbe essere più doloroso: dover ottenere il permesso dell’esercito ogni volta che i genitori di Muhamad vogliono visitare la tomba, o sacrificare il diritto di seppellire il loro figlio lì per evitare di sopportare quel tipo di umiliazione.
Con trepidazione, ho chiesto al nonno di Muhamad dove hanno seppellito Muhamad. “L’abbiamo sepolto nel cimitero del villaggio,” lontano dalla casa della famiglia, ma almeno dal lato “palestinese” della barriera di separazione, ha risposto. “Sua madre sarebbe impazzita se la sua tomba fosse stata così vicina alla casa”.
Aviv Tatarsky è un attivista israeliano e un ricercatore per Ir Amim, una ONG israeliana che lavora per un’equa Gerusalemme. Questo post è stato originariamente pubblicato in ebraico su Local Call.
Traduzione: Simonetta Lambertini – invictapalestina.org