Martin Luther King Jr. parlò coraggiosamente della guerra del Vietnam. Dobbiamo fare lo stesso con questa grave ingiustizia del nostro tempo.
Michelle Alexander – 19 gennaio 2019
Foto di copertina: “Dobbiamo parlare con tutta l’umiltà della nostra visione limitata, ma dobbiamo parlare”, dichiarò il Rev. Dr. Martin Luther King Jr. alla Riverside Church di Manhattan nel 1967. (CreditCreditJohn C. Goodwin)
Il 4 aprile 1967, esattamente un anno prima del suo assassinio, il Rev. Dr. Martin Luther King Jr. si avvicinò al leggio della Riverside Church di Manhattan. Gli Stati Uniti stavano attivamente combattendo in Vietnam da due anni e decine di migliaia di persone erano state uccise, inclusi circa 10.000 soldati americani. L’establishment politico – da sinistra a destra – sosteneva la guerra, e più di 400.000 membri del servizio americano erano in Vietnam, in prima linea.
Molti dei più forti alleati di King lo esortavano a rimanere in silenzio riguardo alla guerra, o almeno a rallentare ogni critica. Sapevano che se avesse detto tutta la verità su quella guerra ingiusta e disastrosa, sarebbe stato falsamente etichettato come un comunista, avrebbe subito ritorsioni e forti contraccolpi, avrebbe allontanato i sostenitori e minacciato il fragile progresso del movimento per i diritti civili.
King rifiutò tutti i buoni consigli e disse: “Stanotte sono qui in questa magnifica casa di culto perché la mia coscienza non mi lascia altra scelta”. Citando una dichiarazione di “Clergy and Laymen Concerned About Vietnam” disse: “Arriva un tempo in cui stare in silenzio è tradimento “e aggiunse,” per noi quel tempo è arrivato riguardo al Vietnam “.
Era una posizione etica ma solitaria. E ne subì le conseguenze. Ma fornisce un esempio di ciò che in tempi di crisi ci viene richiesto se vogliamo onorare i nostri valori più profondi, anche quando il silenzio servirebbe meglio i nostri interessi personali o le comunità e le cause che ci stanno più a cuore. È quello a cui penso quando passo in rassegna le scuse e le razionalizzazioni che mi hanno tenuta in silenzio su una delle grandi sfide morali del nostro tempo: la crisi in Israele-Palestina.
Non sono stata l’unica. Fino a poco tempo fa, l’intero Congresso è rimasto per lo più in silenzio sulle costanti e sempre più numerose violazioni dei diritti umani nei Territori Occupati. I rappresentanti che abbiamo eletto, che operano in un ambiente in cui la lobby politica di Israele detiene un potere ben documentato, hanno costantemente minimizzato e deviato le critiche allo Stato di Israele, nonostante questo si sentisse sempre più incoraggiato nella sua occupazione del territorio palestinese e se continui ad adottare pratiche che ricordano l’ apartheid in Sud Africa e la legge della segregazione di Jim Crow negli Stati Uniti.
Anche molti attivisti e organizzazioni per i diritti civili sono rimasti in silenzio, non perché non simpatizzino o non si preoccupino del popolo palestinese, ma perché temono la perdita di fondi dalle fondazioni per false accuse di antisemitismo. Si preoccupano, come ho fatto io una volta, che il loro importante lavoro di giustizia sociale venga compromesso o screditato da campagne diffamatorie.
Allo stesso modo, molti studenti hanno paura di esprimere sostegno ai diritti dei Palestinesi a causa delle tattiche maccartiste di organizzazioni segrete come la Canary Mission, che inseriscono in una lista nera coloro che osano pubblicamente sostenere il boicottaggio contro Israele, mettendo a repentaglio le loro prospettive di lavoro e le loro future carriere.
Leggendo il discorso di King a Riverside più di 50 anni dopo, non ho dubbi che i suoi insegnamenti e il suo messaggio ci impongano di parlare appassionatamente della crisi dei diritti umani in Israele-Palestina, nonostante i rischi e nonostante la complessità del problema. King sostenne, parlando del Vietnam, che anche “quando le questioni a portata di mano sembrano sconcertanti, come spesso accade nel caso di questo terribile conflitto, non dobbiamo essere bloccati dall’incertezza. Dobbiamo parlare con tutta l’umiltà della nostra visione limitata, ma dobbiamo parlare”.
E così, se vogliamo onorare non solo il King uomo, ma anche il suo messaggio, dobbiamo condannare le azioni di Israele: violazioni costanti del diritto internazionale, occupazione continua della Cisgiordania, di Gerusalemme Est e di Gaza, demolizioni di case e confische di terre. Dobbiamo urlare sul trattamento dei Palestinesi ai posti di blocco, sulle perquisizioni abituali delle loro case e sulle restrizioni de loro movimenti, e sull’accesso drasticamente limitato che molti di loro hanno ad alloggi decenti, scuole, cibo, ospedali e acqua .
Non dobbiamo tollerare neppure il rifiuto di Israele di discutere del diritto dei rifugiati palestinesi di tornare alle loro case,così come previsto dalle risoluzioni delle Nazioni Unite, e dovremmo contestare i fondi del governo USA che hanno sostenuto gli attacchi a Gaza con migliaia di vittime civili , così come i 38 miliardi di dollari che il governo degli Stati Uniti ha promesso come aiuto militare a Israele.
E infine, dobbiamo, con tutto il coraggio e la convinzione di cui siamo capaci, pronunciarci contro il sistema di discriminazione legale che esiste all’interno di Israele, un sistema costituito, secondo Adalah, il Centro Legale per i Diritti delle Minoranze Arabe in Israele, da oltre 50 leggi che discriminano i Palestinesi – come la nuova legge dello Stato Nazione che afferma esplicitamente che solo gli Israeliani ebrei hanno il diritto all’autodeterminazione in Israele, ignorando i diritti della minoranza araba che costituisce il 21% della popolazione.
Certamente, ci saranno quelli che affermano che non possiamo sapere con certezza cosa potrebbe fare o pensare King riguardo alla questione Israele-Palestina oggi. E’ vero. Le testimonianze riguardanti le opinioni di King su Israele sono complesse e contraddittorie.
Sebbene il Comitato di Coordinamento Nonviolento degli Studenti avesse denunciato le azioni di Israele contro i Palestinesi, King si trovò in conflitto. Come molti leader neri dell’epoca, riconosceva gli Ebrei europei come un popolo perseguitato, oppresso e senza una loro patria, che si sforzava di costruire una propria nazione, e voleva dimostrare solidarietà alla comunità ebraica, un’alleata di fondamentale importanza nel movimento dei diritti civili.
Alla fine nel 1967, dopo che Israele conquistò la West Bank, King cancellò un pellegrinaggio in Israele. In una telefonata con i suoi consiglieri disse : “Penso che se andassi, il mondo arabo, e ovviamente l’Africa e l’Asia, interpreterebbero questo viaggio come un avallo a tutto ciò che Israele ha fatto, e io invece ho molti dubbi su questo”.
Continuò a sostenere il diritto all’esistenza di Israele, ma alla televisione nazionale disse anche che per raggiungere la vera pace e la vera sicurezza e per evitare di esacerbare il conflitto, Israele avrebbe dovuto restituire parte del territorio conquistato. Non c’era alcun modo in cui King potesse conciliare pubblicamente il suo impegno per la nonviolenza e la giustizia, per tutti e ovunque, con ciò che era emerso dopo la guerra del 1967.
Oggi, possiamo solo speculare su come si sarebbe pronunciato King. Eppure mi trovo d’accordo con lo storico Robin D.G. Kelley, che ha concluso che, se King avesse avuto l’opportunità di studiare la situazione attuale nello stesso modo in cui aveva studiato il Vietnam, “la sua inequivocabile opposizione alla violenza, al colonialismo, al razzismo e al militarismo lo avrebbe reso un critico incisivo delle attuali politiche israeliane”.
In effetti, le opinioni di King avrebbero potuto evolversi come accaduto a molti altri pensatori spiritualmente radicati, come il rabbino Brian Walt, che ha parlato pubblicamente delle ragioni per cui ha abbandonato la sua fede in ciò che considerava il sionismo politico. Per lui, mi ha recentemente spiegato, il sionismo liberale ha significato credere nella creazione di uno Stato ebraico che avrebbe risposto al disperato bisogno di porto sicuro e sarebbe stato un centro culturale per gli Ebrei di tutto il mondo, “uno Stato che avrebbe dovuto riflettere e onorare i più alti ideali della tradizione ebraica “. Ha detto di essere cresciuto in Sud Africa in una famiglia che condivideva quelle idee e che si è identificato in un sionista liberale fino a quando le sue esperienze nei Territori Occupati non lo hanno cambiato per sempre.
Durante più di 20 visite in Cisgiordania e Gaza, è stato testimone di terribili violazioni dei diritti umani, tra cui case palestinesi abbattute dai bulldozer mentre la gente piangeva – con i giocattoli dei bambini sparsi sulle macerie- e terre palestinesi confiscate per far posto a nuovi insediamenti illegali sovvenzionati dal governo israeliano. Fu costretto a fare i conti con il fatto che queste demolizioni, insediamenti e atti di spoliazione violenta non erano azioni clandestine, ma pienamente sostenute e abilitate dall’esercito israeliano. Per lui, il punto di svolta è stato l’assistere alla discriminazione legalizzata contro i Palestinesi – incluse le strade solo per gli ebrei –discriminazione che, secondo lui, era peggiore di ciò che aveva visto da ragazzo in Sudafrica.
Fino a poco tempo fa, era abbastanza raro sentire queste affermazioni. Ormai non è più così..
Jewish Voice for Peace, ad esempio, ha l’obiettivo di informare il pubblico americano circa “l’allontanamento forzato di circa 750.000 Palestinesi che ha avuto inizio con la fondazione di Israele e che continua ancora oggi”. Un numero crescente di persone di ogni credo e provenienza ha parlato con audacia e coraggio. Organizzazioni americane come “If Not Now” supportano i giovani Ebrei americani nella loro lotta per rompere il silenzio mortale che ancora esiste tra la gente riguardo all’occupazione, e centinaia di gruppi religiosi e laici si sono uniti alla Campagna Americana per i Diritti dei Palestinesi.
Alla luce di questi sviluppi, sembrerebbe che i giorni in cui le critiche al sionismo e alle azioni dello Stato di Israele venivano considerate come antisemite, siano giunti a termine. Sembra infatti esserci una maggiore comprensione del fatto che la critica delle politiche e delle pratiche del governo israeliano non è, di per sé, antisemita.
Questo non vuol dire che l’antisemitismo non sia reale. Il neo-nazismo sta risorgendo in Germania all’interno di un crescente movimento anti-immigrati. Nel 2017 gli incidenti antisemiti negli Stati Uniti sono aumentati del 57%, e molti di noi stanno ancora piangendo quello che nella storia americana si ritiene essere l’attacco più mortale al popolo ebraico. Sebbene la critica a Israele non sia intrinsecamente antisemita, dobbiamo essere consapevoli che questo clima potrebbe sfociare proprio nell’antisemitismo.
Fortunatamente, persone come il Rev. Dott. William J. Barber II danno l’esempio, promettendo fedeltà alla lotta contro l’antisemitismo e dimostrando una incrollabile solidarietà con il popolo palestinese che sotto l’occupazione israeliana lotta per sopravvivere.
Lo scorso anno il Reverendo dichiarò in un avvincente discorso che non possiamo parlare di giustizia senza affrontare l’espulsione dei popoli nativi, il razzismo sistemico del colonialismo e l’ingiustizia della repressione governativa. Nello stessa occasione disse: “Voglio dire, nel modo più chiaro possibile, che l’umanità e la dignità di una persona o di un popolo non possono in alcun modo diminuire l’umanità e la dignità di un’altra persona o di un altro popolo. Rimanere fedeli all’immagine di Dio in ogni persona significa insistere sul fatto che un bambino palestinese sia prezioso quanto un bambino ebreo “.
Guidati da questo tipo di chiarezza morale, i gruppi religiosi stanno prendendo provvedimenti. Nel 2016, il consiglio di previdenza della United Methodist Church ha escluso dal suo fondo pensione multimiliardario le banche israeliane i cui prestiti per la costruzione di insediamenti illegali violano il diritto internazionale. Allo stesso modo, la Chiesa Unificata di Cristo aveva approvato l’anno prima una risoluzione che chiedeva il boicottaggio di quelle società che traggono profitto dall’occupazione israeliana dei Territori Palestinesi.
Anche al Congresso, il cambiamento è all’orizzonte. Per la prima volta, due membri in carica, le rappresentanti Ilhan Omar, democratica del Minnesota e Rashida Tlaib, democratica del Michigan, sostengono pubblicamente il movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni. Nel 2017, la rappresentante Betty McCollum, democratica del Minnesota, introdusse una risoluzione per garantire che nessun aiuto militare degli Stati Uniti andasse a sostenere il sistema israeliano di detenzione militare dei giovani palestinesi. Israele porta regolarmente i bambini palestinesi detenuti nei Territori Occupati davanti a tribunali militari.
Con tutto ciò non voglio affermare che la tendenza è cambiata o che la rappresaglia contro coloro che esprimono un forte sostegno per i diritti palestinesi sia cessata . Al contrario, proprio come King ricevette critiche feroci e violente per il suo discorso che condannava la guerra del Vietnam – 168 dei maggiori quotidiani, tra cui The Times, attaccarono il discorso il giorno seguente – coloro che parlano pubblicamente a sostegno della liberazione del popolo palestinese continuano a rischiare condanne e dure reazioni .
Bahia Amawi, una logopedista americano di origine palestinese, è stata recentemente licenziata per aver rifiutato di firmare un contratto contenente un impegno anti-boicottaggio nel quale si dichiarava che lei non avrebbe partecipato al boicottaggio dello Stato di Israele. A novembre, Marc Lamont Hill è stato licenziato dalla CNN per aver tenuto un discorso a sostegno dei diritti dei Palestinesi, grossolanamente interpretato come espressione di sostegno alla violenza. La Canary Mission continua a rappresentare una seria minaccia per gli studenti attivisti.
E poco più di una settimana fa, l’Istituto per i Diritti Civili di Birmingham in Alabama, apparentemente su pressione della comunità ebraica e di altri, ha revocato un premio conferito all’icona dei diritti civili Angela Davis, che sostiene il BDS ed è sempre stata una critica appassionata del trattamento di Israele verso i Palestinesi
Ma quell’attacco è fallito. In neppure 48 ore, accademici e attivisti si erano già mobilitati in risposta. Il sindaco di Birmingham, Randall Woodfin, così come il Consiglio Scolastico di Birmingham e il Consiglio Comunale, hanno espresso indignazione per la decisione dell’Istituto. Il Consiglio ha approvato all’unanimità una risoluzione in onore di Davis e si sta organizzando un evento alternativo per celebrare il suo impegno decennale per la liberazione di tutti.
Non posso dire con certezza che King avrebbe applaudito Birmingham per la sua zelante difesa della posizione solidale di Angela Davis verso il popolo palestinese. Ma lo faccio. In questo nuovo anno, mi pongo l’obiettivo di parlare con maggiore coraggio e convinzione delle ingiustizie oltre i nostri confini, in particolare di quelle finanziate dal nostro governo, e di essere solidale con le lotte per la democrazia e la libertà. La mia coscienza non mi lascia altra scelta.
Michelle Alexander è diventata editorialista del New York Times nel 2018. È avvocato per i diritti civili, studiosa legale e autrice di “The New Jim Crow: Incarcerazione di massa nell’età del daltonismo”.
Una versione di questo articolo è stata pubblicata il 20 gennaio 2019, nella pagina SR1 dell’edizione del New York con il titolo: “Time to Break the Silence on Palestine”.
Trad: Grazia Parolari “contro ogni specismo, contro ogni schiavitù” Invictapalestina.org
Fonte: https://www.nytimes.com/2019/01/19/opinion/sunday/martin-luther-king-palestine-israel.html?fbclid=IwAR2zi6sC5rd6557d6ce2MTNQWLfOKxmyKav9XvXWHSJ506h3-CBiLNaxafk