Ci sono molti modi per esprimere resistenza all’occupazione attraverso l’arte. Per me l’arte è diventata l’unica arma pacifica disponibile per esprimere e trasmettere al mondo le mie sofferenze. La resistenza attraverso l’arte, o come mi piace chiamarla la “resistenza bianca”, è quando l’arte si manifesta essa stessa come forma di lotta.
Dareen Tatour – 6 febbraio 2019
Foto di copertina: “I Palestinesi in Israele.” (Disegno di Dareen Tatour)
Gli artisti in Palestina non vogliono rappresentare nella loro arte un’immagine di resistenza, ma mirano il più possibile a fare dell’arte un’arma attraverso cui resistere a tutto ciò che è ingiusto, che siano l’occupazione, la guerra, le norme sociali e le tradizioni sbagliate, le uccisioni, le violenze o tutto ciò che è corrotto o che contraddice i valori umanitari.
Il mio amore per il disegno è iniziato solo quando ero agli arresti domiciliari. Ho iniziato a disegnare i miei sentimenti mentre ero chiusa nella mia stanza, per lasciare uscire tutta l’energia negativa che si era accumulata nel mio cuore a causa della detenzione, soprattutto perché mi era stato impedito di dedicarmi alla mia passione, la fotografia, che mi piaceva praticare all’aperto e in luoghi che amavo visitare. Il disegno mi ha dato una spinta per andare avanti, resistere e lottare, e ha sostituito la mia passione per la fotografia e l’impossibilità di usare la mia macchina fotografica durante questo lungo periodo di tempo.
Dopo essere stata condannata a cinque mesi di prigione e durante la mia permanenza nel carcere di Damon, il mio bisogno di scrivere divenne più che mai un modo per esprimere la mia resistenza contro il carcere e l’ingiustizia che dovevo affrontare ogni giorno a causa della privazione della mia libertà. Tuttavia, improvvisamente e con la scrittura, mi sentii anche in grado di disegnare e di esprimere tutto ciò che avevo visto e vissuto in quella prigione attraverso semplici disegni che rappresentavano la realtà così com’è, come pure i sentimenti vissuti da me o da altre donne prigioniere.
I servizi penitenziari israeliani vietano a noi, donne prigioniere palestinesi, di usare colori, pastelli, fogli e materiale da disegno, eppure lo permettono nelle prigioni criminali. Ma quel divieto e quelle restrizioni non furono un ostacolo per noi. Chiunque voglia disegnare ed esprimere i propri sentimenti in prigione, lo riesce a fare con il minimo dei mezzi disponibili.
Il materiale da disegno che usavo in prigione era molto semplice. Disegnavo con pastelli in tre colori, blu, nero e rosso, e con una matita che era l’unica disponibile nella sezione in cui ero stata assegnata. Era stata contrabbandata segretamente, e usata da tutte le prigioniere che la volevano. Per usarla, si doveva prenotarla e aspettare il proprio turno .
La mia gomma era solo un piccolo pezzo di pelle nera sul manico di una spazzola per capelli e il temperino per la matita era il pavimento di cemento del cortile della prigione; strusciavo la matita in terra fino a quando non era pronta per il disegno. Per quanto riguarda la carta da disegno, erano i fogli di un normale quaderno a righe che usavo per scrivere. A volte raccoglievo i coperchi di cartone dei contenitori di alluminio usa e getta, utilizzati per i pasti speciali dati a detenuti con diabete o ipertensione. I coperchi erano utilizzabili solo se restavano puliti, senza macchie di cibo. Davo quindi i disegni alle mie amiche prigioniere.
Oggi, dopo essere stata rilasciata e avere a disposizione tutto il materiale da disegno che necessito, sento che i disegni che ho fatto in prigione hanno più significato e sono diversi da qualsiasi altro disegno che faccio mentre sono a casa libera. I disegni della prigione sono molto semplici. Agli occhi dell’osservatore può sembrare che in quei disegni manchi di padronanza e di tecnica, ma provengono da un cuore sofferente, dalla mancanza di materiale e di mezzi. Così hanno un grande posto nel mio cuore. Ogni disegno che ho fatto in prigione, anche se semplice o composto solo da alcuni scarabocchi momentanei, ha un suo significato e rappresenta un messaggio visivo riguardo qualcosa che solo le donne prigioniere conoscono. Questi sono alcuni dei miei disegni fatti in prigione, ognuno con la sua storia.
Immagine n. 1: Appena arrivai in prigione, tutte le mie cose furono confiscate. Mi fu addirittura vietato di portarmi i miei vestiti. La guardia mi ammanettò e mi incatenò le gambe. Quando obiettai chiedendole il perché, mi rispose dicendomi che ero una minaccia per la sicurezza dello Stato e dei carcerieri. Dopo essere arrivata nella sezione 61 della prigione di Damon, vidi due celle, la numero 7 e la numero 8, tutte recintate, chiuse a chiave e circondate da mura. Anche le finestre erano chiuse con lastre di ferro e recintate da ogni lato.
Immagine n. 2: Durante il periodo in cui rimasi seduta nella mia cella , priva di tutto ciò che è vivacità, speranza e colore, davanti a me vedevo solo angoli, mura e letti grigi. La cella era così piccola, che ovunque posassi gli occhi , non vedevo che la porta grigia, chiusa. All’improvviso, provai il disperato bisogno che i miei occhi vedessero dei colori, anche solo un colore diverso rispetto al grigio dominante della cella. Avrei voluto avere dei colori per dipingere quella porta con tinte piene di vita e di ottimismo, colori che raccontassero la realtà dei miei sentimenti e dei sentimenti delle altre sette prigioniere compagne di cella. Ma i miei desideri non potevano avverarsi. Così aprii il mio quaderno e disegnai la porta della cella così com’era. Poi iniziai a dipingerla con i colori che avevo a disposizione, in accordo con i miei sentimenti e le mie sensazioni.
Il rosso, per l’amore e il desiderio che in quel momento provavo per il mio amico. Il nero, per l’oscurità della cella, per il rumore continuo e per la mancanza di privacy. Il blu, simbolo dell’occupazione che a noi Palestinesi offusca la limpidezza della vita. L’avere dei desideri mi provocava inibizioni, contraddizioni, dolore, speranza e sofferenza, tutti sentimenti che espressi attraverso i colori utilizzati nei disegni.
Immagine n. 3: C’è una storia sul mare in prigione. Mi mancava molto il mare quando feci questo disegno, ma c’era qualcosa di più profondo che controllava i miei sentimenti ed era più tenace del desiderio stesso. Quando pensavo al mare, vedevo donne prigioniere e il loro desiderio di vedere questo mare! In qualsiasi parte del mondo parlare del mare è qualcosa di normale, ma parlarne in prigione, e in Palestina, e in particolare con donne palestinesi prigioniere, provocava dolore. Tutte le donne con cui ho diviso la prigionia non avevano mai visto il mare se non attraverso immagini, questo a causa dei checkpoint, del muro di separazione e dell’occupazione che impedisce ai Palestinesi della West Bank di visitare la zona costiera. Molti sono stati privati dei permessi che avrebbero potuto aiutarli ad attraversare quei checkpoint.
In Palestina sono cresciute , e continuano a crescere, generazioni che non sono mai state al mare e non conoscono il vero significato del mare, il suo aspetto o la sensazione che si prova quando si nuota.
In prigione non avevo il colore verde che mi avrebbe permesso di completare la bandiera palestinese che avevo disegnato sulla vela della barca. Sentivo che vietare le matite colorate era simile alla negazione del diritto per i Palestinesi di vedere il mare. Nonostante il fatto che entrambe queste richieste siano richieste umanitarie molto semplici – anzi sono diritti umani tra i più semplici – il loro divieto provoca un dolore profondo e lascia nel cuore una sofferenza indelebile.
Immagine n. 4: Alcuni dei sentimenti più bui che invasero il mio cuore mentre ero in prigione nacquero dal desiderio di avere accanto un’amica. Ho sentito la solitudine, la sofferenza, l’amore e il dolore. Ho chiamato coloro che mi mancavano senza che nessuno potesse sentirne l’eco. Fu allora che avrei voluto urlare e urlare il suo nome, ma era inutile. Da dietro la porta di ferro, la mia voce non poteva raggiungerla. Così immaginai una conversazione trasmessa dai nostri cuori. Ma in realtà qualsiasi suono da me emesso fu seppellito all’interno della cella. L’amore fu sepolto; il cuore era prigioniero e solo le mura del carcere udirono la mia invocazione.
Foto n. 5 e 6: queste immagini sono dei letti nella cella. Costruiti in ferro e con un materasso molto sottile, dormirci era come dormire su un foglio di latta. Il materasso scomodo mi causava mal di schiena. Non c’era niente nella cella, solo questi letti e questi armadietti grigi. Erano gli unici mobili disponibili per le prigioniere.
Foto n.7: Quella porta di ferro è l’immagine più dura che abbia visto in vita mia, un’immagine che mi accompagnava tutto il tempo e attraverso la cui apertura avrei potuto vedere il cielo in un quadrato. Una porta di ferro enorme. Ebbi spesso la sensazione di desiderare di poter aprire quella porta, aprirla e andarmene quando volevo. Che sensazione dura essere costretti in un luogo in cui sono altri che decidono per te quando aprire o chiudere la porta. Nel momento specifico in cui realizzai questo disegno, sentii l’urgenza di uscire e di respirare. Ogni volta che sentivo il bisogno di scacciare dal mio corpo la stanchezza del pensare, avrei voluto fare una doccia fredda, ma non potevo farla, anche le docce erano utilizzabili solo in orari che erano altri a decidere. Cercai di raggiungere la libertà con l’immaginazione. Volevo fare un buco in quella porta. Iniziai a disegnarci dei cerchi, ma improvvisamente quei buchi cominciarono a sembrarmi come ulteriori restrizioni. Quella porta era il simbolo della forza del carceriere e della mia impotenza di prigioniera. L’unico modo per aprire quella porta, fu scrivere su di essa o disegnarla come appariva nella mia immaginazione.
Foto n.8: In cella, le luci vengono spente alle 11:00 e, in quel momento esatto, le stanze diventano finalmente silenziose dopo una giornata piena di un rumore indescrivibile. Quello era l’unico momento in cui potevo avere un po’ di tranquillità e in cui potevo leggere e scrivere, ma il mio problema era che non c’era luce. L’unica disponibile, che penetrava nella cella, proveniva da una piccola apertura nella porta. Allora mi sedevo per terra vicino alla porta per riuscire a sfruttare quell’unica luce che entrava nella cella. Con quella luce ho scritto le mie poesie e ho disegnato alcuni di questi disegni.
Foto n.9: Essere stata imprigionata solo per avere scritto, ove il mio unico crimine è stato quello di aver usato una matita per scrivere una poesia, mi ha portato a considerare la libertà di espressione e la democrazia in Israele come una grande bugia; non esiste libertà di espressione per noi Palestinesi. La matita mi rappresenta, la matita qui è il mio corpo imprigionato. È anche la matita il cui uso è vietato a noi prigioniere; questo divieto in sé è un simbolo del razzismo che dobbiamo affrontare. I criminali israeliani hanno a disposizione matite di tutti i tipi, ma queste sono vietate nelle prigioni politiche dove sono detenuti solo Palestinesi. Uno Stato che imprigiona un poeta perché ha scritto un poema e vieta le matite in quella prigione, è uno Stato razzista e non democratico.
Per me, più scrittura e più disegno significano più resistenza e più lotta contro l’occupazione e le sue azioni contro noi Palestinesi. Più arte significa più presa di possesso della nostra terra, della nostra storia e della nostra identità. Significa più libertà di espressione dove l’ingiustizia viene respinta, significa dire pubblicamente “no” all’occupazione.
Coloro che hanno un talento vivono per una causa, e gli artisti che con la loro arte sostengono una causa non vi rinunciano, non importa quanto sia alto il prezzo che devono pagare e non importa quante forze al di fuori del loro controllo cerchino di zittirli. Con la censura, gli artisti sostengono le loro cause con ancora più forza e con ulteriori mezzi. Così, in luoghi inaccessibili dove nessuno può sapere cosa sta succedendo in termini di violazioni dei diritti umani, arriva la persona di talento che esprime ciò che è nascosto, in prigione arriva l’arte per inviare un’immagine al mondo esterno e raccontare e documentare queste violazioni .
Resistere a tutto ciò che è ingiusto richiede degli strumenti . In prigione i miei strumenti erano la mia matita, la mia poesia e i miei sentimenti. Con questi ho scritto e disegnato.
Dopo essere stato imprigionata per tre anni per aver scritto un poema contro l’occupazione, non escludo che potrei ritrovarmi di nuovo in prigione. Questa volta forse per un disegno o un’immagine che descrive l’occupazione, o la resistenza, o la mia identità palestinese e il mio Paese d’origine. Un disegno in cui critico tutte le violazioni dell’occupazione e il suo razzismo contro di noi Palestinesi potrebbe essere considerato un crimine, dato che per il governo israeliano tutto ciò che ha un’identità palestinese è diventato incitamento al terrorismo. Uno sguardo potrebbe essere considerato un crimine. Usare certe matite colorate potrebbe essere considerato un crimine.
Dopo essere stata processata e condannata per una parola e un pensiero, mi chiedo se sarò mai rinchiusa per un disegno? Lascio la risposta qui, nei due disegni sopra riportati che ho fatto mentre ero agli arresti domiciliari. Forse loro avranno una spiegazione per la realtà che ho vissuto, che ancora vivo e che vivrò in uno Stato che sa solo uccidere i Palestinesi e che combatte tutto ciò che è loro espressione.
Dareen Tatour è un poetessa e cittadina palestinese di Israele che ha trascorso quasi tre anni in carcere e agli arresti domiciliari. È stata condannata nel maggio 2018 con l’accusa di istigazione e sostegno a organizzazioni terroristiche dopo aver pubblicato il suo poema “Resist, My People, Resist Them” sui social media.
Trad: Grazia Parolari “contro ogni specismo, contro ogni schiavitù” – Invictapalestina.org
Fonte: https://mondoweiss.net/2019/02/between-feelings-sensations/?fbclid=IwAR3LlYDaPhNPMOjsFCg_o9WSE2qSpxHwE5Fveo7w7OAwaWeKI9NZUHNCQQY