Il progetto Palestine Hosting Society, fondato e diretto da Mirna Bamieh, di solito inizia con una ricerca sulle pratiche alimentari di una città o di una famiglia e culmina in una “tavola” ospite dove questa ricerca viene presentata a un gruppo di invitati.
di Jonan Kay, 23 aprile 2019
Copertina – “Our Nabulsi Table”, una collaborazione con Suzanne Matar, un progetto commissionato dal Goethe Institute e dall’Institut Français (© Ulla Marquardt)
La Palestine Hosting Society, un progetto di ricerca fondato da Mirna Bamieh, artista e cuoca di Gerusalemme, prende in esame le pratiche alimentari palestinesi. Bamieh ha iniziato la sua ricerca nel 2016 dopo aver notato che i ristoranti di Ramallah tendevano a servire un menu limitato di cibi palestinesi. “Per me, i ristoranti e andare al ristorante sono un modo di dimostrare pubblicamente la tua identità”, dice Bamieh. Questa offerta limitata era un riflesso di un’idea sbagliata sostenuta da alcuni palestinesi secondo cui la loro cucina non era diversa o unica. Questo concetto erroneo, cresciuto a causa delle restrizioni dovute all’occupazione militare israeliana, è ciò che Bamieh cerca di sfidare con il suo lavoro.
Il progetto si è evoluto nel tempo, ma abitualmente inizia con la ricerca nelle pratiche alimentari di una città o di una famiglia e culmina in una “tavola” ospite, dove questa ricerca viene presentata sotto forma di pasto e spettacolo da Bamieh a un gruppo di 50-60 ospiti invitati. Mentre la prima tavola si concentrava sulle pratiche alimentari di cinque singole famiglie, tavole più recenti sono state incentrate su città (Hebron e Nablus) e su colture specifiche, come una recente tavola al Museo palestinese che si concentrava sul grano. Il progetto è anche attento a progetti educativi di più ampio respiro, tra cui passeggiate gastronomiche e un tour autoguidato nella città vecchia di Gerusalemme.
Per nome e natura, queste tavole mettono in primo piano i valori dell’ospitalità e dell’accoglienza. Bamieh sottolinea l’importanza dell’ospitalità nella cultura araba, così come degli scritti di Jacques Derrida sull’ospitalità – in particolare la relazione politica tra ospite e ospitante – come influenze nel suo interesse per l’ospitalità. Vivere sotto occupazione ha costretto i palestinesi ad assumere il ruolo di ospite, perpetuamente ospitato da altri. “Avere questa società ospitante mobile, è creare quelle tavole in cui noi, come palestinesi, offriamo qualcosa [agli altri]. Ci porta anche fuori da questo ruolo passivo di ospite o profugo.Noi diventiamo, invece, quelli che ospitano” dice Bamieh.
Come nella maggior parte delle culture, il cibo è importante per l’identità palestinese per il suo rapporto con la loro storia, cultura e politica. Tuttavia, la vita sotto occupazione ha atrofizzato questa connessione attraverso politiche che impediscono l’accesso alle colture. Bamieh indica za’atar (issopo) e akub (cardo selvatico), due erbe selvatiche comunemente usate nei piatti palestinesi, che ora è illegale raccogliere. Mentre il controllo sulla raccolta può sembrare di minore importanza nella portata più ampia dell’occupazione, queste restrizioni riflettono danni maggiori alla ricchezza dell’identità palestinese. “Non si tratta di avere effettivamente l’ingrediente in cucina” dice Bamieh “È perché i tuoi figli non conosceranno l’akub, come anche il fatto che c’è un’intera esperienza in relazione alla primavera e al tuo rapporto con la terra.”
Considerando che gli utenti Instagram sono, nell’insieme, un target più giovane, il pubblico di Bamieh tende verso un’età più matura. Sono i palestinesi di quella generazione nata negli anni ’60 e ’70, cresciuti nella scia della guerra del 1967 e dell’ascesa del movimento degli insediamenti israeliani, che hanno visto scomparire le loro possibilità di sovranità. Sotto occupazione militare e con accesso limitato alla terra che costituiva la base di molte pratiche alimentari, questa generazione ha perso il contatto con la diversità di alimenti che hanno formato la loro cucina. Per loro, le ricette e le tavole condivise dalla Palestine Hosting Society sono un modo per riconnettersi a questa parte della loro identità.
Per trovare queste ricette dimenticate, Bamieh incontra la generazione dei palestinesi più anziani, quelli nati prima del 1948 e della fondazione di Israele. Questa generazione in là negli anni conserva gli ultimi ricordi di quelle ricette tradizionali. “Tratto queste ricette come fossero archivi” dice Bamieh “ma non archivi che voglio mettere da parte bensì archivi che voglio riattivare e riproporre”. Bamieh spera di incoraggiare una nuova discussione sulle pratiche alimentari e l’identità palestinese, riattivando queste ricette con tavole e post pubblici su Instagram grazie al suo progetto Palestine Hosting Society.
Ho incontrato Bamieh durante un viaggio a New York in preparazione della sua prima tavola negli Stati Uniti, che si terrà al Bard College questo novembre. A differenza delle tavole precedenti, il progetto Bard sarà una retrospettiva su larga scala del lavoro della Palestine Hosting Society, con circa 180 ospiti. Bamieh ha inoltre esteso il suo approccio alla ricerca sulla diaspora palestinese, con particolare attenzione alle abitudini alimentari e memoria intergenerazionali. Allo stesso tempo, sta valutando il fatto che molti alimenti palestinesi all’estero hanno il marchio israeliano.
Cibo israeliano si è da tempo autodefinito come un amalgama di diverse cucine portate da immigrati ebrei provenienti dall’Europa dell’Est e dal Medio Oriente, così come di cucine fatte proprie di culture circostanti. Negli ultimi anni, spinti da un’economia in crescita di Israele, gli chef israeliani hanno iniziato a sperimentare piatti e aperture di ristoranti negli Stati Uniti. Ma, come osserva Bamieh, questo è stato possibile solo perché gli chef israeliani si sono sentiti a proprio agio, sia economicamente che socialmente, a fare esperimenti con la loro cucina e portarla all’estero. I cuochi palestinesi, d’altronde, raramente si concedono questo lusso. Di conseguenza, i cibi palestinesi come maftoul e za’atar (una spezia costituita da diverse erbe) sono commercializzati all’estero come alimenti base della cucina israeliana, piuttosto che come cibo palestinese. Nel caso del maftoul, è stato completamente ribattezzato come “couscous israeliano”.
Fortunatamente, Bamieh non è sola. Negli ultimi mesi, diversi ristoranti che tentano di modernizzare la cucina palestinese hanno aperto nella sola Ramallah. Allo stesso modo, c’è un numero crescente di chef palestinesi che fanno ricerche ed esperimenti con il cibo palestinese. Bamieh spera, attraverso la ricerca e scoperta di queste ricette a lungo dimenticate, di poter aiutare i palestinesi a riconnettersi con la loro cucina e recuperare l’importanza del cibo nell’identità palestinese.
Traduzione: Simonetta Lambertini – invictapalestina.org