Recensione: un viaggio di rifugiati ispira una collaborazione musicale

Una collaborazione tra la compositrice Du Yun e il regista Khaled Jarrar, “Where We Lost Our Shadows” in anteprima giovedì scorso alla Zankel Hall con l’American Composers Orchestra.

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Copertina – Una collaborazione tra la compositrice Du Yun e il regista Khaled Jarrar, “Where We Lost Our Shadows” ha avuto la sua anteprima con l’American Composers Orchestra giovedì alla Zankel Hall. Credit Jennifer Taylor

di Anthony Tommasini, 12 aprile 2019

 

Nel 2015, Khaled Jarrar, un artista e regista palestinese che vive a Ramallah, lesse un annuncio su un giornale locale. Era una richiesta di aiuto da parte di un rifugiato della guerra in Siria rimasto bloccato a Istanbul con la sua famiglia – compresa la madre anziana, rifugiata per la seconda volta, essendo stata costretta a lasciare Nazareth per la Siria durante la guerra arabo-israeliana nel 1948.

Commosso dalla storia, Jarrar trascorse 31 giorni con la famiglia nel suo viaggio verso la Germania, vivendo da rifugiato e riprendendo il viaggio. Questa esperienza ha ispirato “Where We Lost Our Shadows”, un’opera multimediale per orchestra, video e tre solisti che Jarrar ha creato con la compositrice Du Yun. L’American Composers Orchestra, che l’ha commissionata con la Carnegie Hall, ha eseguito la prima giovedì alla Zankel Hall.

Du e Jarrar hanno deciso di allargare il focus del lavoro per comprendere temi senza tempo di migrazione umana, esodi e voli per rifugiati. Du, che ha vinto il Premio Pulitzer per la Musica per l’opera del 2016 “Angel’s Bone”, un’allegoria del traffico di esseri umani, si è rivolta all’eredità dei raga, una struttura per l’improvvisazione melodica, migrata essa stessa per secoli attraverso le regioni araba, dell’Asia centrale e indo -pakistana. Lavorando con il cantante pakistano Ali Sethi, ha scelto raga che trattano temi come l’acqua, la pioggia e il tuono; questi brani ispirati ai raga giovedì sono stati cantati da Sethi con una delicatezza cruda e lamentosa.

Questi elementi sono inseriti in una partitura che cambia e si innalza, qualità catturate nella performance irrequieta diretta da George Manahan. Ci sono tratti di nebbiose sonorità orchestrali in cui figure irrequiete si dibattono su dense armonie. Shayna Dunkelman, percussionista dinamica, ha condotto pezzi del brano con colpi di tamburo che ora esplodono e subito dopo danno sensazioni di intorpidimento. La cantante Helga Davis ha dato splendore al tenero e acuto adattamento di Du di “Pillow” del poeta palestinese Ghassan Zaqtan.

Nel film di accompagnamento si vedono immagini di una famiglia che viaggia di notte su sentieri pietrosi, donne in hijab che emergono da ripari sotterranei e dolci brevi scene di bambini che cercano di essere fiduciosi mentre parlano di andare in Germania o in Svezia. Ma nel complesso il filmato è cupo, atmosferico, persino astratto – il che, in realtà, accresce la sua potenza.

Il programma si è aperto con un’esecuzione intensamente concentrata del “Turfan Fragments” (1980) di Morton Feldman, ispirato ai tappeti annodati scoperti durante una spedizione archeologica nel Turkestan orientale. I tappeti colpirono Feldman come una metafora della sua musica, che tende a svolgersi in pezzi e frammenti sommessi – sonorità sibilanti, accordi di cluster pungenti, figure ripetitive – che solo fanno pensare ad una struttura più ampia.

Manahan ha anche diretto un vibrante brano della Symphony No. 1 di Gloria Coates, “Music for Open Strings” (1974), un’opera che utilizza alcune accordature insolite e le note di una scala cinese in quattro movimenti compatti. La musica abbonda di riff ondeggianti, idee melodiche spoglie, glissando drammatici e tratti di vivace e vibrante energia.

Traduzione: Simonetta Lambertini – invictapalestina.org

 

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