Soffro quotidianamente delle conseguenze dell’occupazione israeliana. Merito di essere trattata allo stesso modo da un Paese arabo confinante? I checkpoint, gli interrogatori, le restrizioni al movimento e le violazioni dei diritti non sono limitati a Israele, la potenza occupante, ma si estendono anche al Libano e ad altri Paesi arabi della regione.
Ibaa Abu Layya – 28 maggio 2019.
Immagine di copertina: Aeroplani all’aeroporto internazionale Rafic Hariri di Beirut Libano. (Foto: Francisco Anzola / Flickr)
Sono arrivata per la prima volta all’aeroporto internazionale Rafic Hariri di Beirut giovedì 25 aprile, per godermi le vacanze di Pasqua insieme a un gruppo di altri Palestinesi che avevano pagato per lo stesso viaggio. Mi ero preparata con molta cura. Avevo completato tutte le questioni burocratiche, tra cui l’ottenimento di un visto che nel fine settimana mi avrebbe permesso di scattarmi un selfie nel centro di Beirut. In fila per far timbrare il mio passaporto, un funzionario della Sicurezza Generale Libanese era stato molto accogliente e stava per permettermi di entrare a Beirut. Mentre stavo prendendo 20 dollari dalla mia borsa per pagare il visto, un altro ufficiale lo ha interrotto, sottolineando che i Palestinesi non sono ammessi in Libano.
Ha ritirato il mio passaporto e si è diretto dal suo capo. La mia sfortuna è stata determinata da tre fattori: il funzionario di confine in carica era anti-palestinese; aveva atteggiamenti xenofobi nei confronti dei Palestinesi; odiava sua madre palestinese. Dopo ore di trattative, e nonostante i regolari visti d’entrata, ha ordinato a uno dei suoi impiegati di compilare una lista nera con il mio nome e i nomi dei miei compagni di viaggio. Parlando con arroganza e ostilità, ha dichiarato: “Mia madre è palestinese e non vedo l’ora di liberarmene. Pensi che ti lasci entrare in Libano? ”
Altri ufficiali libanesi seduti su un divano hanno dichiarato che l’ambasciatore palestinese in Libano non aveva alcun potere o autorizzazione per poter fare qualcosa. Anche se lo avessi contattato, hanno detto, non avrebbe potuto aiutarmi.
Alla fine, mi è stato negato l’ingresso in Libano. Gli ufficiali non hanno fornito alcuna chiara ragione o giustificazione, ma hanno affermato che io mi sarei “normalizzata” con Israele. Hanno detto che, vivendo nei Territori Palestinese occupati, sotto il governo dell’Autorità Palestinese, anch’io avevo “normalizzato” Israele. Libano e Israele non hanno mai avuto relazioni diplomatiche e sono ancora tecnicamente in guerra.
In totale gli ufficiali della sicurezza libanesi mi hanno trattenuto per più di 15 ore, impedendomi di contattare chiunque, compresa la mia famiglia e l’ambasciata. Sono stato privata dell’accesso all’acqua, al cibo, a un avvocato e al Wi-Fi. Dopo molte richieste, mi è stato concesso di acquistare a mie spese acqua, cibo e caffè .
Mentre ero detenuta, sono stato portata in una stanza isolata, chiusa a chiave, molto fredda e malsana, che non aveva finestre o servizio telefonico. Sono stata trattenuta insieme ad altri deportati che sono stati sottoposti a discriminazioni razziali ed etniche, trattamenti severi e inumani, abusi e violazioni dei loro diritti, incluso il diritto di movimento e di richiedere un avvocato e l’assistenza consolare . Erano altri Palestinesi e Siriani. Nessuno sapeva dove fossi, neppure mia madre e mio padre.
Agli ufficiali che mi sorvegliavano ho espresso il mio amaro disappunto per la detenzione, ma nulla è cambiato. Hanno detto che ad altri Palestinesi era stato rifiutato l’ingresso a causa del timbro israeliano sul loro passaporto, così come richiesto dalla legge libanese, ma il mio passaporto non aveva tali timbri.
All’alba mi fu notificato che dovevo rimanere in carcere all’interno dell’aeroporto per un totale di cinque giorni, perché solo allora ci sarebbe stato un volo per la città da cui ero partita. Ho respinto questa soluzione continuando a chiedere una nuova prenotazione. Gli ufficiali erano un po’ più simpatici dei precedenti che avevo incontrato la sera prima. Volevano aiutarmi, così hanno permesso a me e agli altri del mio gruppo di contattare l’ufficio del turismo con cui avevamo prenotato la nostra vacanza. Fummo informati che saremmo stati deportati ad Amman, all’aeroporto internazionale Queen Alia da cui eravamo partiti, perché non abbiamo accesso agli aeroporti in Palestina.
Mentre aspettavo il volo per la Giordania, Salim, un altro Palestinese del mio gruppo, cominciò ad avere dolori al petto e difficoltà respiratorie. L’ufficiale di turno si fece prendere dal panico e informò gli altri ufficiali dell’aeroporto. Chiamò persino un dottore. Il medico venne a controllare Salim portando medicine per la tosse scadute. Quando Salim se ne accorse, il dottore riprese il farmaco e se ne andò. Non lo rivedemmo più. Il figlio di Salim, Zaid, 10 anni, detenuto in una stanza con dei truffatori, aveva chiacchierato un po’ con un ufficiale dell’aeroporto. Quando l’ufficiale aveva saputo che Zaid aveva solo 10 anni, gli aveva detto: “Sei ancora molto giovane, ma durante tutta la tua vita non avrai mai la possibilità di visitare il Libano. “Bene!,” gli aveva risposto Zaid con orgoglio, nascondendo il disappunto.
Per farla breve: sono stato rimandata a casa dopo essere stata inserita nella blacklist del Libano per il resto della mia vita. La frattura nel mio cuore rimarrà lì per sempre. Il mondo arabo tratta i Palestinesi in modo quasi più disumano rispetto all’occupazione stessa. Soffro quotidianamente delle conseguenze dell’occupazione israeliana. Merito di essere trattata allo stesso modo da un Paese arabo confinante? I checkpoint, gli interrogatori, le restrizioni al movimento e le violazioni dei diritti non sono limitati a Israele, la potenza occupante, ma si estendono anche al Libano e ad altri Paesi arabi della regione.
Invito tutti i cittadini liberi ad agire contro le politiche di discriminazione razziale del Libano contro i Palestinesi che vi arrivano come turisti. Questo ci porta alla questione dei campi profughi palestinesi in Libano, dove le autorità libanesi attuano leggi di apartheid, che privano i Palestinesi dei loro diritti umani fondamentali e li declassano a cittadini di serie B.
Invito inoltre il Ministero degli Affari Esteri Palestinese ad adottare tutte le procedure necessarie per proteggere i suoi cittadini attraverso il mandato conferito alle ambasciate dello Stato di Palestina a livello regionale e internazionale.
Ibaa Abu Layya è una traduttrice che ha conseguito una laurea in Lingua inglese e Traduzione all’università Birzeit e un’attivista dei diritti umani che sostiene la pace e la giustizia per una vita migliore e più equa per tutti gli abitanti di questo universo.
Trad: Grazia Parolari “contro ogni specismo, contro ogni schiavitù” – Invictapalestina.org