Intrappolati e senza voce: così sono i Palestinesi nel Piano di Trump.

Il mondo non ascolta le nostre storie o non vede la nostra realtà, perché dovrebbe essere solidale con noi?

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Ahmed Abu Artema – 30 gennaio 2020

Immagine di copertina: Palestinesi protestano contro il piano del presidente americano Donald Trump – Valle del Giordano – Cisgiordania occupata [Raneen Sawafta / Reuters]

Il “Piano per il Medio Oriente” di Donald Trump ha adottato in pieno l’agenda israeliana e ignora il problema fondamentale che dura da oltre 70 anni.

I palestinesi non stanno lottando per migliorare le condizioni della loro prigionia, noi vogliamo il ritorno dei nostri rifugiati e la fine dell’occupazione.

Attualmente, i palestinesi sono intrappolati, con pochissima libertà di movimento e nessuna voce per raccontare la loro versione della storia. Ciò non cambierà con questo “accordo”, specialmente se la comunità internazionale chiude un occhio sulla realtà che la gente comune vive sul campo.

Quando viaggio, sento ancor più dolorosamente l’isolamento a cui i palestinesi sono sottoposti. Ciò che amo di più dei viaggi è la libertà di movimento; poter salire in macchina, ascoltare musica e partire.

Ma, più di 70 anni dopo che la Dichiarazione Universale dei Diritti  dell’Uomo ha sancito il diritto alla libera circolazione, per la maggior parte dei palestinesi essa non è contemplata.

In tutto il mondo le persone, che  probabilmente neppure sanno come questo loro diritto sia stato ben definito, lo esercitano su base giornaliera. Ma per coloro che vivono nei territori palestinesi – essenzialmente un campo di detenzione circondato da recinzioni, mura e torri militari – provare a beneficiarne è rischiare la vita.

A Gaza e in Cisgiordania, la possibilità di viaggiare è subordinata all’ottenimento di un permesso dal governo israeliano e all’elaborazione di una lista di attesa gestita dal Ministero degli Interni di Gaza. Di conseguenza, la stragrande maggioranza dei cittadini di Gaza non ha lasciato la Striscia da quando è iniziato il blocco israeliano nel 2007. La decisione di viaggiare viene solitamente presa solo in casi di estrema necessità, come ad esempio un trattamento medico urgente.

Qualche mese fa, ricevetti un invito da NOVACT, l’International Institute for Nonviolent Action, con sede in Spagna, per prendere parte a un tour di conferenze  su Gaza, in collaborazione con  diverse organizzazioni della società civile. Mi fu  chiesto di tenere discorsi in Belgio, Germania, Spagna, Repubblica Ceca, Italia, Finlandia, Paesi Bassi, Francia e Slovenia. Questo invito fu il motivo per cui mi venne concesso un visto Schengen e non appena lo ricevetti,  registrai il mio nome nella lista di attesa di viaggio a Gaza.

Dovetti aspettare due mesi.

Le conversazioni che  ebbi con i miei colleghi europei durante quel periodo riassumono perfettamente le differenze delle nostre esperienze e delle nostre aspettative.

Dovevano programmare le mie attività.

“In che giorno?” chiedevano.

“Non  lo so “, rispondevo. “Non dipende da me .”

“Ok, quindi in quale settimana?” rispondevano.

“Non so neppure questo”, dicevo loro. ”  Potremo fare programmi  solo quando avrò lasciato Gaza”.

“Quindi in quale mese sarà?”

“Forse a dicembre, forse a gennaio. Quando sarò in grado di viaggiare, ve lo farò sapere.”

Quando alla fine  ottenni il permesso di viaggiare, la gioia si mischiò alla tristezza per il fatto che altri del mio Paese non potevano godere di questo semplice diritto.

In viaggio dalla Germania alla Repubblica Ceca, e successivamente dalla Repubblica Ceca all’Austria, non  vidi confini  che mi dicevano che stavo entrando in un nuovo Paese. L’unica cosa che mi informò di aver cambiato nazione, fu il messaggio di benvenuto che  ricevetti sul cellulare dal mio operatore  telefonico .

Poter passare dagli aeroporti europei senza registrazione, liste di attesa o lunghi interrogatori; poter sbarcare da un aereo e dirigermi all’uscita senza essere fermato da un agente di sicurezza.  Fu uno shock.

Dozzine di attivisti che ho incontrato in Europa mi hanno detto che avevano visitato la Palestina. Il pensiero che avessero girovagato per le nostre città, conosciuto la nostra cultura, assaggiato il nostro cibo e sentito il calore del nostro sole, mi ha sempre fatto sentire bene. “Hai visitato Gaza?” Chiedevo loro. “No, solo la Cisgiordania”, rispondevano invariabilmente, “Israele non ci darebbe il permesso di visitare Gaza”.

Non solo i Gazawi sono chiusi dentro, ma altri sono chiusi fuori. E questo isolamento sta uccidendo noi e la nostra storia. Quando le persone non ci conoscono, quando non vedono la nostra realtà, diminuiscono le possibilità che siano solidali con noi.

Durante il mio tour in Europa, ho sperimentato di persona cosa significa quando i palestinesi di Gaza non possono raccontare la loro storia. Mi è stato ripetutamente chiesto da persone che nulla sapevano della lunga storia degli ebrei come parte importante del tessuto della società araba, perché gli arabi fossero così ostili agli ebrei.

Sono stato interrogato sul ruolo di Hamas nella Grande Marcia del Ritorno – pacifiche proteste del venerdì da parte dei palestinesi – e se questa fosse la ragione per cui l’esercito israeliano aveva usato una forza eccessiva contro i manifestanti. Ho risposto che, secondo l’OCHA, dall’inizio delle manifestazioni a marzo 2018, 213 palestinesi erano stati uccisi e oltre 36.000 feriti, molti dei quali rimasti con disabilità permanenti. Al contrario, nessun israeliano era morto.

Mi è stato chiesto perché non abbiamo fatto la pace con gli israeliani. Ma la pace non è qualcosa che le vittime dell’occupazione, della cacciata dalla loro terra  e dell’oppressione possono accettare, ho risposto.

Ora, mentre il nuovo piano di Trump per il Medio Oriente mette più che mai a tacere le voci dei palestinesi, le nostre storie, le nostre realtà, l’Europa ha una decisione da prendere.

L’UE ha espresso per anni le sue “profonde preoccupazioni” per le uccisioni mirate e gli insediamenti illegali di Israele. Ma gli attivisti filo-palestinesi affrontano sempre più censure e restrizioni nei Paesi europei.

Lo scorso maggio, la Germania ha approvato una risoluzione simbolica che designa il movimento di Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni (BDS) come antisemita, anche se le richieste del movimento sono basate sul diritto internazionale e i metodi che utilizza sono pacifici.

A dicembre, il parlamento francese ha approvato una risoluzione che ha definito l’antisionismo una forma di antisemitismo.

L’Europa oggi deve affrontare un vero test: valorizzerà i principi di libertà di opinione, espressione e movimento e il diritto internazionale su cui si basano – o aiuterà a mantenere il silenzio e il soffocamento dei palestinesi?

Se l’Europa e la comunità internazionale appoggeranno il piano di Trump per il Medio Oriente – un piano in cui i palestinesi non hanno alcuna voce in capitolo – la risposta sarà chiara.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Ahmed Abu Artema è un giornalista palestinese e un’attivista per la pace.

 

Trad: Grazia Parolari “contro ogni specismo, contro ogni schiavitù” –Invictapalestina.org

 

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