Don DeLillo, Ghassan Kanafani e il coronavirus

Questo è, indubbiamente, un grido che va oltre le risposte passive, un grido pieno di contenuto e significato in una vita qualunque e insignificante

Fonte – English version

 

Di Haidar Eid – 10 Aprile 2020

Mentre in tutto il mondo le persone sono in isolamento causa pandemia, in Palestina siamo bloccati sia da COVID-19 che da Israele. A Gaza, la quarantena porta ad alcune domande esistenziali e alla ricerca profonda dell’anima. L’ultima volta che siamo rimasti intrappolati nelle nostre case è stato durante i bombardamenti israeliani, dove abbiamo vissuto il trauma di tre guerre in sei anni. Con il tempo di riflettere, sono tentato di attraversare quella sottile linea invisibile che separa la finzione dalla realtà. Il mondo reale dell’occupazione, del blocco, dell’apartheid, del  colonialismo di insediamento e del coronavirus da un lato, e dall’altro, il mondo immaginario dei miei autori preferiti.

Sono interessato al concetto di alienazione del soggetto/individuo moderno, nei mondi sia post-moderno che post-coloniale, e alla questione della morte, come un motivo persistente che domina le opere letterarie da loro prodotte. Vale a dire, alienazione e morte, in questo contesto, sono inseparabili. Poiché l’alienazione è il prodotto inevitabile della logica del mercato capitalista e del colonialismo, diventa chiaro, quindi, perché esiste una connessione tra alienazione e consumismo post-moderno e tra la morte e il significato dinamico della vita in un mondo post-coloniale.

Uno dei miei romanzi postmoderni preferiti, sebbene realistici, è il White Noise (Rumore Bianco) di Don DeLillo in cui il significato della vita in un mondo tardo-capitalista è enunciato da un personaggio: “Qui non moriamo. Compriamo. Ma la differenza è meno marcata di quanto pensi.”

Il protagonista, un accademico come me, viene esposto alla tossina di una “dispersione chimica aerea”, che infonde al suo corpo una morte lenta sotto forma di una “massa gassosa”.

La “massa gassosa” per me, un accademico che vive nell’assediata Gaza, è una metafora dell’occupazione e dell’apartheid, ma con la propagazione del coronavirus, la linea sottile tra il romanzo e il nostro mondo è svanita. Vi è, tuttavia, una differenza concettuale tra la morte in quel mondo immaginario postmoderno e il mio post-coloniale. Lì, la grande narrativa sembra essere scomparsa, mentre qui stiamo lottando per una causa, cioè la libertà dall’occupazione e dal colonialismo coloniale. “Lì”, c’è un approccio meccanico alla vita e alla morte; uno che alla fine porta all’alienazione. La teorizzazione della morte di uno dei personaggi riconosce questo fatto esistenziale:

Nelle città nessuno si accorge di morire. Si muore per la qualità dell’aria. È ovunque e da nessuna parte. Gli uomini gridano mentre muoiono, per essere notati, ricordati per un secondo o due. In una città la gente nota di più la morte. I morti hanno volti, automobili. Se non conosci un nome, conosci il nome di una strada, il nome di un cane. Sai un paio di cose inutili su una persona che diventano importanti fatti di identificazione e collocazione cosmica quando muore improvvisamente, dopo una breve malattia, nel suo letto, con una trapunta e cuscini coordinati, in un piovoso mercoledì pomeriggio, febbricitante, un po’ congestionato, con la sinusite e dolori al petto, pensando alla sua attività di lavanderia.

La specificità della morte nelle città, come descritto da uno dei personaggi, è ancora, ironicamente, in relazione a quello a cui la persona pensa mentre muore, per esempio la sua attività di lavanderia. La perdita del significato della morte, come concetto, nelle grandi città, è ciò che si lamenta; tuttavia, il significato dato alla morte nelle città non trascende un’attività banale, come una lavanderia.

Sono anche un fan dello scrittore palestinese Ghassan Kanafani. E il mio romanzo preferito è l’acclamata novella All That is Left to You (Tutto ciò che ti è rimasto). Come noi al giorno d’oggi, la questione della morte a cui sono interessati tutti i personaggi del romanzo porta a non farsi domande esistenziali più dettagliate: che cos’è la morte? Perché uomini e donne hanno paura della morte? Come si può liberarsene? E, cosa ancora più importante, la morte è il completamento della vita nonostante la loro apparente contrapposizione? Se l’ideologia è considerata la nostra comprensione della vita che viviamo, ne consegue che include la nostra comprensione della morte. Cioè, con il proprio orientamento ideologico, si può affrontare la paura della morte. In questo contesto relazionale, morte e ideologia sono interconnesse in modo tale che non si può evitare di porre le stesse domande sulla morte come sulla vita, domande che appaiono e scompaiono durante il processo di lettura. Poiché entrambi i romanzi, di DeLillo e Kanafani, sono presentati come la coscienza dei loro personaggi e poiché la loro coscienza è perseguitata dalla consapevolezza e dalla paura della morte, ne consegue quindi che entrambi i personaggi stanno morendo, o piuttosto sono perseguitati dalla paura e dalla consapevolezza della morte. Allo stesso modo, mentre “White Noise” descrive il mondo americano post-moderno, un mondo ossessionato dalla morte, “All That is Left to You” parla della nascita di una nuova Palestina. Ne consegue che la domanda posta ai personaggi di questi due romanzi e quindi per noi, lettori, è, come direbbe Edward Said, “non è essere ma come essere”.

La definizione di ideologia di Louis Althusser è un buon punto di partenza nel fornire alcune risposte alle domande di ideologia e morte: “non sono le loro effettive condizioni di esistenza, il loro mondo reale, rappresentato dall’ideologia stessa degli uomini, ma è soprattutto la loro relazione con quelle condizioni di esistenza che è rappresentata lì”. Ciò che è quindi rappresentato nell’ideologia sono le relazioni immaginarie di “soggetti” / individui con le relazioni reali in cui vivono. Quindi la loro comprensione della propria esistenza e morte si basa fortemente sulle loro rappresentazioni della versione immaginaria di queste relazioni.

Entrambi i romanzi sono ossessionati dalla domanda su come evitare una morte insignificante. O meglio come riempire questo “vuoto” (DeLillo) e alleggerire questa “oscurità” (Kanafani)? Respingerli è rifiutare ciò che li aspetta, vale a dire MasterCard e American Express nel caso di “White Noise”, colonialismo coloniale e pulizia etnica nel caso di “All That’s Left to You”. In altre parole, rifiutare le condizioni che le hanno create e sfidare le circostanze in cui agli individui viene negato il libero arbitrio. La coscienza della morte richiede un confronto con la morte attraverso una trasformazione da soggetto sottomesso di “Rumore Bianco” a libero di “Tutto ciò che ti è rimasto”. Vale a dire, una coscienza della morte è una coscienza della vita, sebbene con principi alternativi.

La solitudine, l’alienazione e la paura della morte diventano equivalenti in una società capitalista altamente avanzata. Questa introspettiva in “White Noise” è illuminante:

La verità è che non voglio morire per primo. Avendo una scelta tra solitudine e morte, mi prenderei un momento per decidere. Ma non voglio nemmeno restare da solo. Chi decide queste cose? Cosa c’è là fuori? Chi siamo?

Questo è, indubbiamente, un grido che va oltre le risposte passive, un grido pieno di contenuto e significato in una vita qualunque e insignificante, un grido ideologico per ciò che esiste oltre l’apparenza e un grido per la rivelazione delle relazioni reali piuttosto che immaginarie degli individui con il mondo oggettivo. Poiché la morte è alienazione, ne consegue che queste domande riguardano coloro che creano alienazione piuttosto che un potere metafisico che va oltre la comprensione umana, sebbene le domande poste abbiano una forma metafisica. Lo stesso vale per le domande poste dal personaggio principale nella novella di Kanafani: “Loro, i soldati israeliani, non dovrebbero ucciderti perché non sei niente!”

E qui sta la differenza tra il modo in cui temiamo il coronavirus e il modo in cui altre parti del mondo lo affrontano. Nel nostro caso, abbiamo a che fare con un virus molto più pericoloso dal 1948; vale a dire il colonialismo di insediamento. Considerando che, la morte, per qualcuno che vive in un mondo tardo-capitalista, non è mai una scelta personale che può liberamente decidere di assumere; né è una scelta che darà un ulteriore significato alla serie di scelte che ha fatto nel corso della sua esistenza.

Dobbiamo ammettere che il nostro atteggiamento nei confronti della morte non è così profondo come lo è dopo l’epidemia di coronavirus. In precedenza, la nostra paura della morte era fondata su un senso di alienazione e sulla fine delle nostre funzioni sociali e biologiche. Il significato di COVID-19 è che approfondisce sia la nostra paura esistenziale di morte e alienazione, sia il significato di tutti i ruoli che abbiamo interpretato. La morte ha un significato unico ora; è un’esperienza concreta di un ordine diverso da quello della morte apparente che continuiamo a guardare in televisione e nei film di Hollywood. Siamo costretti ad affrontarlo, qui, adesso. È per questa ragione tangibile che la paura del coronavirus sta aumentando e intensificando la nostra autocoscienza.

Mentre la paura in “Rumore Bianco” è la paura di una “morte tragica” che non dà un significato preciso alla vita, una morte che non la completa, nella finzione di Kanafani introduce un senso di individualità e consapevolezza di sé. Come direbbe Jean-Paul Sartre, il barlume di speranza che esiste nella vita del personaggio palestinese è stato rimosso da quella del protagonista americano e con esso tutte le possibili previsioni per il futuro. Sartre sostiene in modo convincente che:

La morte per quanto mi possa rivelare, non è solo il sempre possibile annientamento delle mie possibilità. È anche il trionfo del punto di vista dell’altro. La caratteristica unica di una vita dopo la morte è che è una vita di cui l’altro si fa custode. Essere morti è essere una preda per i vivi. Ciò significa quindi che chi cerca di cogliere il significato della sua morte futura deve vedere se stesso come la futura preda degli altri. Abbiamo quindi un caso di alienazione.

E questo è esattamente il caso attuale, un caso di alienazione rappresentato nella complessa contrapposizione tra il nostro tentativo di comprendere il significato della nostra possibile morte causata dal Coronavirus e il trionfo di quegli “Dei Bianchi” che controllano il nostro destino. Tuttavia, presa da una prospettiva diversa, la nostra consapevolezza della nostra possibile morte non significa necessariamente la fine del nostro potere decisionale. Poiché la paura della morte ci porta all’autoconsapevolezza e ad un livello più profondo di coscienza, ci si aspetta quindi di promuovere quella facoltà di cui siamo stati privati, vale a dire il potere decisionale. Siamo ancora liberi di prendere una decisione che coinvolge un progetto oltre la morte, un progetto che ci proietta verso un futuro dove c’è libertà e giustizia.

Haidar Eid è professore associato di letteratura postcoloniale e postmoderna all’università al-Aqsa di Gaza. Ha scritto ampiamente sul conflitto arabo-israeliano, inclusi articoli pubblicati su Znet, Electronic Intifada, Palestine Chronicle e Open Democracy. Ha pubblicato articoli su studi e letteratura culturali in diverse riviste, tra cui Nebula, Journal of American Studies in Turchia, Cultural Logic e Journal of Comparative Literature.

Trad: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org

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