La mia paura è che una volta superata questa minaccia pandemica, verranno anche normalizzate alcune misure: dalla discriminazione nei trattamenti sanitari, al tenere in ostaggio i palestinesi e il loro sistema sanitario
Di Diana Buttu – 8 Aprile 2020
Mentre siedo in casa mia ad Haifa, in quarantena, come altri in tutto il mondo, non posso fare a meno di ricordare una precedente esperienza sotto il coprifuoco imposto da Israele.
Diciotto anni fa, tra marzo e aprile del 2002, l’esercito israeliano ha nuovamente invaso la Cisgiordania, compresa la città in cui risiedevo in quel momento, Ramallah. Per mesi, siamo rimasti in isolamento mentre carri armati, jeep e soldati israeliani hanno seminato il terrore per le nostre strade e nelle nostre case.
Abbiamo trascorso le giornate ascoltando il bilancio delle vittime aumentare e preoccupati di ciò che il futuro ci avrebbe riservato. Mentre l’azione iniziale è stata denunciata con una condanna internazionale, molto presto il blocco, e il terrorismo dell’esercito israeliano, sono diventati “la normalità”. Pochi hanno alzato la voce per le punizioni collettive israeliane contro i palestinesi e per tutte le confische di terre e le demolizioni abitative effettuate dall’esercito.
Oggi non è diverso. Mentre il mondo è giustamente concentrato su “riduzione dei contagi” e “distanziamento sociale”, per fare fronte un’economia bloccata preoccupandosi dei propri cari, l’occupazione israeliana e il razzismo sistemico continuano a guidare la politica, proprio come hanno fatto nel corso della storia.
Vivo con i miei genitori anziani, uno dei quali ha una serie di gravi problemi di salute, tra cui problemi respiratori. Come altri, mi preoccupo per loro e, naturalmente, per il mio giovane figlio.
Ma non riesco a non pensare ai miei amici in Cisgiordania, in balia delle persecuzioni dell’esercito israeliano e dei coloni scatenati e violenti che vivono nei territori occupati in violazione del diritto internazionale.
Sono preoccupata per miei amici che si “nascondono” perché Israele non gli ha mai permesso di vivere normalmente nel loro paese a causa dei loro documenti d’identità palestinesi. Mi preoccupo che vengano presi mentre si recano al negozio di alimentari e se potranno accedere alle cure, se necessario.
E, naturalmente, non riesco a distogliere il mio pensiero da Gaza, terrorizzata dal fatto che il coronavirus infetti migliaia di persone assistendo impotente mentre i contagi aumentano.
Blocco sotto occupazione
Mi confortano le iniziative che i palestinesi hanno intrapreso per sostenersi a vicenda durante questo periodo, come abbiamo fatto durante altri periodi di chiusura e blocchi, sapendo che nonostante tutto, ci prenderemo cura gli uni degli altri, anche quando altri vogliono vederci scomparire.
Nella Cisgiordania occupata, i palestinesi sono stati messi in isolamento per un mese, al momento della dichiarazione della quarantena, con scuole e imprese chiuse. Lo stato di emergenza dichiarato dall’Autorità Palestinese è già stato rinnovato per un altro mese, i palestinesi non solo temono ciò che accadrà a un’economia già dipendente e fragile, ma anche che l’epidemia non possa essere contenuta.
Queste paure non sono ingiustificate: Israele ha da tempo il controllo sul sistema sanitario pubblico palestinese. Impedisce che apparecchiature essenziali come le macchine per le radiografie non solo non entrino a Gaza ma nemmeno nella Cisgiordania occupata fuori Gerusalemme est.
E pur limitando l’accesso alle strutture sanitarie in Israele, le autorità di occupazione rendono anche difficile o impossibile per i palestinesi ottenere i permessi per recarsi negli ospedali relativamente meglio attrezzati di Gerusalemme Est.
Ma i palestinesi non solo devono temere la perdita di vite umane, il collasso del sistema sanitario e dell’economia: devono anche temere le azioni quotidiane di Israele nei territori occupati.
Da quando è stato dichiarato lo stato di emergenza, Israele ha effettuato arresti di massa (detenendo 85 persone, tra cui 10 bambini), ha continuato le demolizioni, costretto le persone ad auto-demolirsi la propria casa, sequestrato oltre 40 luoghi di lavoro e case mentre a tutto il mondo viene chiesto di “rimanere a casa.”
I coloni israeliani continuano i loro attacchi, sia contro le persone che contro le proprietà, restando impuniti. Gaza rimane bloccata, anche se il settore sanitario è sull’orlo del collasso a causa del blocco israeliano che dura da più di 13 anni.
I prigionieri palestinesi in detenzione israeliana sono tra i più vulnerabili.
Dal 15 marzo, le norme di emergenza hanno concesso poteri quasi illimitati alle autorità carcerarie. Impediscono ai detenuti di incontrare le famiglie o gli avvocati e consentono la consultazione telefonica solo se un procedimento giudiziario è imminente.
Per quelli di noi che vivono all’interno dei confini di Israele del 1948, il quadro è altrettanto desolante.
Il razzismo israeliano guida la politica sul coronavirus. Dall’inizio dell’epidemia, Israele ha comunque promosso un’immagine di uguaglianza mostrando i medici palestinesi in prima linea nel trattamento dei pazienti con infezione da coronavirus per mascherare il suo razzismo. Allo stesso tempo ha punito solo i palestinesi per non “aver seguito le regole”, almeno all’inizio, anche se la maggior parte di coloro che sono risultati positivi fino ad oggi provengono da comunità religiose ebraiche.
Israele ha emesso sanzioni contro gli imam per aver tenuto preghiere, pur permettendo alle sinagoghe di continuare i loro servizi senza interruzioni. I Mikvah, bagni rituali, sono rimasti aperti fino alla fine di marzo e gli yeshiva hanno continuato a operare durante la quarantena, anche se la continua inosservanza delle regole da parte di alcune comunità ultra-ortodosse potrebbe porre fine a tutto ciò molto presto.
Discriminazione sistemica
Ancora più grave è che fino al 2 aprile Israele abbia testato solo 4.000 cittadini palestinesi di Israele, per il virus. Questo è lo stesso numero di ebrei israeliani testati ogni giorno. Inizialmente le ordinanze di sicurezza e salute pubblica venivano forniti in ebraico e talvolta in russo e inglese, ma non in arabo.
Da allora sono stati intensificati gli sforzi per fornire una guida in lingua araba, sebbene tali informazioni non siano ancora trasmesse in tempo reale.
Solo 117 cittadini arabi in Israele sono stati diagnosticati su 6.211 a livello nazionale (circa il 2%) e solo 4000 sono stati testati – circa il numero di cittadini ebrei testati ogni giorno. Salvo intervento immediato, un disastro attende la minoranza araba.
Ad eccezione degli ospedali esistenti prima del 1948 e nelle città con popolazioni miste, non ci sono ospedali nelle città palestinesi, e certamente nessuno è in grado di gestire volumi di pazienti affetti da coronavirus. Il disastro potrebbe essere imminente.
Ma mentre i test rimangono inaccessibili, il monitoraggio no. Israele sta tentando di utilizzare i meccanismi di sorveglianza dello Shin Bet per rintracciare i pazienti affetti da coronavirus, una misura temporaneamente sospesa a causa dell’intervento del gruppo di diritti Adalah.
Come sempre, è stata solo la società civile dei cittadini palestinesi di Israele e i loro legislatori che hanno respinto gli abusi dello stato, facendo anche pressioni per aumentare i test nelle città palestinesi, aumentare i finanziamenti per gli ospedali palestinesi e chiedere la fine dello stato di sorveglianza.
Alcuni potrebbero credere che il coronavirus sia equo, che colpisca sia israeliani che palestinesi. Mentre il virus ha il potenziale per colpire tutti, il trattamento per esso è difficilmente egualitario.
Piuttosto, a causa della discriminazione sistemica, l’approccio adottato da Israele è stato quello di dare la priorità alle vite degli ebrei israeliani rispetto alle vite palestinesi. Se questo virus si diffondesse ampiamente nelle comunità palestinesi, le conseguenze sarebbero disastrose.
In breve, l’approccio israeliano al coronavirus è il culmine delle politiche razziste e coloniali storiche indiscindibili.
All’indomani dell’invasione israeliana del 2002, molte situazioni sono diventate “normali:” incursioni notturne, blocchi infiniti, drastiche restrizioni al movimento per motivi di “sicurezza” e la demolizione delle case senza proteste significative.
La mia paura è che una volta superata questa minaccia pandemica, verranno anche normalizzate alcune misure: dalla discriminazione nei trattamenti sanitari, al tenere in ostaggio i palestinesi e il loro sistema sanitario, alla sorveglianza, alle demolizioni abitative e ai blocchi, tutto in nome della “sicurezza pubblica”.