Tripla punizione per i prigionieri palestinesi.

La definizione di  “tripla punizione” sembra giustificata per sottolineare  i livelli di ingiustizia subiti dai prigionieri palestinesi in questo momento.

Fonte: English version

Richard Falk – 20 aprile 2020

Immagine di copertina: le forze israeliane non hanno mai fermato la repressione contro i palestinesi, nemmeno durante l’epidemia di coronavirus. (Foto: File)

La norma procedurale  della “Double jeopardy – doppia punizione” per i rifugiati / migranti

Di recente, riflettendo sulla difficile situazione dei rifugiati che fuggono dalle zone di guerra in Medio Oriente e sui migranti che partono dall’Africa sub-sahariana e dall’America centrale, sono stato colpito dall’analogia con il principio della “Double Jeopardy” (“ne bis in idem”) . Come generalmente inteso, la “Double jeopardy” è una norma procedurale del diritto penale che proibisce il perseguimento di un individuo da parte di uno Stato più di una volta per lo stesso crimine. È meritatamente trattato come un diritto umano che protegge le persone dopo la definitiva assoluzione giudiziaria da ripetute accuse dello stesso presunto crimine.

Il Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici (1966) all’articolo 14, paragrafo 7, definisce la “Double jeopardy”  nel seguente modo: “Nessuno potrà essere processato o punito di nuovo per un reato per il quale è già stato definitivamente condannato o assolto in conformità con il diritto e la procedura penale di ciascun Paese “. (Ci sono eccezioni per le assoluzioni contaminate da frodi, per confessioni da parte degli accusati e  inoltre  la formulazione della norma dovrebbe essere corretta  nel suo pregiudizio di genere che implica che solo gli “uomini” possono essere vittime di procedimenti giudiziari vendicativi).

Per alcuni anni, le immagini angoscianti  della violenta repressione messa in atto alle frontiere per impedire ai rifugiati o ai migranti dall’attraversare i confini internazionali per raggiungere Paesi più pacifici o ricchi in Europa o Nord America, mi hanno spinto a percepire un’analogia con il tipo di calvario di chi viene assolto dopo un lungo processo, emotivamente ed economicamente costoso, e deve nuovamente confrontarsi con una accusa per lo stesso presunto reato.

In una democrazia ben amministrata, la  “Double jeopardy”  è data per scontata e impedisce che si verifichino tali ingiustizie. Ma cosa succede se il mondo di cui parliamo è quello  dei rifugiati e dei migranti in cui l’ingiustizia assume la forma di una grave sventura, spesso associata all’essere nato in estrema povertà, al ritrovarsi  con la famiglia nel mezzo di una devastante lotta politica violenta e, meno comunemente, al dover fuggire da persecuzioni  politiche o etniche?

Ciò che rendeva per me giustificabile la comparazione di queste immagini con la “Double jeopardy”  era la doppia punizione di coloro che non solo erano innocenti, ma che erano stati precedentemente vittime di circostanze al di fuori del loro controllo, e che ora venivano nuovamente puniti per atti che meritavano empatia e accoglienza, non punizione e odio. Tale crudeltà non si verificherebbe se i valori umanitari fossero adeguatamente estesi  ai rifugiati / migranti.

La mia premessa esistenziale, confermata dall’esperienza personale, è che le persone quasi mai lasciano il loro luogo di nascita e di  residenza familiare senza  motivi seri e inoltre sono particolarmente riluttanti a usare i loro  pochi risparmi e  piccoli prestiti per intraprendere un viaggio pericoloso verso una terra lontana con una lingua e una cultura diverse. Molti di noi, anche se insoddisfatti delle condizioni  di vita nella nostra terra natale o nella nostra situazione personale, non  ci allontaneremmo volontariamente dalle familiarità della famiglia e degli amici, così come dalla lingua madre, dalle tradizioni e dalla nazionalità.

Solo circostanze di grave pericolo, come quelle presenti in zone devastate dai combattimenti o afflitte dalla povertà in cui intere comunità hanno davanti a sè grigi orizzonti di disperazione che non offrono né sicurezza né benessere, possono indurre  le persone a sradicarsi. In altre parole, la motivazione alla base della realtà emotiva della stragrande maggioranza dei rifugiati e dei migranti è quella della disperazione, del tentativo di sopravvivere  e della fuga da un misero destino. Naturalmente, da questa valutazione sono escluse le piccole élite nomadi di avventurieri, esiliati ed espatriati che lasciano la loro patria non per necessità, ma alla ricerca di piaceri esotici o di un Paese in cui le loro pensioni si traducono in un migliore tenore di vita.

Questa triste rappresentazione della decisione di fuggire per mettersi in salvo o per cercare una sicurezza economica è spesso il preludio a un viaggio infido e straziante che spesso prosciuga il viaggiatore dei suoi piccoli risparmi. Molti di questi viaggi finiscono con la morte e la malattia dei membri del gruppo. E le conseguenze di tali pericolosi viaggi attraverso mari tempestosi o deserti sterili possono essere anche peggiori,  interrotti da un “no” coercitivo sotto forma di filo spinato, muri, centri di detenzione e persino spari. Essere collocati in centri di detenzione con lunghe attese potrebbe alla fine essere  la cosa migliore che si possa sperare per  tali anime abbandonate, spesso bambini piccoli, che fuggono  da una grave insicurezza nella loro terra natale solo per sperimentare un rifiuto angosciante piuttosto che un  rifugio e un nuovo inizio.

Non intendo implicare che questa esperienza di rifugiati / migranti sia una “Double jeopardy” in senso giuridico, ma sembra possedere  le stesse caratteristiche della duplicazione ingiusta della punizione, proibita nelle società che rispondono alle leggi di tutela dei diritti umani. È una specie di duplicazione della punizione moralmente, culturalmente e spiritualmente degradata, e spesso pericolosa per la vita, senza tener conto della dignità umana e dell’innocenza fondamentale di coloro che sono duramente vittimizzati.

Eppure, il semplice oltraggio morale o le richieste di compassione non riconoscono la complessità delle questioni sollevate. Diversamente dalle persone accusate dello stesso crimine una seconda volta, il rifugiato / migrante può rappresentare una vera minaccia per il benessere dei Paesi a cui viene chiesto di operare come ospiti benigni o di estendere l’ospitalità agli estranei che ne hanno necessità. Viviamo in un mondo incentrato sullo Stato, in cui i confini internazionali identificano per la maggior parte delle persone i limiti esterni della comunità.

Fondamentalmente questa realtà non è cambiata, non importa quanti siano i sermoni cosmopoliti  o le chiamate ad una identità planetaria ecologicamente persuasive. In tale quadro di appartenenza, i cittadini di un Paese si sentono minacciati in vari modi dall’afflusso di un gran numero di stranieri, soprattutto se le loro caratteristiche razziali e culturali si scontrano con quelle del Paese a cui viene richiesta ospitalità o asilo, e ancora di più quegli stranieri  vengono visti come concorrenti per il lavoro. Tale accesa resistenza porta agli estremismi del capro espiatorio e della xenofobia e apre spazi politici che i demagoghi sono pronti a riempire di odio e sciovinismo.

Cercando una via di mezzo, i moderati  propongono compromessi  come l’accesso legale, le  quote, la formazione professionale e le risorse educative linguistiche e civili. Data l’entità della sfida e l’improbabile insorgenza di una maggiore ricettività, la strategia principale per una risposta efficace dovrebbe essere l’investire corposamente  per il superamento di quelle condizioni che in vari Paesi  provocano esodi  di massa e lo spostamento di un gran numero di persone che cercano disperatamente condizioni di vita più sostenibili altrove. Il superamento della “ Double jeopardy” in questi contesti dipende da una globalizzazione della responsabilità per il raggiungimento della pace e della sicurezza, nonché dall’eliminazione della povertà, e ciò richiederebbe molti cambiamenti a partire dalla drastica riforma del modo in cui i benefici della globalizzazione neoliberista sono ora distribuiti.

Tripla punizione per i prigionieri palestinesi al tempo del coronavirus

Questa metafora  di strati di sofferenza ingiusta mi è inizialmente venuta in mente mentre preparavo una presentazione ZOOM sull’abuso dei prigionieri palestinesi nel contesto dei pericoli per la salute associati al COVID-19. Tali pericoli erano già presenti in condizioni pre-pandemiche, ma sono stati fortemente aggravati dal fallimento israeliano nel mitigare i rischi aggiuntivi che derivano dal mantenere circa 5.000 prigionieri palestinesi in prigioni sovraffollate dove alcune delle guardie e del personale di sicurezza si sono rivelati positivi al virus e continuano ciononostante a interagire con i prigionieri senza nemmeno indossare i dispositivi di protezione individuale prescritti (DPI). Prigioni  dove le capacità ospedaliere e mediche sono insufficienti nel caso in cui la malattia inizi a diffondersi.

Questa situazione  complessiva è ulteriormente aggravata dalla presenza di circa 172 detenuti minorenni e da molti detenuti anziani e disabili, oltre al fatto che quasi tutti i detenuti incarcerati per “reati di sicurezza” non avrebbero mai dovuto essere criminalizzati, perché rientranti nell’ambito del diritto delle persone che vivono sotto un regime di apartheid, regime esso stesso criminale, di esercitare il loro diritto di resistenza, almeno nei limiti del diritto internazionale che regola la violenza facendo riferimento alla scelta degli obiettivi. Israele non ha accettato le linee guida dell’OMS o principi umanitari per liberare almeno i prigionieri “a basso rischio”, nonché quelli in “condizioni fragili “,come  i bambini e gli anziani.

Tenendo conto di queste considerazioni, la definizione di  “Triple jeopardy – tripla punizione” sembra giustificata per sottolineare  i livelli di ingiustizia subiti dai prigionieri palestinesi in questo momento. Come scrive lo scrittore palestinese Ramzy Baroud, “..tutta la Palestina è in uno stato di ” blocco ” dalla fine degli anni ’40, quando Israele divenne uno Stato e la patria palestinese fu cancellata dai colonialisti sionisti con il sostegno dei loro benefattori occidentali. ”

Per ritornare al punto, Baroud aggiunge: “In Palestina, non definiamo la nostra prigionia un blocco, ma un ‘ occupazione militare e un apartheid”. In effetti, tutti i palestinesi stanno subendo una “detenzione” ingiusta che dura da più di 71 anni e che è di per sé una punizione per il “crimine” di esistere.

Su questa base, la criminalizzazione della resistenza, comprese le forme nonviolente e simboliche, che si estende anche alle poesie (ad esempio, Dareen Tatour con  il suo crimine, la poesia “Resisti, o mio popolo, resisti “), ha provocato un duro confinamento nelle prigioni israeliane, , compreso il ricorso a meccanismi giuridicamente dubbi come la “detenzione amministrativa” (detenzione per periodi prolungati senza accuse o senza  alcun processo) e il trasferimento illegale di prigionieri  da carceri nella Palestina occupata a prigioni israeliane  difficilmente raggiungibili dalle famiglie). In effetti, l’imprigionamento di palestinesi nelle carceri israeliane è una “Double Jeopardy” perché incarcera i palestinesi, già puniti da blocco, spostamento e espropriazione, solo perché hanno osato resistere.

L’accusa di Triple Jeopardy o tripla punizione deriva dall’incapacità di sospendere o mitigare le condizioni carcerarie alla luce della pandemia di Coronavirus e la relativa incapacità di adottare misure responsabili per proteggere le persone così confinate dal contrarre questa  malattia potenzialmente letale. Una condanna a morte virtuale incombe su ogni singolo prigioniero palestinese, e in una forma ancor più acuta sui palestinesi particolarmente vulnerabili che vivono in affollate prigioni malsane.

Verso soluzioni?

Non è possibile presentare proposte dettagliate per superare la Double o la Triple jeopardy”, o doppia e tripla  punizione. Indico solo alcuni  aspetti pratici e normativi della sfida.

Per la Double Jeopardy: cercare  di sviluppare un sentimento di ospitalità e di  empatia accompagnato da un  maggiore impegno nel  rimuovere le condizioni di disperazione di massa che spingono un grande numero di persone a lasciare le loro terre. Questo impegno dovrebbe essere idealmente finanziato  da una tassa amministrata a livello globale su beni di lusso, transazioni finanziarie, combustibili fossili e trasporto aereo transnazionale.

Per la Triple Jeopardy: rilasciare immediatamente e senza condizioni tutti i prigionieri politici palestinesi, con un senso di urgenza, e impegnarsi a porre fine all’apartheid come  passo essenziale verso una pace sostenibile e giusta basata sull’uguaglianza dei diritti di ebrei e palestinesi.

 

Richard Falk è professore emerito della cattedra “Albert G. Milbank” di diritto internazionale presso la Princeton University e Research Fellow, Orfalea Center of Global Studies. È stato anche relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani palestinesi.

 

Trad: Grazia Parolari “contro ogni specismo, contro ogni schiavitù” –Invictapalestina.org

 

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