Secondo i giuristi e le istituzioni stampa, Facebook sta bloccando gli account di giornalisti e attivisti palestinesi nel tentativo di marginalizzare i contenuti palestinesi
Gaza/ Nour Abu Aisha/ al-Anadolu
Secondo fonti palestinesi, nell’ultimo periodo, il social network “Facebook” ha chiuso i profili e le pagine di dozzine di giornalisti e attivisti palestinesi. I giornalisti e gli attivisti coinvolti hanno appreso con sorpresa la disattivazione delle proprie pagine e account Facebook, avvenuta senza alcun preavviso. Precedentemente, Facebook aveva già lanciato campagne simili per bloccare gli account di alcuni giornalisti palestinesi della Striscia di Gaza e della Cisgiordania.
L’anno scorso, l’organizzazione “ImpACT International for Human Rights Policies” (con sede a Londra) ha accusato Israele di “sfruttare i suoi rapporti con l’azienda di Facebook per combattere i contenuti palestinesi nel cyberspazio blu”. Difatti, nel 2018 il ministero della Giustizia israeliano ha annunciato che l’amministrazione di Facebook, l’anno precedente, aveva risposto a quasi l’85% delle richieste israeliane di rimozione di account e di accesso a dati sui contenuti palestinesi presenti nello spazio di Facebook.
Una nuova serie di chiusure
Improvvisamente, lunedì 4 maggio, l’account del giornalista Jihad Baroud, direttore della rete “‘Ain al-i’lamiyya” è stato disattivato. Baroud ha riferito all’agenzia di stampa al-Anadolu che “l’amministrazione del sito non ha risposto ai tentativi di recupero dell’account, così esso è stato chiuso”. Ha indicato che circa un mese fa la sua pagina web è stata chiusa per la settima volta consecutiva, una misura che si inserisce nel tentativo di marginalizzare i contenuti palestinesi.
Il giornalista ha affermato che la sua pagina personale e quella della rete non hanno violato le politiche di pubblicazione e che Facebook non ha alcuna giustificazione per chiuderle se non per mettere a tacere la narrativa palestinese, sottolineando poi che lui e la direzione della pagina si sono astenuti dal pubblicare contenuti relativi alla resistenza palestinese vietati da Facebook e che i media pubblicati non sono altro che immagini estetiche ed espressive e notizie generali.
Secondo Baroud, “si tratta di una guerra lanciata dall’amministrazione (ndt. Facebook) del sito in collaborazione con la potenza occupante per mettere a tacere la voce dei palestinesi e bandire i loro contenuti, in modo che nessun messaggio di impatto venga diffuso all’estero”.
Egli ha denunciato le misure adottate da Facebook, soprattutto alla luce della politica di normalizzazione dell’occupazione avviata da un dramma arabo diffuso nei Paesi del Golfo.
Anche il giornalista palestinese Mohammed Abu Daqqa ha riferito ad al-Anadolu che “l’amministrazione di Facebook ha definitivamente bloccato il suo account appena 6 giorni fa. Ha spiegato che questo gesto è stato giustificato con l’accusa di “violazione dei diritti e degli standard di Facebook”, almeno secondo quanto riportato da Facebook in una lettera nella quale, però, non vengono indicati in maniera specifica gli standard violati. Inoltre, il giornalista ha precisato che l’amministrazione di Facebook non gli ha mai comunicato di voler disattivare il suo account e di essere rimasto sorpreso da una tale misura. Questo è il terzo account di Abu Daqqa ad essere definitivamente cancellato dai social, il suo primo profilo è stato chiuso nel 2019. Egli definisce “non convincenti” le accuse mosse dall’amministrazione di Facebook nel suo messaggio ai giornalisti ai quali sono stati bloccati i profili. Crede invece che questa misura faccia capo alla volontà di oscurare i contenuti palestinesi e che coincida con gli sforzi israeliani per “mettere a tacere la narrativa palestinese e cancellare dalla faccia della terra l’immagine dell’occupazione”.
Violazione dei diritti fondamentali
L’esperto di social media Saed Hassouna ha affermato che l’amministrazione di Facebook usa sospendere gli account dei giornalisti senza avvisarli, mentre le pagine dovrebbero essere chiuse dopo aver attraversato tre fasi di notifica.. Secondo Hassouna, i criteri con i quali Facebook denuncia i contenuti palestinesi sono”ingiusti” laddove gli account siano chiusi a causa dell’uso di una parola specifica che ha, ad esempio, collegamenti con la resistenza palestinese o contro Israele, o se il contenuto dei media pubblicati è accompagnato da elementi simili. Ha aggiunto che “a giornalisti e attivisti sono state rivolte misure che vanno dalla cancellazione dei post alla chiusura degli account, come avvenuto, per esempio, in concomitanza con la Marcia di Ritorno e la Rottura dell’Assedio alla fine dello scorso marzo, a seguito della pubblicazione di foto che Facebook considera violente”.
Hassouna ritiene che “i contenuti e la narrativa palestinese” siano al centro del mirino, nonché alla base della sospensione degli account dei giornalisti. Ha affermato che ciò è in contraddizione con la libertà di opinione garantita dalle leggi e dalle norme internazionali, sottolineando che per i giornalisti è fondamentale proteggere i propri account e riformulare i contenuti in modo che siano in grado di comunicare l’idea desiderata, ma non esplicitamente, restando così in linea con le politiche di Facebook. Ha continuato dicendo che “Israele, nell’ambito di un accordo con Facebook, ha fornito un algoritmo in cui sono presenti alcuni termini e riferimenti relativi ai contenuti palestinesi; l’amministrazione del sito ha recepito positivamente tali dati, sulla base dei quali sono stati sospesi gli account”.
Dal 2019, alcuni giornalisti e attivisti hanno iniziato a eludere l’algoritmo di Facebook, pubblicando parole che, secondo l’amministrazione del sito, violano le politiche di pubblicazione, ma privandole di alcune lettere o aggiungendo delle lettere nella grafia inglese. Hassouna ritiene che eludere l’algoritmo non sia molto utile e, difatti, gli stratagemmi di cui sopra sono stati scoperti.
A sua volta, il giornalista Qasim Al-Agha, responsabile delle pubbliche relazioni per la raccolta dei media palestinesi (ONG), ha dichiarato , che “la chiusura degli account palestinesi rientra nel quadro di uno scambio dei ruoli tra l’amministrazione di Facebook e la leadership degli occupanti, nel continuo tentativo di sotterrare la narrativa palestinese”.
Al-Agha ha denunciato la politica osservata dall’amministrazione di Facebook definendola “una flagrante violazione delle libertà di opinione e di espressione”.
Da parte sua, il Comitato di sostengo ai giornalisti (ONG) ha invitato l’amministrazione di Facebook, che ha già sospeso decine di account di attivisti in Cisgiordania e Gaza, a smettere di perseguire i contenuti palestinesi.
In una dichiarazione di cui al-Anadolu ha reperito una copia, il Comitato afferma che nello scorso aprile sono state rilevate dozzine di violazioni dei social network ai danni dei profili personali degli attivisti palestinesi, oltre all’imposizione di restrizioni a molti di questi profili, come l’impossibilità di trasmettere in diretta. Il comitato ha chiesto “la necessaria interruzione del perseguimento dei contenuti palestinesi e la riattivazione degli account bloccati”.
Molte istituzioni internazionali, tra cui la Federazione internazionale dei giornalisti, l’UNESCO e Reporter senza frontiere, stanno facendo pressioni sull’amministrazione di Facebook, la quale adotterebbe una politica dei doppi standard.. Il Comitato ha proseguito affermando che “Facebook lascia libere le pagine israeliane che promuovono il razzismo e l’odio, mentre impone delle limitazioni alle pagine palestinesi”, sottolineando che tale politica “è contraria a tutti gli accordi e trattati internazionali che prevedono il rispetto delle libertà di opinione e di espressione”.
Secondo il Comitato, l’obbiettivo di tali restrizioni è quello di “sotterrare la narrativa palestinese e si inserisce nei piani israeliani volti ad eliminare la presenza del popolo palestinese strappandolo alla sua terra”.
Trad. dalla versione araba: Giulia Deiana – Invictapalestina