I palestinesi sono stanchi di dover dimostrare l’esistenza dell’apartheid israeliano.

Non c’è nulla che la legge sull’annessione possa dirci, che decenni di leggi e politiche israeliane non abbiano già fatto.

Fonte: English version

Amjad Iraqi – 17 giugno 2020

Immagine di copertina: soldati israeliani sorvegliano coloni ebrei mentre camminano per il mercato palestinese nella città vecchia di Hebron in Cisgiordania il 4 settembre 2010. (Najeh Hashlamoun / Flash90)

Tra il 1891 e il ’92, Francis William Reitz, presidente dell’Orange Free State (quello che è oggi il Sudafrica), scambiò una serie di lettere con Teofilo Shepstone, ex amministratore del Transvaal, per discutere della cosiddetta “Questione dei Nativi” . “Le repubbliche boere” scrisse Reitz, “dovrebbero adottare e mantenere fermamente il principio che non vi sarà alcuna uguaglianza tra gli aborigeni del Sudafrica e le persone di origine europea che hanno fatto di questa terra la loro casa”.

I sentimenti di Reitz, come quelli di altri leader afrikaner, posero  le basi di ciò che alla fine sarebbe diventato l’Apartheid. Due decenni dopo le sue lettere, l’Unione del Sud Africa approvò il Native Lands Act del 1913, consolidando le precedenti misure coloniali che impedivano ai neri di acquisire proprietà al di fuori delle zone designate. Dieci anni dopo, la legge sulle aree urbane del 1923 limitava il movimento di persone “indesiderabili” e ne consentiva l’allontanamento forzato da città e distretti.

Nel 1950 , due anni dopo che l’Apartheid fu ufficialmente dichiarato politica nazionale, il Group Areas Act accelerò la segregazione residenziale in tutto il Paese. La costituzione del 1983, che fu propagandata come una riforma liberale, migliorò alcuni diritti per i  meticci e per gli indiani, ma mantenne la maggioranza nera senza alcun diritto e la minoranza bianca al potere. Anche dopo le prime elezioni libere del Sudafrica nel 1994, le élite politiche e corporative rimodellarono molte istituzioni dell’Apartheid per preservare le gerarchie razziali e di classe, mantenendole fino ai giorni nostri.

Nuovi arrivi al Crossroads Squatters Camp vicino a Cape Town. Molti sudafricani neri in cerca di lavoro e impossibilitati a trovare case nei comuni, diventavano occupanti abusivi e vivevano  sotto la costante minaccia della rimozione forzata. 1 gennaio 1982. (Foto ONU / Flickr)

Come altri regimi oppressivi, l’apartheid in Sudafrica non era un’entità statica semplicemente nata nel 1948. È stato continuamente sviluppato, riconfigurato e riconfezionato per soddisfare i desideri di coloro che detenevano il potere e per mettere a tacere coloro che vi si opponevano. Era, per prendere in prestito le parole dello studioso Patrick Wolfe sul colonialismo dei coloni, “una struttura, non un evento”, un meccanismo organizzativo piuttosto che un momento nel tempo.

Questa storia dovrebbe  insegnare qualcosa a coloro che con il fiato sospeso stanno aspettando il 1 ° luglio, la data in cui il governo israeliano ha promesso di iniziare ad annettere gran parte della Cisgiordania occupata. E’ da anni che funzionari stranieri, analisti mainstream e attivisti locali, molti anche ben intenzionati, continuano ad avvertire che Israele  potrebbe diventare uno “stato di apartheid” se avesse annesso ufficialmente questi territori. Ora stanno suonando l’allarme perché  l’annessione del mese prossimo potrebbe costituire il punto di svolta che infine sigilla questo destino.

È piuttosto osceno, tuttavia, che molte persone stiano ancora aspettando un atto legislativo specifico, o un certo ordine del governo, per  confermare quell’apartheid che, mentre parliamo, milioni di palestinesi stanno già vivendo. Come il Sudafrica, il complesso regime israeliano non è stato creato in un unico drammatico “momento”: è stato meticolosamente progettato per decenni, alimentato da un’ideologia che ha respinto l’uguaglianza tra i nativi e quei coloni che, secondo le parole di Reitz, avevano “reso questa terra la loro casa.”

Non era forse Israele uno Stato di apartheid nel 1950, quando introdusse la legge sulla proprietà degli assenti per trasferire la terra araba agli immigrati ebrei? Non era apartheid quando la Knesset annettè Gerusalemme Est nel 1980, nello stesso modo in cui si sta preparando a fare oggi con la Valle del Giordano? O nel 2003, quando vietò ai palestinesi di ricongiungersi  ai propri familiari  con la cittadinanza israeliana, permettendo contemporaneamente a qualsiasi ebreo residente all’estero di essere naturalizzato secondo la Legge del Ritorno?

Un colono israeliano discute con palestinesi durante una protesta contro una nuova tenda collocata dai coloni israeliani vicino all’insediamento di Pnei Hever, nel villaggio di Bani Naem in Cisgiordania il 23 giugno 2018. (Wisam Hashlamoun / Flash90)

Che dire della legge ebraica sullo Stato-Nazione, approvata due anni fa, che decreta che in questa terra l’autodeterminazione appartiene esclusivamente agli ebrei? O le innumerevoli leggi militari che derubano e incarcerano i civili palestinesi, mentre proteggono gli ebrei israeliani  attraverso il diritto civile? Mezzo secolo di insediamenti e di  infrastrutture, che con il tempo hanno continuato a crescere, non dovrebbero dare l’idea che Israele abbia ben poche intenzioni di rinunciare alla Cisgiordania?

Data l’abbondanza di “momenti” tra cui scegliere, molti palestinesi si sono stancati dell’ultima soglia artificiale che dovrebbe “dimostrare” l’esistenza dell’apartheid israeliano. Invece di riconoscere ciò che i palestinesi stanno denunciando, la comunità internazionale sta guadagnando tempo aspettando che Israele  dichiari  di non volere l’apartheid, anche se usa ogni secondo di quel tempo per mostrare il contrario. La linea di prova è stata spostata, letteralmente, dai frammenti del piano di divisione delle Nazioni Unite del 1947 ai piccoli Bantustan delineati a gennaio nel “Deal of the Century” di Trump. Se l’annessione procede, quella linea sarà probabilmente spostata di nuovo.

La narrativa sulla presunta pietra miliare del prossimo mese non è quindi solo ingenua, ma pericolosa. Se il governo israeliano dovesse fare marcia indietro o ritardare la sua spinta all’annessione, come suggeriscono alcuni rapporti, il mondo non potrà ricadere nel mito secondo cui Israele si è salvato dal destino dell’apartheid. In ogni sfumatura del dominio israeliano, i palestinesi sono sempre stati solo esiliati rifugiati, soggetti occupati o cittadini di seconda classe. Non c’è nulla che un’altra legge possa dirci, che decenni di leggi e di politiche non abbiano già fatto. E non c’è bisogno di aspettare che gli israeliani ammettano che il loro regime è un regime di apartheid, per dimostrare che i palestinesi hanno sempre avuto ragione.

Amjad Iraqi è editore e scrittore presso +972 Magazine. È anche analista politico presso il think tank Al-Shabaka, ed è stato precedentemente coordinatore della difesa nel centro legale Adalah. È un cittadino palestinese di Israele, con sede a Haifa.

Trad: Grazia Parolari “contro ogn specismo, contro ogni schiavitù”  Invictapalestina.org

 

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