L’aggressione al diplomatico “israeliano” rivela la particolare tipicità dell’apartheid in Israele

L’uomo aggredito a Gerusalemme non era un normale diplomatico israeliano. Era beduino, appartenente alla grande minoranza palestinese di Israele.

 

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Di Jonathan Cook – 23 Giugno 2020

Un diplomatico israeliano ha sporto denuncia la scorsa settimana alla polizia dopo essere stato trascinato a terra, nella stazione centrale degli autobus di Gerusalemme, da quattro guardie di sicurezza, che lo hanno tenuto sul collo per cinque minuti mentre gridava: “Non riesco a respirare.”

Ci sono similarità evidenti del trattamento di George Floyd, un afroamericano ucciso dalla polizia a Minneapolis il mese scorso. La sua morte ha innescato proteste di massa contro la brutalità della polizia e rafforzato il movimento Black Lives Matter. L’incidente di Gerusalemme, al contrario, ha attirato solo un’attenzione minore, anche in Israele.

Un’aggressione da parte di funzionari della sicurezza israeliani a un diplomatico suona come un’aberrazione, un caso peculiare di errore di valutazione, a differenza di un modello consolidato di violenza della polizia contro le comunità Afroamericane povere negli Stati Uniti. Ma questa impressione sarebbe sbagliata.

L’uomo aggredito a Gerusalemme non era un normale diplomatico israeliano. Era beduino, appartenente alla grande minoranza palestinese di Israele. Questa minoranza, un quinto della popolazione, gode di una forma subordinata di cittadinanza israeliana.

L’eccezionale successo di Ishmael Khaldi nel diventare diplomatico, così come la sua esperienza fin troppo familiare, come palestinese, di abuso da parte dei servizi di sicurezza, esemplificano il paradosso di ciò che equivale alla versione ibrida dell’apartheid da parte di Israele.
Khaldi è uno dei 1,8 milioni di cittadini palestinesi che discendono dai pochi palestinesi sopravvissuti alle espulsioni durante la Nakba nel 1948 quando lo stato ebraico fu dichiarato sulle rovine della loro terra natale.

Israele continua a considerare questi palestinesi, i suoi cittadini non ebrei, come un elemento sovversivo che deve essere controllato e soggiogato attraverso misure che ricordano il vecchio Sudafrica. Ma allo stesso tempo, Israele ha un disperato bisogno di presentarsi come una democrazia di tipo occidentale.

Così stranamente, la minoranza palestinese si è trovata trattata sia come cittadini di seconda classe, e come un inutile appiglio su cui Israele può appendere le sue pretese di equità e uguaglianza. Ciò ha portato a due aspetti contraddittori.

Da un lato, Israele segrega i cittadini ebrei e palestinesi, limitando quest’ultimi a una manciata di comunità strettamente ghettizzate su una piccola frazione del territorio del paese. Per prevenire il mescolamento e l’incrocio di razze, separa rigorosamente le scuole per i bambini israeliani e palestinesi. Questa politica ha avuto un tale successo che l’inter-matrimonio è quasi inesistente. In un raro sondaggio, l’Ufficio Centrale di Statistica ha scoperto che solo 19 matrimoni di questo tipo hanno avuto luogo nel 2011.

Anche l’economia è in gran parte segregata.

La maggior parte dei cittadini palestinesi sono esclusi dall’impiego nelle industrie di sicurezza di Israele e da tutto ciò che riguarda l’occupazione militare. I servizi pubblici, dai porti, agli acquedotti, alle telecomunicazioni e all’elettricità, sono in gran parte privi di impiegati palestinesi.

Le opportunità di lavoro si concentrano invece nei settori dei servizi a basso reddito e del lavoro occasionale. Due terzi dei bambini palestinesi in Israele vivono al di sotto della soglia di povertà, rispetto a un quinto dei bambini israeliani.

Questo aspetto negativo viene accuratamente celato all’opinione pubblica internazionale.

Dall’altro lato, Israele celebra ad alta voce il diritto di voto dei cittadini palestinesi, una facile concessione dato che Israele ha artificialmente indotto una schiacciante maggioranza ebraica nel 1948 costringendo la maggior parte dei palestinesi all’esilio. Diffondendo eccezionali “storie di vittorie sugli arabi”, e sorvolando sulle verità più profonde che contengono.

Durante la pandemia di Covid-19, Israele ha promosso con entusiasmo il fatto che un quinto dei suoi medici sono cittadini palestinesi, corrispondenti alla loro percentuale della popolazione. Ma in verità, il settore sanitario è l’unica grande sfera della vita in Israele, dove la segregazione non è la norma. Gli studenti palestinesi più brillanti gravitano verso la medicina perché, almeno lì, gli ostacoli alla propria realizzazione possono essere superati.

Al contrario dell’istruzione superiore, dove i cittadini palestinesi occupano molto meno dell’ 1% dei posti accademici di alto livello. Il primo giudice musulmano, Khaled Kaboub, è stato nominato alla Corte Suprema solo due anni fa, 70 anni dopo la fondazione di Israele. Gamal Hakroosh è diventato il primo vice commissario di polizia musulmano di Israele nel 2016; Il suo ruolo era limitato, ovviamente, alla gestione della polizia nelle comunità palestinesi.

Khaldi, il diplomatico aggredito a Gerusalemme, si adatta a questo modello. Cresciuto nel villaggio di Khawaled in Galilea, alla sua famiglia sono stati negati acqua, elettricità e permessi di costruzione. La sua casa era una tenda, dove studiava sotto la luce di una lampada a gas. Molte decine di migliaia di cittadini palestinesi vivono in condizioni simili.

Indubbiamente, il talentuoso Khaldi ha superato molti ostacoli per vincere un posto ambito all’università. Ha poi prestato servizio nella polizia paramilitare di frontiera, nota per aver abusato dei palestinesi nei territori occupati.

È stato indicato fin dall’inizio come un affidabile sostenitore di Israele da una insolita combinazione di tratti: la sua intelligenza e determinazione; un rifiuto accanito di essere frenato dal razzismo e dalla discriminazione; un codice etico flessibile che condonava l’oppressione dei connazionali palestinesi; e cieca deferenza verso uno stato ebraico la cui stessa definizione lo escludeva.

Il Ministero degli Esteri israeliano gli ha spianato la strada, mandandolo presto a San Francisco e Londra. Lì il suo compito era quello di combattere la campagna internazionale per il boicottaggio di Israele, attuandone una simile analizzando l’apartheid in Sudafrica, citando la propria storia come prova che in Israele chiunque può avere successo.

Ma in realtà, Khaldi è un’eccezione cinicamente sfruttata per confutare la regola. Forse quel particolare gli venne in mente nel momento in cui veniva strangolato nella stazione centrale degli autobus di Gerusalemme dopo aver messo in dubbio il comportamento di una guardia di sicurezza.

Dopo tutto, chiunque in Israele comprende che i cittadini palestinesi, anche l’insolito professore o il legislatore, hanno un profilo razziale e sono trattati come nemici. Le storie dei loro abusi fisici o verbali sono insignificanti. L’aggressione di Khaldi spicca solo perché si è dimostrato un servo così compiacente di un sistema progettato per emarginare la comunità a cui appartiene.

Questo mese, tuttavia, lo stesso Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha scelto di strappare la pretestuosa maschera diplomatica rappresentata da Khaldi nominando un nuovo ambasciatore nel Regno Unito.

Tzipi Hotovely, suprematista ebraica e islamofoba, che sostiene l’annessione israeliana dell’intera Cisgiordania e l’acquisizione della moschea Al Aqsa a Gerusalemme. Fa parte di una nuova orda di delegati completamente non-diplomatici inviati in capitali straniere.

A Hotovely interessa molto meno l’immagine di Israele che di rendere tutta la “Terra Promessa”, compresi i territori palestinesi occupati, esclusivamente israeliani.

La sua nomina segna un progresso nel suo genere. Delegati come lei possono finalmente aiutare l’opinione pubblica internazionale a capire perché Khaldi, il suo collega diplomatico, è stato aggredito in patria.

Trad: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org

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