Considerato che ci sono tre diverse proposte per la “soluzione a uno stato”, quale di esse Israele ha in mente per il popolo palestinese?
Fonte: English Version
Joseph Massad – 29 luglio 2020
Immagine di copertina: Manifestanti si riuniscono in piazza Rabin a Tel Aviv per denunciare il piano di Israele di annettere parti della Cisgiordania occupata, il 23 giugno (AFP)
Nelle ultime settimane, le discussioni su una “soluzione a uno stato” per la situazione coloniale in Palestina e Israele si sono intensificate.
Persone provenienti da diversi contesti mainstream nazionali e politici, che hanno sempre sostenuto la “soluzione a due stati”, hanno iniziato a esprimere sostegno per quella a uno stato. Lo fanno a causa della consapevolezza che la “soluzione a due stati” è ormai diventata insostenibile.
Ma poiché ci sono tre diverse proposte per la “soluzione a uno stato”, quale di esse hanno in mente per il popolo palestinese?
Tre “soluzioni a uno stato”
Il fallimento della “soluzione a due stati”, inizialmente proposta dalla commissione coloniale britannica Peel nel 1937 e formalizzata un decennio dopo dalle potenze imperialiste occidentali e dall’Unione Sovietica attraverso il Piano di divisione delle Nazioni Unite del 1947, ha avuto effetti drastici sul futuro della colonia sionista in Palestina.
Il fallimento della “soluzione a due stati” ha avuto effetti drastici sul futuro della colonia sionista in Palestina.
L’incapacità del movimento sionista di invogliare la maggioranza degli ebrei europei e americani a trasferirsi in Palestina tra il 1897 e il 1947 (o da allora) e la sua incapacità di acquisire più del 6,5 percento della terra durante quel periodo, richiese un piano per stabilire una colonia ebrea su parte della Palestina, se non su tutta.
Dal 1967, miliardi di dollari sono stati spesi per imporre questa “soluzione a due stati” al popolo palestinese che, è importante sottolineare, fu solo una soluzione all’incapacità sionista di colonizzare con successo l’intero paese.
La capitolazione dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP) con la firma degli accordi di Oslo nel 1993 fu , secondo l’OLP, il coronamento degli sforzi per la realizzazione della “soluzione a due stati” , che legittimava Israele mentre concedeva un premio di consolazione all’OLP sotto forma di un mini-stato peraltro sempre differito.
Per gli israeliani, che furono essenzialmente gli autori degli accordi, l’accordo di Oslo non fu altro che un espediente, sostenendo pubblicamente la “soluzione a due stati”, mentre segretamente, e anche non così segretamente, ne suonavano la campana a morto in preparazione della definitiva “soluzione a uno stato”.
Quello che gli israeliani hanno in mente è un unico stato, non diversamente da ciò che i coloni bianchi europei stabilirono in America, Africa e Oceania dalla fine del XVIII secolo, vale a dire il dominio degli indigeni attraverso il furto di terre e con una serie di draconiane disposizioni di sicurezza legittimate dalla firma di una serie di trattati.
Ciò fu associato a una campagna di pubbliche relazioni che promosse il suprematismo bianco che i coloni definirono “democrazia”. Negli Stati Uniti questi accordi hanno funzionato relativamente bene fino agli anni ’60, quando dovettero essere aggiornati per “vendere”più efficacemente agli americani bianchi e al resto del mondo la supremazia bianca come la migliore forma di “democrazia”.
Questo è, con alcune variazioni, ciò che è accaduto anche in Canada, Australia e Nuova Zelanda.
Lo stato suprematista bianco
Tuttavia, la soluzione di un unico stato suprematista bianco che, grazie all’efficacia del genocidio e della schiavitù ebbe successo nello stabilire la supremazia demografica bianca nelle Americhe e in Oceania, funzionò meno bene altrove, soprattutto in Africa.
Le lotte di liberazione in tre ex colonie (Algeria, Kenya e Rhodesia) portarono a un tipo di stato decolonizzato e derazzializzato in cui i coloni bianchi divennero cittadini uguali agli altri
Lo stato suprematista bianco che i coloni francesi stabilirono in Algeria nel 1830 , cadde nel 1962, così come quelli in Kenya e in Rhodesia, che caddero rispettivamente nel 1963 e nel 1980.
In Algeria, i coloni bianchi erano un milione rispetto ai nove milioni di indigeni algerini, mentre in Kenya erano 23.000 a fronte di cinque milioni di indigeni kenioti, e in Rhodesia circa 277.000 con sei milioni di indigeni dello Zimbabwe.
Le lotte di liberazione in tutte e tre le ex colonie portarono a una nuova versione della soluzione a uno stato: uno stato decolonizzato e derazzializzato in cui i coloni bianchi sarebbero stati cittadini uguali ai nativi (sebbene nello Zimbabwe, i paesi imperialisti occidentali insistettero sul mantenimento di privilegi economici per i coloni bianchi ancora per un paio di decenni).
In tutti e tre i casi, i coloni si rifiutarono di vivere da pari a pari e optarono per rimpatriare in Europa o in altre colonie di suprematisti bianchi, dove il loro privilegio razziale bianco poteva essere mantenuto e salvaguardato.
In Africa la soluzione di stato unico suprematista bianco sopravvissuta più a lungo fu in Sudafrica, i cui coloni bianchi optarono per la soluzione a unico stato suprematista bianco, presentando il loro regime di apartheid come una soluzione di undici patrie (10 patrie per i neri indigeni e il resto del Sudafrica per i coloni bianchi).
Ciò sarebbe servito come fonte d’ispirazione per gli israeliani nella stesura degli accordi di Oslo, con i quali stabilirono i bantustan palestinesi.
Ma questo modello fallì anche in Sudafrica e fu infine trasformato in una nuova versione coloniale della soluzione a stato unico. Il Congresso Nazionale Africano la accettò nel 1994, vale a dire uno stato in cui non sarebbe stata effettuata alcuna decolonizzazione e in cui la salvaguardia di una parziale razzializzazione attraverso il mantenimento della supremazia bianca nel settore economico sarebbe stato il prezzo da pagare per il rovesciamento della supremazia bianca nella politica.
La differenza tra le colonie di suprematisti bianchi negli Stati Uniti, in Canada, in Nuova Zelanda e in Australia rispetto al Sudafrica è demografica. Attraverso il genocidio e la schiavitù, i coloni bianchi stabilirono la loro supremazia demografica nelle loro colonie, il che fu funzionale all’affermazione che il loro dominio era / è il dominio della maggioranza democratica.
In Sudafrica escludere la strategia del genocidio di massa significava che la soluzione a stato unico era quella in cui i bianchi potevano rimanere solo i governanti economici, ma non politici, del paese, poiché alla fine del regime di apartheid contavano 4,5 milioni di persone a fronte di circa 36 milioni di neri, coloreds e indiani.
Il dilemma palestinese
In Palestina, il dilemma dei coloni ebrei che dopo la prima guerra mondiale costituivano il 10 percento della popolazione palestinese e dopo la seconda guerra mondiale il 30 percento, era come stabilire una maggioranza demografica senza un genocidio.
Optarono per l’espulsione di massa, un piano che avevano elaborato già alla fine degli anni ’20 e in modo più formale dopo la metà degli anni ’30. Quando alla fine del 1948 finirono di conquistare la Palestina, avevano espulso il 90% della popolazione palestinese dalle aree palestinesi che avevano conquistato e stabilito uno stato ebreo-suprematista, in stile americano, canadese e australiano.
Dopo la conquista israeliana del 1967 del resto della Palestina, i dati demografici cambiarono, creando una nuova serie di problemi.
Oggi, i palestinesi indigeni (sette milioni, di cui 5,1 milioni in Cisgiordania e Gaza e 1,9 milioni in Israele) hanno nuovamente superato i loro colonizzatori (6,7 milioni), senza contare gli otto milioni di rifugiati palestinesi che vivono in Giordania, Siria e Libano, in un raggio di 100 miglia intorno alla loro patria.
Questa nuova situazione ha richiesto l’abbandono di un unico stato suprematista bianco in stile americano, sostituendolo con un unico stato in stile apartheid sudafricano – bantustan, soprannominato la “soluzione a due stati” e formalizzato a Oslo.
Con l’insostenibilità della soluzione a due stati, alcuni dei suoi sostenitori al di fuori di Israele hanno proposto la soluzione di un unico stato in stile Sudafrica post-apartheid. Il primo ministro giordano Omar Razzaz, il cui paese nell’accordo di pace firmato nel 1994 riconobbe il diritto di Israele ad essere una colonia ebraica, ha spiegato la scorsa settimana che la Giordania potrebbe vedere positivamente una “soluzione democratica a uno stato”, purché garantisca pari diritti a entrambi i popoli .
La soluzione a un solo stato dei sionisti
Nel frattempo l’opinionista liberale Peter Beinart, ebreo sionista americano, ha abbandonato il suo sostegno alla soluzione ebraico-suprematista a due stati e ha optato per la soluzione a uno stato.
Beinart, tuttavia, vuole rassicurare i coloni ebrei e i loro sostenitori sul fatto che ciò che sta chiedendo non è uno stato decolonizzato e derazzializzato con pari diritti politici ed economici per tutti, come stabilirono l’Algeria, il Kenya e lo Zimbabwe una volta divenuti indipendenti, ma piuttosto uno stato in stile sudafricano post-apartheid.
In un recente articolo, Beinart ha scritto che “il binazionalismo democratico in Israele-Palestina sarebbe … enormemente disordinato e complesso. Ma gli ebrei sarebbero ben posizionati per difendere i loro interessi – forse così ben posizionati da inibire una trasformazione fondamentale. Rispetto ai bianchi sudafricani, gli ebrei israeliani vantano legami transnazionali molto più forti con una diaspora molto più forte.
Sono anche una percentuale molto più ampia della popolazione. Alla fine dell’apartheid, il Sudafrica era bianco per il 12%. Israele-Palestina è circa il 50 percento ebreo. E anche se la quota ebraica della popolazione è diminuita a causa dell’emigrazione, del ritorno dei rifugiati [palestinesi] e di un tasso di natalità più basso, l’esperienza del Sudafrica e degli Stati Uniti, dove l’uguaglianza politica ha solo marginalmente posto rimedio all’abisso economico tra gli storici privilegiato e gli storicamente oppressi – suggerisce che il privilegio economico ebraico continuerebbe”.
Beinart sa bene che i coloni ebrei in Palestina / Israele, così come i coloni bianchi altrove, abbandonerebbero il paese se perdessero i privilegi riservati all’essere bianchi ed ebrei e si dovessero adeguare alla decolonizzazione e alla parità dei diritti con gli indigeni, motivo per cui insiste che “in un paese di uguali” , come nel Sudafrica post-apartheid, dove i bianchi continuano a dominare la prosperità economica, “gli ebrei non potrebbero semplicemente sopravvivere, ma prosperare”.
Eppure, e per paura di questa eventualità, negli ultimi due decenni più di un milione di ebrei israeliani ha ottenuto la doppia nazionalità, con la seconda nazionalità invariabilmente europea o americana.
Quelli sono paesi che, se gli ebrei israeliani vi dovessero emigrare, salvaguarderebbero il loro privilegio bianco (è da notare che i genitori di Beinart erano coloni bianchi sudafricani che si trasferirono al di là dell’Atlantico in quell’altra colonia di coloni suprematisti bianchi, dove lui è nato) .
La fine dei privilegi coloniali
I sostenitori di Israele temono tutte e tre le soluzioni a uno stato, ma non in egual misura. Temono la soluzione di un unico stato dell’apartheid perché Israele perderebbe il sostegno internazionale e lo esporrebbe alle sanzioni; temono soprattutto la soluzione Algeria-Kenya-Zimbabwe, perché toglierebbe ai coloni ebrei tutti i loro privilegi coloniali e razziali, rendendoli uguali ai nativi.
A meno che la soluzione a uno stato non annulli tutti i privilegi razziali e coloniali ebraici, questa non sarebbe altro che l’ennesima campagna ingannevole.
Il fatto che alcuni di loro sostengano ora la soluzione a uno stato post-apartheid in stile sudafricano,è perché la considerano un compromesso, in quanto sembra essere l’unica dei tre in grado di salvaguardare il privilegio del suprematismo ebraico senza pericolo di sanzioni internazionali.
Che nessuno si illuda: a meno che la soluzione a uno stato non annulli tutti i privilegi razziali e coloniali ebraici e decolonizzi il paese al fine di garantire uguali diritti a tutti, sarebbe l’ennesima campagna ingannatoria per coprire il mantenimento della supremazia ebraica sotto una nuova veste.
Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.
Joseph Massad è professore di politica araba moderna e storia intellettuale alla Columbia University di New York. È autore di numerosi libri e articoli accademici e giornalistici. I suoi libri includono: “Colonial Effects: The Making of National Identity in Jordan”, “Desiring Arabs”, “The Persistence of the Palestinian Question: Essays on Zionism and the Palestinians” e, più recentemente, “Islam in Liberalism”. I suoi libri e articoli sono stati tradotti in una dozzina di lingue.
Trad: Grazia Parolari “contro ogni specismo, contro ogni schiavitù” –Invictapalestina.org