Il nuovo libro di Susan Abulhawa, “Contro un mondo senza amore”, è un potente contributo femminista alla scrittura palestinese che ci dice che la lotta per la liberazione sessuale e la decolonizzazione del potere patriarcale non sono separate dalla liberazione nazionale.
Fonte: English Version
Bill V. Mullen – 24 agosto 2020
Immagine di copertina: Una donna palestinese mostra un segno di vittoria gridando verso soldati israeliani dopo una protesta contro l’esproprazione di un terreno nel villaggio di Kfar Qaddum, vicino a Nablus, il 19 luglio 2013 ( Foto Nedal Eshtayah/Apa Immagini)
CONTRO UN MONDO SENZA AMORE romanzo di Susan Abulhawa
Le lotte di liberazione nazionale hanno creato una serie di eroi maschili che spesso vediamo come l’incarnazione delle stesse: Ho Chi Minh, Che Guevara, Patrica Lumumba. Per l’osservatore distante , questo è vero anche per la lotta di liberazione palestinese dove, con la notevole eccezione di Leila Khalid, il volto della resistenza indossa generalmente i pantaloni.
Nel suo nuovo eccezionale romanzo “Contro un mondo senza amore” , Susan Abulhawa sovverte questi luoghi comuni. Il rivoluzionario eroe palestinese del romanzo di Abulhawa è sia una donna che una ex prostituta la cui coscienza rivoluzionaria emerge non dalla canna di un fucile, ma da un inferno di sessismo colonialista, patriarcato, omofobia e violenza maschile. Il libro esplora la storia palestinese post-Nakba come una continua lotta delle donne – e in misura minore dei palestinesi queer – per riuscire a conquistarsi un loro spazio nella storia rivoluzionaria.
Il romanzo di Abulhawa è ambientato sullo sfondo di eventi cruciali della Palestina contemporanea: la Nakba del 1948; l’invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein nel 1990; gli accordi di Oslo del 1993 e la Prima e la Seconda Intifada. Abulhawa utilizza strategicamente la storia con la S maiuscola per mettere in primo piano la sfera intima e di genere del risveglio rivoluzionario di Nahr.
Questo risveglio inizia con suo padre. Separato dalla sua famiglia dalla guerra d’Israele del 1967, si unisce a varie donne che lei non conosce e dà a Nahr il nome di una di loro. Sfollata lei stessa in Kuwait, Nahr finisce per diventare una ballerina e una prostituta, sia per sopravvivere che per raccogliere fondi per mandare suo fratello Jehad all’Università. La notte in cui Saddam Hussein invade il Kuwait, Nahr viene aggredita sessualmente sul lavoro da un gruppo di uomini.
Um Buraq, la donna che ha recluta Nahr come prostituta, diventa anche chi si occupa di lei, la protegge e la istruisce politicamente. Si incontrano dopo il matrimonio, che poi si rivelerà violento, di Nahr con Mohammad Jalal AbuJamal, una leggendaria figura di ribelle che inizialmente abbaglia Nahr. Um Buraq, lei stessa abbandonata, prova affetto per Nahr, e le dice di non fidarsi mai degli uomini. “Fino a quando non ho incontrato Um Buraq”, dice Nahr, “ero convinta che il patriarcato non fosse altro che l’ordine naturale della vita. È stata la prima donna che ho incontrato che odiava veramente gli uomini. Lo ha detto apertamente e senza scuse. L’ho trovata persuasiva. ”
Nahr inizia a reinterpretare gli eventi della sua vita. Arriva ad odiare Mohammad e gli uomini che l’hanno abusata e sfruttata. Condanna il matrimonio. Comincia a rivalutare le vite di sua madre e di sua nonna, sopravvissute a due tipi di oppressione: come donne, come palestinesi.
Il rivoluzionario eroe palestinese del romanzo di Abulhawa è sia una donna che una ex prostituta la cui coscienza rivoluzionaria emerge non dalla canna di un fucile, ma da un inferno di sessismo coloniale, patriarcato, omofobia e violenza maschile.
La nuova coscienza politica di Nahr viene messa alla prova quando incontra Bilal, un ex leader del Partito Comunista Palestinese, combattente per la libertà e fratello di Mohammad. Da lui apprende informazioni sorprendenti su Mohammad, che aumentano la sua rabbia e la fanno sentire tradita anche a livello politico.
Qui Abulhawa svolge un tema introdotto all’inizio del romanzo, ovvero che l’energia e il talento di Nahr per la danza – ciò che lei chiama “caos” – possono diventare uno strumento di liberazione politica. Convince Bilal a tentare tattiche non ortodosse per cogliere di sorpresa gli occupanti israeliani. Ci riescono. Alla fine Nahr, Bilal e altri membri della cellula vengono arrestati. Nahr è rinchiusa in una prigione israeliana, chiamata “Il cubo”, da cui racconta la storia che si legge nel romanzo.
Questo semplice resoconto dell’avvincente narrativa di Abulhawa tocca a malapena le idee resilienti e intersecanti del romanzo sulla vita delle donne e sulla vita dei palestinesi dopo la Nakba.
Facendo narrare a Nahr la sua storia dalla prigione, Abulhawa dà voce simbolica alle migliaia di palestinesi della diaspora detenuti come prigionieri politici (è significativo che Bilal porti il cognome di Mumia Abu-Jamal, il prigioniero afroamericano attualmente nel braccio della morte in Pennsylvania). Nelle mani di Abulhawa, la cella di isolamento che uccide l’anima di Nahr si trasforma in uno spazio di immaginazione critica e di resistenza letteraria.
Il tema della scrittura come resistenza si manifesta anche come parte del risveglio politico di Nahr. Dopo averle insegnato a leggere, Bilal la introduce agli scritti di James Baldwin. Il romanzo di Abulhawa infatti prende il titolo da una frase di “The Fire Next Time”, il libro manifesto di Baldwin pubblicato nel 1963 che chiede la distruzione del razzismo negli Stati Uniti ed esorta ad una sorta di amore politico dei Neri “contro il mondo senza amore”. Questa frase del libro risuona anche nel risveglio politico di Nahr e diventa una sorta di mantra per il romanzo: “Impegnarsi è essere in pericolo”.
Ma il contributo più importante del romanzo potrebbe essere la rappresentazione radicale e coraggiosa della vita delle donne palestinesi. La storia di Nahr ha lo scopo di rendere visibili, all’interno della miriade di spazi della diaspora palestinese, il significato di vite che altrimenti potrebbero restare invisibili. È un tributo alle centinaia e migliaia di donne “senza volto” che hanno combattuto i sionisti nella Nakba, che hanno portato armi e soccorsi durante la Prima e la Seconda intifada e che spesso finiscono in prigione. Il gruppo di supporto ai prigionieri e per i diritti umani Addameer stima che dalla guerra del 1967, 10.000 donne palestinesi siano state imprigionate.
In effetti, la ripresa e il risveglio politico di Nahr devono tanto alla sua rete di sostegno matrilineare,quanto alla sua educazione politica formale. Alla fine del suo processo di risveglio politico, lei è il mentore politico del rivoluzionario Bilal quanto lui lo è di lei. È questo processo reciproco e dialettico che dà forma al loro stesso amore contro un mondo senza amore.
Il libro di Abulhawa è un potente contributo femminista alla scrittura palestinese. Il suo libro ci dice che la lotta di liberazione sessuale, la decolonizzazione del potere patriarcale, non è separata ma parte integrante della lotta di liberazione nazionale. Ha dato ai lettori della narrazione palestinese un bellissimo nuovo orizzonte entro il quale immaginare la libertà.
Bill V. Mullen è professore di studi americani alla Purdue. È membro del collettivo organizzativo di USACBI (Campagna degli Stati Uniti per il boicottaggio accademico e culturale di Israele). È co-editore, con Ashley Dawson, di “Against Apartheid: The Case for Boycotting Israeli Universities”.
Trad: Grazia Parolari “contro ogni specismo, contro ogni schiavitù” Invictapalestina-org