Sei NoTav? Diventi “terrorista”. Sulla condanna di Dana Lauriola e sull’immaginario collettivo

Ottobre 2020 – Lorenzo Poli

Copertina: Dana,Comune.info

Dell’arresto di Dana, molte cose mi hanno colpito, ma la cosa che più mi ha accecato è come il mainstream abbia subito diffuso l’arresto, suo e di altri, come una vittoria dello Stato contro “terroristi”. Non è la prima volta che attivisti NoTav vengono perseguitati con la scusa del movente terroristico, ma non mi era mai capitato di sentirli nominare “terroristi” insinuando un legame tra loro e la lotta armate degli anni Settanta e Ottanta. Una correlazione talmente ridicola che risulta comica se solo non si sapesse che viene realmente considerata tale.

Il giorno dell’arresto, La Stampa, quotidiano della Famiglia Agnelli, ha pubblicato sul suo sito un articolo a questo link https://www.lastampa.it/torino/2020/09/18/news/due-anni-di-carcere-all-attivista-no-tav-persona-violenta-1.39318616 , al quale ora non si trova nulla dal momento che è stato cancellato, a quanto pare, perché considerato fuori luogo dalla stessa redazione. L’articolo intitolava così:

Dana Lauriola, leader NoTav ed attivista del centro sociale Askatasuna è diventata magicamente una ex terrorista che in passato “aveva creato una sua base in Val Susa”.

Non si sa dove i “professionisti dell’informazione” abbiano potuto attingere questa notizia, ma sta di fatto che non c’è prova di questi fatti risultando a tutti gli effetti una bufala. Il sottotitolo inoltre è rafforzato dall’arresto del militante NoTav Stefano Milanesi che ha un passato nella lotta armata negli anni Ottanta, ma ciò non dovrebbe interessare a nessuno dal momento che non ha nessuna correlazione con i fatti contemporanei e, lo stesso Stefano Milanesi, ha pagato i suoi anni in carcere per il suo passato. Un giornale liberal come La Stampa preferisce scrutare il passato di una persona per criminalizzarla nel presente. Viene da chiedersi se questo quotidiano faccia riferimento alla vendetta come concetto di giustizia, o addirittura se sia così moralista da essere interessato alle colpe piuttosto che alle responsabilità. Sta di fatto che Stefano come Dana, sono oggi in carcere per aver espresso pacificamente il proprio dissenso, senza alcun lancio di molotov, senza aver massacrato nessuno e senza nemmeno sfiorare la minima idea di ciò che l’immaginario collettivo definisce “atto terroristico”.

A dare risonanza a questa narrazione è stato anche Il Sole 24, quotidiano di Confindustria, che ha intitolato “Quando il passato ritorna: il filo rosso di Lotta Continua e Prima Linea incrocia i No Tav”, come se ci fosse veramente continuità tra la lotta armata e il movimento NoTav e, ancora più preoccupante, come se aver militato in Lotta Continua sia una colpa da espiare o ancora di più uno stigma da portare.

Si sa quale è la linea politica di questi giornali mainstream, si sa da chi sono diretti e come lavorano nel campo dell’informazione, quindi non ci dovrebbe preoccupare ciò che scrivono, ma piuttosto l’immaginario e la narrazione che rappresentano non solo a livello giornalistico, ma culturale ed istituzionale.

Ciò che infatti sconvolge è come, con la condanna, a Dana venga riservato un trattamento da vera e propria “terrorista”. “La sua condotta non ha mai mostrato segni di pentimento” “nonostante le svariate assoluzioni pronunciate in secondo grado in altri procedimenti penali in cui è stata coinvolta” lei merita il carcere.

A Dana è stato sostanzialmente chiesto di dissociarsi e di pentirsi per il suo attivismo NoTav per beneficiare di pene alternative che lei ha chiesto per poter continuare il suo lavoro. Si chiede il pentimento esattamente come lo si chiedeva ai militanti delle Brigate Rosse di dissociarsi dalla lotta armata, beneficiando di sconti di pena e di collaborazione. Dana non si è pentita di essere NoTav nemmeno in questi giorni e questo ha permesso ai media di imbastire la struttura moralistica per la quale se sei “dissociato” sei una persona che ha capito di aver sbagliato e che ritorna sulla retta via, mentre se sei un “irriducibile” sei una persona che non si vergogna di quello che ha fatto.

Ne emerge quindi l’immagine di uno Stato che oltre a reprimere, ti fornisce la sua salvifica protezione al solo costo di rinunciare a se stessi e alla propria lotta. Questo è quello che la repressione statuale e la “guerra giudiziaria” vuole fare contro i NoTav, in un contesto ben diverso da quello che si era configurato negli anni della guerriglia armata in Italia. Un modo per mettere alla gogna mediatica non solo coloro che lottano contro un’opera inutile, che porterebbe alla devastazione ambientale, ma anche coloro che ci abitano.

Dana non potrebbe, quindi, neanche scontare gli arresti domiciliari perché il suo paese coincide “con il territorio scelto come teatro d’azione del movimento notav”, un luogo di “pregiudicati” in cui “potrebbe proseguire la propria attività di proselitismo”.

L’idea è quella di far passare il Movimento NoTav come una minaccia per la sicurezza nazionale, cosa che risulta distopica e non aderente alla realtà.

Un’operazione di brainwashing priva di razionalità che ha un solo fine, ancora una volta: far passare dei resistenti come “terroristi”. Retorica che si è vista ovunque, che è sempre stata usata contro movimenti di lotta e che è sempre stata usata come scusante per colpire il “nemico necessario”. Penso all’OLP in Palestina, le Farc in Colombia, le Black Panthers e il Black Liberation Army negli USA, gli zapatisti in Chiapas, l’IRA in Irlanda del Nord, gli anarchici in Italia e l’ETA nei Paesi Baschi. Movimenti definiti “terroristi”, per cui non è mai servito spiegare a livello mediatico perchè fossero un pericolo pubblico, poiché bastava l’imposizione della costruzione semiotica a definirli: sono “terroristi”, ecco perché sono un pericolo per la sicurezza di tutti. Un’etichetta, quella di “terrorista” che è stata usata vergognosamente contro Dana e Stefano da parte di grandi giornali mainstream che, in questi anni, non si sono mai tirati indietro nell’avallare interventi NATO e guerre imperialiste, facendo passare gli oppressi come carnefici.

Il problema è che se viene normalizzato questo modo di definire i resistenti all’ingiustizia, avremo molta difficoltà ad orientarci, influenzati da stigma ed etichette che non ci appartengono realmente. Le parole sono pietre ed è giusto imparare ad usarle e a dosarle e forse, come direbbe Rosa Luxemburg, la cosa più rivoluzionaria è definire le cose con il proprio nome.

 

di Lorenzo Poli “siamo realisti, esigiamo l’impossibile” – Invictapalestina.org

 

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