La “Palestine Film Unit” nacque alla fine degli anni ’60 con l’obiettivo di collocare la Palestina nella lotta anticoloniale globale.
Fonte: English Version
Kaleem Hawa – 17 ottobre 2020
Immagine di copertina: The Palestine Poster Project Archives. Fotografia di Hani Jawharieh, dalla serie di cartoline commemorative della sua morte, Palestine Cinema Institution, 1977 circa
Il progetto cinematografico militante palestinese emerse all’indomani della guerra arabo-israeliana del 1967, con la speranza di conquistare la simpatia e la solidarietà internazionale mostrando la Palestina come una componente del linguaggio globale di lotta anticoloniale. La guerra – che durò sei giorni – si concluse con una schiacciante sconfitta per gli eserciti arabi e creò una nuova, seconda ondata di profughi palestinesi, così come portò a quella occupazione della Cisgiordania e di Gaza che continua ancora oggi. Subito dopo, la Giordania divenne la principale base operativa dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), che si era costituita nel 1964 e che sferrava attacchi contro Israele con il sostegno passivo del Regno hascemita. Durante questo periodo, l’OLP, come altri movimenti anticoloniali dell’epoca, si rivolse anche alle arti per portare il suo messaggio a un pubblico più ampio, sviluppando un programma di controinformazione mirato ad ampliare il campo di battaglia della resistenza palestinese.
La Palestine Film Unit (PFU) è nata da questo ambiente. Fondata in Giordania nel 1968 da Mustafa Abu Ali, Hani Jawharieh e Sulafa Jadallah – considerata da alcuni la prima cameraman araba – la PFU ha prodotto nei successivi quattordici anni molti documentari in 16mm che furono tra i primi esempi di cinema palestinese militante. I film iniziali evidenziavano elementi materiali palestinesi come la privazione dei diritti civili e la morte, modellando l’estetica di altri movimenti antimperialisti dell’epoca, come quelli di Cuba, Vietnam e Angola. I combattenti dell’OLP furono particolarmente ispirati dai loro compagni vietnamiti: i fedayeen, o guerriglieri, infatti, si recarono in Vietnam per imparare le tattiche di resistenza dai vietcong, alcuni addirittura prendendo “nomi di guerra” come Abu Khaled Hanoi.
Abu Ali, che aveva studiato cinema a Londra, era interessato a cosa avrebbe significato rendere i film più vicini alla propria lotta per la libertà. L’obiettivo della PFU era documentare la vita quotidiana dei palestinesi impegnati in atti di resistenza, grandi e piccoli, e sostenere gli sforzi dei fedayn. Il gruppo lavorò inizialmente con due telecamere, sviluppando i negativi nella cucina di un rifugio dell’OLP ad Amman, in Giordania, asciugando le stampe sui fornelli. I realizzatori costruivano un insieme di scene, girate senza una sceneggiatura o, a volte, senza neppure uno scopo chiaro. Ma l’intenzione era collettiva: i filmati tratti da questo serbatoio sarebbero stati successivamente modificati per una particolare campagna. Molti di questi film avevano quindi somiglianze visive sorprendenti, poiché erano costruiti da una raccolta comune di immagini visive su cui i realizzatori potevano sovrapporre prospettive più individuali o personali usando il montaggio e le voci fuori campo.
La maggior parte dei film risultanti, come “Palestine Will Win” (1969) diretto da Jean-Pierre Olivier de Sardan per volere dell’Unione Generale degli Studenti Palestinesi in Francia,furono realizzati per un pubblico non palestinese e da registi non palestinesi legati ai movimenti studenteschi europei dell’epoca. Un altro, “Al-Fatah, Palestine” (1970), diretto dall’italiano Luigi Perelli, guadagnò terreno grazie al movimento studentesco radicale italiano, che stampò manifesti promozionali del film.
I film della PFU diretti dai palestinesi sono affascinanti. Il “Training Camp, Jordan” (1969), riguardante il campo di addestramento di Jawherieh, in Giordania, presenta immagini in collage di fedayn in addestramento militare, i loro corpi che si contorcono nella terra e nel sudore, i Kalashnikov tenuti alti in preparazione per una missione imminente. “They Do Not Exist” (1974) di Abu Ali, forse il film più famoso prodotto in questo periodo, è inquietante; il suo titolo venne ripreso da un’intervista del 1969 con il primo ministro israeliano Golda Meir, che aveva dichiarato: ” In Palestina non c’erano persone …. Non esistevano”. Questa mitologia fondamentale di “una terra senza popolo per un popolo senza terra” si riflette nei primi film sionisti, che descrivevano i kibbutz come luoghi di eroismo, i loro membri che dissodavano il suolo, resistevano agli invasori arabi e costruivano uno stato ebraico dal deserto palestinese, in uno stile che ricorda il dramma dei pionieri occidentali americani.
Il film di Abu Ali offre una contro-narrativa mostrando come sia nata la “non esistenza” palestinese. “They Do Not Exist” si apre con bambini che mangiano il gelato, le madri che innaffiano le piante: una normale mattinata nel campo profughi di Nabatieh, nel Libano meridionale. Una bambina del campo sta scrivendo una lettera a suo “fratello”, un fedayi che combatte per la Palestina, inviandogli un regalo – un asciugamano e un pezzo di sapone – anche se vorrebbe potergli offrire “qualcosa di meglio”. Il film si conclude con le immagini del campo distrutto dai bombardamenti israeliani e le interviste ai genitori di alcuni dei bambini assassinati. Il fedaye, che ora si vede con in mano la lettera di sua sorella, guarda lontano e riflette: “Meglio che questo cuore batta…. Che spreco di giorni senza amare ed essere amato “. Poi, un brusco taglio in nero: “Questo film è stato recuperato da una copia in 16 mm, nella quale manca l’ultimo minuto”.
Il cinema palestinese è sempre stato gravato dal peso psichico della colonizzazione. Il programma israeliano di implacabile costruzione di insediamenti è un processo di distruzione e costruzione che non solo altera l’aspetto fisico della Palestina, svuotando una terra dalla sua gente, ma serve anche come politicidio, un mezzo per delimitare l’immaginazione palestinese. Il cinema offre quindi possibilità liberatorie: con la proiezione di immagini in movimento su uno schermo, un popolo può immaginare qualcosa di diverso, qualcosa “altro”.
O almeno questo è una delle narrative. Più probabilmente, la motivazione di gran parte di questa storia dell’audiovisivo era più pratica. L’OLP era impegnata in uno sforzo per ricostituire la vita palestinese in esilio, mobilitando i rifugiati a lavorare in una serie di attività nei campi e impiegando i suoi membri nella produzione di oggetti culturali, come libri e poster, con l’obiettivo di diffondere nella comunità internazionale una visione della vita palestinese. L’OLP collaborò con il Partito Comunista francese e con le sue reti a Parigi per realizzare copie dei film che potevano essere inviate ai festival di tutto il mondo. Le immagini palestinesi arrivarono , come scrive l’accademica egiziana Omnia El Shakry, a formare “la zona limite tra un impegno ideologico per un internazionalismo decolonizzante e le realtà pragmatiche della liberazione nazionale”.
Di conseguenza, il periodo militante è stato quello in cui i registi palestinesi in alcuni casi hanno lavorato con altri per rappresentare la propria immagine. Nel 1970, Jean-Luc Godard e Jean-Pierre Gorin visitarono i fedayn palestinesi in Giordania e illustrarono il loro piano per realizzare un film sulla lotta palestinese. Godard aveva notoriamente affermato che la sua “anima era palestinese” e che “la lotta palestinese è solo una parte della lotta mondiale contro l’imperialismo, relativa al Vietnam, al Laos, a Cuba, al Sud America”. La speranza del duo era che il titolo provvisorio “Until Victory / Palestine Will Win” diventasse parte dell’opera del Dziga Vertov Group, l’esperimento cinematografico radicale che avevano fondato due anni prima e che proponeva riflessioni marxiste sulla politica degli anni ’60 e ’70.
Ma pochi mesi dopo la visita dei cineasti francesi, l’OLP si scontrò con i suoi ospiti in Giordania. Nel conflitto che divenne noto come Settembre Nero, l’esercito giordano tentò di estromettere la leadership palestinese dal Paese. Con i suoi combattenti cacciati, l’OLP spostò la sua base operativa a Beirut, in Libano, e il PFU fu ribattezzato Palestine Cinema Institute (PCI), diventando uno dei numerosi dipartimenti di un PLO Unified Media, che includeva fotografia, giornali, radio e film. Nel massacro del Settembre Nero, molti dei protagonisti del progetto Godard-Gorin furono uccisi e i due francesi furono costretti ad abbandonarlo.
Questo non vuol dire che non siano stati influenzati dal loro viaggio. Nello stesso anno, la coppia si recò a New York per raccogliere fondi, un viaggio raccontato nel film “Godard in America” (1970). In un’intervista con il critico cinematografico Andrew Sarris, a Godard venne chiesto: “La telecamera può essere uno strumento di rivoluzione o ha bisogno di raccogliere una bomba?” Godard tergiversò, incapace o riluttante nel fornire una risposta definitiva. Sarris insistette: “Quindi si considera più un rivoluzionario o un regista?” Questa volta rapidamente, Godard rispose: “Credo nel lavorare per la rivoluzione attraverso il cinema”.
Nel 1982, il governo israeliano sfruttò la guerra civile libanese (1975-1990) come pretesto per invadere il Paese, occupando parti di Beirut e tentando di stanare e costringere i combattenti dell’OLP a lasciare la città. Nel corso di questa offensiva, i soldati israeliani sequestrarono numerosi film palestinesi della “Sezione Arti Culturali” dell’OLP, molti dei quali sono oggi conservati nell’Archivio, secretato, delle Forze di Difesa Israeliane. L’esilio dell’OLP dalla sua roccaforte libanese segnò la fine del lavoro di produzione cinematografica militante; senza la capacità di organizzare la resistenza armata contro Israele da qualsiasi paese contiguo, l’OLP fu costretta a cambiare tattica e alla fine, nella sua lotta per l’autodeterminazione palestinese, scelse di perseguire una strategia diplomatica, piuttosto che militare. L’entità di questa perdita si fece sentire anni dopo; Il primo film della PFU – “No to the Peaceful Solution” (1969) – non fu mai recuperato.
Secondo le accademiche Nadia Yaqub e Laura Marks, molti dei film sfuggiti al sequestro durante il conflitto libanese erano già stati contrabbandati all’estero. Nel 1975, cinque anni prima dell’invasione israeliana, temendo una guerra imminente e spaventato dal saccheggio falangista dello Studio Baalbek ,allora uno degli studi cinematografici più importanti del mondo arabo , Abu Ali spedì in barca centinaia di film inediti da Sidone a Cipro, e poi in aereo verso una casa di produzione gestita dal Partito Comunista Italiano a Roma. Anni dopo, Emily Jacir, una regista palestinese, e Monica Maurer, una regista tedesca che aveva lavorato con l’OLP, ebbero accesso all’archivio e contribuirono a digitalizzare le bobine sopravvissute di “Tel al Zaatar” (1977), una collaborazione tra registi italiani e palestinesi che documentava le conseguenze del massacro di oltre 2.000 palestinesi nel campo profughi di Tel al-Zaatar nel 1976. Le immagini terrificanti mostrano palestinesi che scappano su camion, madri che tengono in braccio i loro figli, un paesaggio di orrore.
Questa ricerca di un archivio perduto è un tropo centrale del cinema “post” conflitto, anche se il risultato finale non è sempre una rivendicazione. In “Kings and Extras: Digging for a Palestinian Image” (2004), la regista Azza El Hassan partecipa a una commedia esilarante e sempre più farsesca attraverso il Libano, la Giordania e la Palestina alla ricerca degli archivi cinematografici palestinesi. Ovviamente le sfuggiranno. Una delle donne intervistate da El Hassan si rivolge a lei e dice: “Non è il momento di pensare al cinema”.
Sotto tutta questa ricerca frenetica, si cela tuttavia qualcosa di più complesso. Chiaramente, l’arte palestinese non è solo una reazione alla sua cancellazione. Ma se è vero, come ha sostenuto l’accademico palestinese Rashid Khalidi, che l’idea di un’identità palestinese si è riaccesa dopo il trauma del 1967, allora l’arte palestinese non può essere completamente separata dagli sforzi di Israele per distruggerla. In effetti, l’aspettativa di impermanenza o rovina spesso caratterizza la produzione dell’arte palestinese: come un cameraman che si avvicina alla fine della bobina, gli artisti palestinesi devono lavorare per sfruttare al massimo il tempo che hanno. Questi tentativi di recupero da parte dei palestinesi quindi, fanno parte di uno sforzo per cogliere nuovi significati dalla perdita.
Nel suo film del 1976 “Here & Elsewhere”, Godard riflette sui progetti rivoluzionari dei suoi primi anni. In una scena, lui e la co-regista Anne-Marie Miéville mostrano un filmato dall’incompiuto “Until Victory” in cui una donna libanese annuncia alla telecamera di essere incinta di un futuro combattente per la libertà palestinese. Miéville annuncia quindi con una voce fuori campo che la storia è stata inventata.
Finzioni come questa non erano eccezionali nei film anticoloniali; i cineasti palestinesi dell’epoca non avevano mai voluto che il loro fosse un cinema vero. Ma si può dire che queste opere siano anche cinema? Sarebbe facile liquidarle come agitprop, ma i registi palestinesi non l’avrebbero considerato un termine offensivo. “La migliore forma di propaganda è la lotta armata” recita un titolo di apertura del film di solidarietà del 1971 “Red Army / PFLP: Declaration of World War”, diretto dai registi giapponesi Kōji Wakamatsu e Masao Adachi. Secondo un ufficiale del Fronte popolare per la liberazione della Palestina (FPLP), l’organizzazione laica marxista-leninista che era allora il secondo gruppo più numeroso nell’OLP dopo Fatah, il film viene definito come un “film di notizie”, aggiungendo , in una delle interviste da lui rilasciate, che “la propaganda è di fatto informazione e l’informazione è comunicare la verità”. Questo può risultare stridente per alcuni spettatori occidentali. Ma è anche utile; i film rivoluzionari hanno funzionato in modo simile alla resistenza violenta, disturbando i modelli di pensiero attraverso uno strumento di rottura.
Per evitare la gerarchia tra il regista e il soggetto, la PFU ha spesso definito i suoi progetti un atto collettivo di autorappresentazione. Alcuni crediti cinematografici dicevano: “Questo film è stato realizzato dai seguenti lavoratori”, seguito da un elenco non preferenziale di nomi, mentre altri non avevano alcun credito: il cameraman e il combattente per la libertà erano indistinguibili, entrambi lavoratori per una causa. Attraverso il cinema, questa posizione portò anche alla costruzione di legami di solidarietà internazionale con altri movimenti di liberazione nazionale e di sinistra. I membri del PFU e del PCI collaborarono con registi in Jugoslavia e Cile, seguirono con le telecamere le proteste in Eritrea e Oman durante la ribellione del Dhofar e assistettero i registi yemeniti nell’organizzazione di un sindacato dei lavoratori del cinema.
Ci si potrebbe aspettare che i film del cinema militante palestinese siano seri o spietati, in contrasto, ad esempio, con la sardonica distanza di Elia Suleiman o il futurismo arabo di Larissa Sansour, due cineasti palestinesi contemporanei. Ma i film palestinesi emersi da quell’epoca sono anche giocosi e creativi, spesso esplicitamente femministi e laici, e non sempre uscivano con l’imprimatur della leadership dell’OLP, come “A Hundred Faces for a Single Day” (1972), una satira della borghesia palestinese che collaborava con Israele. In questo modo, i registi palestinesi contemporanei che criticano l’Autorità Palestinese o che immaginano un unico stato senza le catene della misoginia, attingono e si ispirano a questa eredità.
Oggi la continuazione più evident dell’ethos del cinema militante è senza dubbio il video del cellulare, strumento particolarmente potente della resistenza palestinese che ha generato un archivio collettivo di pubblico dominio, disponibile in tutto il mondo, della routine delle atrocità commesse dallo stato israeliano, e i crescenti arresti di bambini. A volte, questo tipo di filmato aiuta a supportare esperimenti più grandi come quelli di Forensic Architecture, un’agenzia di ricerca con sede presso l’Università di Londra, che ha utilizzato le migliaia di immagini prodotte dagli abitanti di Gaza durante la Grande Marcia del Ritorno 2018 per ricostruire l’assassinio di Rouzan al-Najjar, medico volontaria, da parte dell’IDF ,confutando con essi il successivo whitewashing israeliano.
I tre fondatori della Palestine Film Unit non ci sono più. Hani è morto in servizio presso la PFU, ucciso durante un bombardamento sulle montagne Aintoura durante la guerra civile libanese. La sua morte è stata commemorata da Abu Ali in un cortometraggio di mezz’ora intitolato “Palestine in the Eye” (1976), che include interviste alla famiglia e ai colleghi di Hani che riflettevano sulla sua vita, oltre al filmato del momento della sua morte, che Hani aveva inavvertitamente filmato.
Sulafa ha forse la storia più triste. Nata a Nablus, prese in mano una telecamera per la prima volta nelle girl scout e a metà degli anni ’60 vinse una borsa di studio per studiare cinematografia al Cairo. Lì, si confrontò con l’Unione Studentesca Palestinese, fotografando i fedayn prima che partissero, nel caso fossero morti e l’OLP volesse usare i loro volti per dei poster. Nel 1970, Sulafa fu colpita accidentalmente da un palestinese nei campi di addestramento e rimase parzialmente paralizzata, ponendo fine prematuramente alla sua carriera. Morì nel 2002, senza aver mai più girato un film.
La perdita è inscindibile dalla vita palestinese. La morte delle nostre madri, dei nostri artisti, della nostra arte è una eventualità comune. Spesso, questo sviluppa in noi la capacità alla resistenza – il cosidetto sumud – altre volte, un dolore duraturo. Per alcuni, la risposta è catalogare quei dolori, metterli su carta o su pellicola, in modo che possano far cambiare idea o esistere come ricordi. Per altri, questo può solo produrre una nostalgia malsana. “Off Frame: AKA Revolution Until Victory” (2015) del regista palestinese Mohanad Yaqubi, mostrato alla Brooklyn Academy of Music all’inizio di quest’anno come parte della sua serie sul cinema di resistenza, utilizza filmati d’archivio recuperati per analizzare come queste scoperte alterino la nostra comprensione della storia della Palestina . Implicitamente, il film sostiene che mentre il cinema palestinese è indissolubilmente legato a queste vittime del passato, il potenziale creativo dell’archivio non risiede sempre nella conclusione resa possibile dalla riscoperta, ma nell’immaginazione resa possibile dalla perdita.
Ciò è racchiuso al meglio nell’affascinante poscritto della storia di “They Do Not Exist”. L’immaginare ciò che era contenuto nell’ultimo minuto del film ha tenuto occupato le menti di artisti e scrittori palestinesi, diventando un sostituto per la questione di quel capitolo palestinese incompiuto, perduto, che significa cose diverse per persone diverse. Alcuni intraprendenti ricercatori palestinesi alla fine trovarono l’ultimo minuto e Annemarie Jacir (la sorella di Emily Jacir) organizzò a Gerusalemme nel 2003 la prima in assoluto del film perduto, invitando Abu Ali a guardare il suo film nella capitale.
Dopo quarantasette anni di esilio dalla Palestina, Abu Ali vive ora a Ramallah. A causa dell’occupazione, non gli è mai stato permesso di tornare nella sua vecchia casa a Gerusalemme quindi, per portarlo alla prima, gli organizzatori lo fecero entrare in macchina di nascosto. Dopo aver parlato con Mohanad di questo articolo, mi inviò il link per guardare la versione completa di “They Do Not Exist”. Devo ammettere che preferisco il finale incompiuto; a volte il punto è la ricerca.
Kaleem Hawa scrive di cinema e di libri.
Trad: Grazia Parolari “contro ogni specismo contro ogni schiavitù” –Invictapalestina.org