Un giallo. La storia di un omicidio. Secondo Ahmed Barak, procuratore generale della Palestina, l’opera non è un giallo, ma un libro che parla di sesso e di gay, violando così la pubblica moralità. In realtà, Delitto a Ramallah è un libro che tratta anche d’altro: perché è vero che non è solo un giallo, ma è una storia molto politica, metafora della crisi della società palestinese. E soprattutto, della sua leadership. Ma Murad Sudani, a capo del sindacato degli scrittori, è stato esplicito: in un Paese occupato, ha detto, il ruolo di uno scrittore non è dividere, ma generare speranza. Guidare la resistenza.
di Federica Pistono*
6 Novembre 2020
Il romanzo Delitto a Ramallah dello scrittore palestinese Abbad Yahya (MREditori, 2020), rappresenta indubbiamente una novità di rilievo nel panorama della narrativa palestinese dei nostri giorni. La vicenda è imperniata sull’omicidio di una ragazza davanti a un locale in cui lavorano diversi giovani, le cui vite, passate al setaccio da una polizia ottusa e corrotta, sono devastate dall’indagine.
Sullo sfondo dell’inchiesta si illumina uno spaccato inedito della società palestinese che finge di non vedere i cambiamenti che stanno travolgendo i vecchi valori. Il diffondersi della malavita, i delitti d’onore, la corruzione, l’inanità dei politici, la morale sessuale che muta rapidamente, sono i temi sui quali maggiormente si sofferma l’autore.
Si tratta di un romanzo che affronta anche il tema dell’omosessualità maschile in Palestina. Uno dei giovani coinvolti nell’omicidio, dichiaratamente gay, è arrestato dalle autorità e interrogato. Anche se alla fine viene scagionato dalle accuse, la polizia decide di torturarlo e umiliarlo solo a causa della sua diversità. Il giovane è costretto a trasferirsi in Francia in cerca di un posto in cui essere accettato e non giudicato in base al suo orientamento sessuale.
Si capisce subito che il thriller è solo un pretesto per presentare i personaggi che gravitano intorno al bar-ristorante Lotus, luogo di aggregazione locale. L’attenzione è focalizzata soprattutto sulla tematica della condizione dei giovani nella società palestinese, in cui sembra esserci posto soltanto per l’eroismo e l’amor di patria. La trama non ruota, dunque, intorno a temi come la resistenza o la lotta del popolo palestinese per la libertà, non racconta vicende eroiche o drammi collettivi, ma narra la storia piana e comune di tre giovani, tre ragazzi normali, due studenti universitari e un impiegato, le cui vite s’intrecciano, negli anni 2012-13, a Ramallah, intorno a un misterioso delitto.
Il motivo centrale del romanzo si individua nella disperazione dei giovani palestinesi appartenenti alla generazione cresciuta dopo la seconda Intifada, una generazione che sembra aver perduto la speranza in un domani migliore. Lontano e forse irraggiungibile appare, ormai, il sogno di uno Stato palestinese libero. Attraverso le innumerevoli e minuziose descrizioni, l’autore offre un nitido ritratto della vita quotidiana nei territori occupati.
I giovani palestinesi appaiono bloccati in un vicolo cieco, intrappolati nella grande prigione che è stata eretta tutt’intorno a loro. Si tratta di un carcere dalle doppie mura: quelle costruite dall’occupazione israeliana e quelle create dalla società palestinese stessa, che impone alle nuove generazioni modelli di comportamento dai quali è molto difficile discostarsi. Il romanzo è, dunque, la storia di una generazione che ha perduto il proprio futuro, in un Paese che ha smarrito la sua strada.
Le vicende dei tre personaggi sintetizzano in qualche modo le sorti cui, a giudizio dell’autore, sono destinati i giovani palestinesi di oggi, eredi delusi della seconda Intifada: consacrarsi, come le generazioni che li hanno preceduti, alla lotta in nome di uno Stato libero; arrendersi passivamente a un mondo sempre più ingiusto e violento; cercare la libertà all’estero, lontano dalla propria terra.
In alcuni capitoli del romanzo, emerge una critica pungente nei confronti dei leader palestinesi, definiti come “perdenti”, come capi incapaci di guidare il proprio popolo. Si tratta, dunque, di una storia molto politica, metafora della crisi della società palestinese e, soprattutto, della sua leadership. Non è difficile, a questo punto, capire perché, dopo la pubblicazione dell’edizione araba dell’opera, nel 2016, questa sia stata subito messa all’indice dalle autorità palestinesi per “indecenza”. Il procuratore generale Ahmed Barak ha affermato che il libro contiene “scene e termini indecenti che minacciano la moralità e la decenza pubblica, che potrebbero influenzare la popolazione, in particolare i minori”.
La storia suscita, in alcuni punti, un forte senso di claustrofobia, perché i personaggi appaiono del tutto privi di speranza nel futuro, tanto individuale quanto generale, ma la focalizzazione sulle tragedie personali dei protagonisti rende il romanzo originale e, per certi aspetti, innovativo. Il dramma collettivo del popolo palestinese resta sullo sfondo, ma non per questo risulta meno vivido angosciante.
* traduttrice ed esperta di letteratura araba