La trasparenza di Blinken sui diritti umani

L’Amministrazione  Biden ha chiuso un occhio per la seconda volta sulla situazione dei diritti umani in Asia occidentale, rifiutandosi persino di riconoscere che l’indagine della CPI sulla “situazione palestinese” riguarda soprattutto i diritti umani.

Fonte: english version

M. K. Bhadrakumar – 8 marzo 2021

Il 3 marzo, il Dipartimento di Stato Americano ha pubblicato sul suo sito web un’esilarante dichiarazione intitolata Gli Stati Uniti si oppongono all’indagine della Corte Penale Internazionale (CPI) sull’indagine palestinese.

In poche parole, la dichiarazione rivela che l’Amministrazione Joe Biden ha chiuso un occhio per la seconda volta sulla situazione dei diritti umani in Asia occidentale, rifiutandosi persino di riconoscere che l’indagine della CPI sulla “situazione palestinese” riguarda soprattutto i diritti umani.

L’argomentazione del Dipartimento di Stato si limita essenzialmente a una questione burocratica che mette in discussione la giurisdizione della CPI per indagare sulle questioni relative alle violazioni dei diritti umani che coinvolgono lo stato di Israele e, in secondo luogo, che “la Palestina non è riconosciuta come uno stato sovrano e quindi non ha i requisiti per ottenere l’adesione come Stato, partecipare come Stato o delegare la giurisdizione alla CPI.”

La questione dei diritti umani dovrebbe coinvolgere chiunque. Non è materia per la fredda logica giuridica o la convenienza politica. La dichiarazione del Dipartimento di Stato Americano sullo sfortunato Stato palestinese riporta alla mente quello che disse una volta Pablo Picasso: “Impara le regole come un professionista, così puoi infrangerle come un artista”.

Tale pretestuoso concetto sulla tragica situazione dei palestinesi ridurrà i diplomatici americani sulla scena globale a ciarlatani. Il fatto è che lo Stato di Palestina è riconosciuto da 138 membri delle Nazioni Unite e dal 2012 ha lo status di Stato osservatore non membro delle Nazioni Unite. Lo Stato Palestinese è un membro della Lega Araba, dell’Organizzazione per la Cooperazione Islamica, del G77 (un’organizzazione intergovernativa delle Nazioni Unite, formata da 134 paesi del mondo, principalmente in via di sviluppo), del Comitato Olimpico Internazionale e di altri organismi internazionali.

Gli Stati Uniti stanno punendo il messaggero, il procuratore della CPI, per aver mostrato l’audacia di affrontare la questione palestinese quando dovrebbe andare in pensione a giugno!

Il Dipartimento di Stato afferma di “essere profondamente impegnato a garantire giustizia e responsabilità per gli atroci crimini internazionali”, ma sembra che la CPI sia “una Corte con giurisdizione limitata. Inoltre, gli Stati Uniti credono che un futuro pacifico, sicuro e più prospero per le popolazioni del Medio Oriente dipenda dalla costruzione di relazioni e dalla creazione di nuove vie per il dialogo e lo scambio, non azioni giudiziarie unilaterali che aumentano le tensioni e indeboliscano gli sforzi per portare avanti una soluzione negoziata a due Stati. Continueremo a sostenere il nostro forte impegno nei confronti di Israele e della sua sicurezza, anche opponendoci ad azioni che cercano di colpire ingiustamente Israele.”

È una contesa assurda piena di contraddizioni e paradossi. Che cosa significa tutto questo? In breve, il Dipartimento di Stato dice: “Mostrami l’uomo e ti mostrerò la regola” (Significato: le regole cambiano a seconda di quanto sia influente o potente la persona che potrebbe essere influenzata dalle regole). Ma cos’è che innervosisce l’Amministrazione Biden quando si tratta delle indagini della CPI su Israele? Da una prospettiva israeliana, lo si può leggere nel rapporto di Axios intitolato La Corte Penale Internazionale apre l’indagine sui crimini di guerra tra Israele e Palestina.

Fondamentalmente, è la stessa cinica mentalità che ha spinto l’Amministrazione Biden a insabbiare quando, per correttezza, avrebbe dovuto sanzionare il principe ereditario saudita per aver ordinato l’omicidio, eseguito con tanta efferatezza, di Jamal Khashoggi che, per inciso, era un cittadino saudita residente degli Stati Uniti oltre ad essere una “risorsa strategica” dell’apparato di sicurezza statunitense.

L’Amministrazione Biden è senza parole per spiegare la sua codardia. Inoltre, imbarazzato, ha cambiato idea e ha deciso, ripensandoci, di cancellare tre nomi sauditi che erano stati originariamente elencati nel rapporto della CIA sull’omicidio di Khashoggi recentemente rivisto dalla Casa Bianca. Apparentemente, ciò è dovuto al fatto che quei tre, importanti risorse dell’apparato di sicurezza saudita, sono anche interlocutori con i quali le agenzie di sicurezza statunitensi continuano a relazionarsi. Come potrebbero gli Stati Uniti sanzionare i propri collaboratori sauditi, giusto?

Sia nel caso di Israele che del principe ereditario saudita, se gli Stati Uniti si trovano in una situazione così scomoda e pressante, è solo perché Washington è da sempre complice delle violazioni dei diritti umani da parte di Israele e Arabia Saudita. Gli Stati Uniti hanno le mani così sporche di sangue che non basterebbero tutte le essenze d’Arabia a toglierlo.

Sicuramente, Israele non l’avrebbe fatta franca per tutto questo tempo e con tanta impunità per i suoi crimini senza la certezza di potersi nascondersi dietro gli Stati Uniti se fosse arrivato il momento della resa dei conti. Per quanto riguarda l’Arabia Saudita, ha commesso crimini orribili dal punto di vista dei diritti umani solo perché è stato lo strumento geopolitico preferito dagli Stati Uniti negli ultimi decenni.

Pregate, perché la CIA ha conferito all’ex principe ereditario saudita Muhammad bin Nayef la medaglia George Tenet (dedicata a George Tenet, direttore della CIA dal 1997 al 2004) nel 2015? Mike Pompeo come capo della CIA si è recato a Riyadh per conferire personalmente la medaglia al principe Nayef! In poche parole, i massimi funzionari statunitensi nelle successive amministrazioni hanno nuotato nello stesso fiume di sangue che il principe Nayef provocò nell’indicibile “guerra al terrore”.

Oggi, l’amministrazione Biden non osa infastidire il 35enne principe ereditario saudita Mohammed bin Salman che molto probabilmente succederà a suo padre quando arriverà il momento cruciale come prossimo monarca e potrebbe continuare a governare il regno per decenni, sebbene il noto l’esperto di Arabia Saudita ed ex braccio destro della CIA Bruce Riedel del Centro di Ricerca dell’Istituzione Brookings potrebbe conoscerlo meglio, quando sostiene che Mohammed bin Salman è in realtà meno affidabile di quanto pensa l’amministrazione.

Il 3 marzo, nel suo “primo importante discorso come segretario” intitolato una politica estera per il popolo americano, tenutosi nella sala da pranzo Benjamin Franklin (The Benjamin Franklin State Dining Room), un luogo pieno di storia nel Dipartimento di Stato, Blinken ha evitato di affermare di essere un paladino dei diritti umani. Lo scontro con la realtà dopo lo scandalo dell’assassinio di Khashoggi probabilmente lo spiega.

Blinken aveva precedentemente affermato che il tema dei diritti umani sarebbe stato al centro della politica estera degli Stati Uniti. Ma successivamente, ha elencato con precisione le “otto massime priorità di politica estera dell’amministrazione Biden” come segue: Pandemia Covid-19 e sicurezza sanitaria globale; Ripresa economica; “Rafforzamento” della democrazia contro autoritarismo e nazionalismo; ” Un sistema di immigrazione umano ed efficiente”; “Rilanciare” i rapporti con alleati e collaboratori; Crisi climatica e rivoluzione delle energie rinnovabili; La “superiorità tecnologica” dell’America; e, le relazioni con la Cina.

Blinken ha deciso che una crociata per i diritti umani non decollerà quando verrà smascherata come ambigua e ipocrita. Nonostante le forti pressioni della Casa Bianca, l’ASEAN, l’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico, ha rifiutato di sostenere il Piano anglo-americano per il cambio di regime in Myanmar.

Anche Singapore, il membro ASEAN più vicino agli Stati Uniti, ha consigliato “riconciliazione nazionale e stabilità” e un “compromesso negoziato con la situazione attuale” in Myanmar, e, soprattutto, ha sottolineato la necessità di “coinvolgere, piuttosto che isolare” quel paese.

M.K. Bhadrakumar ha servito come diplomatico di carriera presso il Servizio Estero indiano per 3 decenni, con incarichi tra cui l’ambasciatore dell’India in Uzbekistan (1995–98) e in Turchia (1998–2001). È stato anche distaccato, a vario titolo, a Mosca, Islamabad, Bonn, Colombo, Seoul, Kuwait e Kabul. È di lingua russa e scrive regolarmente su questioni strategiche per pubblicazioni in India e all’estero.

Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org