A settantatré anni dall’inizio della Nakba, il linguaggio della partizione rimane prevalente nel dibattito sulla difficile condizione dei palestinesi.
Di Rania Muhareb – agosto 2021
A settantatré anni dall’inizio della Nakba, il linguaggio della partizione rimane prevalente nel dibattito sulla difficile condizione dei palestinesi. Ciò che è notevole è quanta partizione sia servita, in modo fuorviante, per modellare la nostra comprensione di quando e dove è iniziata l’espropriazione palestinese. Quando l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite raccomandò la partizione della Palestina nella Risoluzione 181 del 29 novembre 1947, la colonizzazione sionista era già in corso da oltre mezzo secolo. Fu nel 1897, in particolare, che il Primo Congresso Sionista di Basilea decise di “creare per il popolo ebraico una casa in Palestina garantita dal diritto pubblico”. Come osserva lo storico palestinese Walid Khalidi, la Risoluzione della partizione deve essere vista come il “culmine catastrofico (per i palestinesi) di tutto ciò che la aveva preceduta dalla nascita del sionismo politico”.
Oggi, i palestinesi continuano a sopportare l’aggressivo colonialismo sionista, che cerca la loro cancellazione, spostamento e sostituzione in ogni parte della Palestina storica. L’attenzione all’innaturale partizione oscura la continuità della colonizzazione sionista; suggerisce che l’espropriazione palestinese dal 1948 in poi, e prima di allora, differisca in qualche modo da quella successiva al 1967.
Gerusalemme e l’illegittimità della spartizione
La partizione continua a dominare la discussione su Gerusalemme, informando su come vengono analizzati il passato e il presente della città. In “Gerusalemme 1948: I Quartieri Arabi e il Loro Destino Nella Guerra”, lo studioso palestinese Salim Tamari sottolinea la necessità di evitare un linguaggio anacronistico su Gerusalemme e di trascendere la problematica divisione della città in “Est” e “Ovest”, che è il risultato delle “fratture di guerra”.
Sebbene si possa essere tentati di respingere la divisione di Gerusalemme basata sulla proposta di internazionalizzazione della città come corpo separato ai sensi della risoluzione della partizione, questo argomento non è del tutto convincente. Tale ragionamento, anche se inconsapevolmente, sembra dare legittimità alla colonizzazione sionista all’interno delle parti della Palestina assegnate, nella Risoluzione di partizione, a uno Stato ebraico. Tuttavia, il popolo palestinese costituiva la maggioranza in tutta la Palestina storica alla vigilia della partizione; possedevano la maggior parte della terra nel paese e si erano opposti con impeto alla partizione sin dal suo primo tentativo negli anni ’30.
All’inizio, gli studiosi sionisti riconobbero apertamente la natura coloniale del loro progetto e la necessità di attuarlo con la forza. Nel 1923, Ze’ev Jabotinsky scrisse: “La colonizzazione sionista, anche la più ristretta, deve essere terminata o condotta a dispetto della volontà della popolazione nativa. Questa è, in toto, la nostra politica nei confronti degli arabi. Formularla in altro modo sarebbe solo ipocrisia.”
Come ha affermato Khalidi, il piano di partizione in effetti significava “l’istituzione di uno Stato sionista sul suolo palestinese indipendentemente dai desideri della stragrande maggioranza dei suoi abitanti”. L’opposizione palestinese al piano di partizione è stata ben documentata come una violazione del diritto palestinese all’autodeterminazione, che rimane la base per contestare la partizione della Palestina e la divisione di Gerusalemme. In un documento informativo completo su Gerusalemme Ovest pubblicato nel 2018, l’Associazione per i Diritti Umani Al-Haq ha concluso che i palestinesi mantengono il loro diritto alla sovranità sull’intera Gerusalemme.
Espulsione palestinese da Gerusalemme Ovest
Un’altra ragione per abbandonare del tutto la partizione è la continuità della politica sionista nei confronti dei palestinesi attraverso le loro frammentate aree geografiche. Che sia stato espulso al di fuori della Palestina o spostato ed espropriato all’interno del suo territorio frammentato, il popolo palestinese è stato collettivamente privato dell’esercizio dei suoi diritti inalienabili. La persistenza della Nakba è evidenziata dalla continua espropriazione dei palestinesi da Gerusalemme e attraverso la Palestina storica.
Nei mesi precedenti al maggio 1948, i quartieri palestinesi nella parte occidentale di Gerusalemme, inclusi Baq’a, Talbiyeh e Qatamon, furono quasi completamente svuotati dei loro abitanti palestinesi nativi. Dei 28.000 palestinesi nei quartieri arabi di Gerusalemme Ovest prima del 1948, alla fine di maggio erano rimasti solo 750 “non ebrei”, la maggior parte greci. Costituivano meno della metà della popolazione originaria. Tra l’agosto 1948 e il febbraio 1949, Israele dichiarò Gerusalemme Ovest occupata. Proprio come la situazione dei palestinesi all’interno della Linea Verde, su cui Israele impose il dominio militare fino al 1966, l’amministrazione militare ha facilitato l’espropriazione palestinese e l’insediamento di coloni israeliani nelle case palestinesi a Gerusalemme Ovest, dove nessun palestinese è stato autorizzato a tornare.
Con l’occupazione e l’annessione di Gerusalemme Est nel 1967, i profughi palestinesi di Gerusalemme Ovest furono di nuovo in grado di raggiungere le loro case. Sebbene le barriere fisiche fossero state rimosse, agli occhi della legge israeliana, i palestinesi erano considerati “assenti” e gli era negato il diritto di rientrare in possesso delle loro proprietà. Quindi, oltre alla separazione fisica dalle loro case, era ora in vigore un regime legale che precludeva il loro diritto di ritorno. Cinquantaquattro anni dopo, la colonizzazione israeliana a Gerusalemme Est, nel resto del territorio palestinese occupato e nel Golan siriano occupato, è rimasta funzionalmente identica a quella istituzionalizzata contro i palestinesi nel 1948.
I quartieri palestinesi a Gerusalemme Ovest furono quasi interamente spopolati nel 1948. Circa 80.000 palestinesi divennero profughi dalle zone occidentali di Gerusalemme. Sono stati costretti a fuggire attraverso campagne di terrore organizzate dalle milizie sioniste, non diversamente dalle misure delle forze di occupazione israeliane per sradicare le famiglie palestinesi da Gerusalemme Est oggi. Complessivamente, nel 1948, circa 10.000 case palestinesi sono state occupate da coloni israeliani a Gerusalemme Ovest. In netto contrasto, nessun palestinese nativo è stato autorizzato a tornare nelle proprie case a Gerusalemme Ovest.
Gerusalemme e la “logica di eliminazione”
In quanto microcosmo dell’oppressione palestinese, la città di Gerusalemme esemplifica la politica sionista nei confronti del popolo palestinese: i palestinesi a Gerusalemme hanno sopportato sia la Nakba dal 1948 sia la prolungata occupazione militare israeliana dal 1967 nella parte orientale della città. La continuità dell’espulsione, dell’esproprio e dei tentativi di cancellazione dal luogo e dalla memoria palestinesi esemplificano la nozione di Patrick Wolfe del colonialismo come “una struttura non un evento”: un processo continuo di spostamento e sostituzione delle popolazioni native sulla terra. Wolfe ha inteso questa struttura come implicante non solo la violenza fisica, attraverso i massacri delle milizie sioniste che hanno segnato la Nakba, ma anche la continua violenza strutturale volta alla dissoluzione delle società autoctone.
Il colonialismo e l’apartheid, in quanto strutture che si rafforzano a vicenda, permettono di dare un senso alla politica sistematica per cacciare i palestinesi dalle loro case e fornire una base per affrontare in modo completo la frammentazione palestinese. La politica israeliana si comprende meglio quando si esamina il trattamento del popolo palestinese nel suo insieme. In questo modo si aiuta a chiarire quella che Wolfe ha definito la “logica di eliminazione” del colonialismo. In Palestina, questa “logica di eliminazione” è alla base della Nakba in corso: ciò che è iniziato con l’espulsione di massa dei nativi palestinesi si è sviluppato in un regime istituzionalizzato che radica sistematicamente la sottomissione palestinese, facilita la colonizzazione sionista e nega ai palestinesi il loro diritto al ritorno.
L’apartheid israeliano e la Nakba in corso
Lo sfollamento e l’espropriazione dei palestinesi e la loro sostituzione con i coloni israeliani sono componenti fondamentali dell’apartheid israeliano, che è radicato nella logica del colonialismo sionista. Il regime di apartheid israeliano ha ottenuto un crescente riconoscimento negli ultimi anni. Si basa sulla frammentazione giuridica, politica e geografica del popolo palestinese nel suo insieme. Attraverso la frammentazione, spiegano i professori Richard Falk e Virginia Tilley, Israele “offusca l’esistenza stessa di questo regime” e nega ai palestinesi qualsiasi diritto collettivo, compreso il ritorno e l’autodeterminazione.
Gli studiosi palestinesi hanno dimostrato i fondamenti razziali della colonizzazione sionista molto prima delle discussioni odierne sull’apartheid.
Le prime analisi sull’apartheid israeliano, in particolare da parte dello studioso palestinese Fayez Sayegh, si riferivano al regime legale messo in atto per soggiogare i palestinesi dopo il 1948 e per giudaizzare la terra. Questo regime rimane in vigore sette decenni dopo la Nakba in corso. Nel 1979, Richard Stevens concluse che in Palestina come nel Sudafrica dell’apartheid “l’espulsione dei popoli nativi dalla terra è avvenuta come parte del modello di creazione e mantenimento di uno stato di colonizzazione.”
A Gerusalemme, il trasferimento dei palestinesi è intensificato attraverso demolizioni di case, pianificazione discriminatoria, negazione dei permessi di costruzione, espulsioni forzate da parte delle autorità di occupazione israeliane e delle organizzazioni di coloni israeliane, la revoca dei diritti di residenza e altre forme di sfollamento arbitrario che rafforzano l’apartheid. Come risultato, i palestinesi sono sistematicamente frammentati attraverso barriere fisiche e altre meno visibili: il Muro e i posti di blocco israeliani dividono i quartieri di Gerusalemme Est, Gerusalemme è isolata da altre parti del territorio palestinese occupato e ai palestinesi con diverso status giuridico viene sistematicamente negato il loro diritto al ricongiungimento familiare, anche a Gerusalemme.
Nel 2016, Rinad Abdulla ha sostenuto che “l’egemonia sul dibattito legale e politico continuerà ad avere implicazioni disastrose per i palestinesi a meno che il quadro non venga ampliato per includere l’intera popolazione palestinese nel suo insieme, piuttosto che un’analisi frammentaria di alcuni gruppi di palestinesi e alcuni territori della Palestina storica in singole unità distinte”. Affrontare l’apartheid israeliano richiede di comprendere la “logica di eliminazione” coloniale del sionismo, per andare oltre la partizione della Palestina e la divisione di Gerusalemme, e quindi per esaminare la difficile situazione dell’intero popolo palestinese.
Rania Muhareb è una dottoranda con borsa di studio Hardiman presso il Centro Irlandese per i Diritti Umani dell’Università Nazionale d’Irlanda, Galway. È consulente dell’Organizzazione Palestinese per i Diritti Umani Al-Haq e membro della rete politica palestinese di Al-Shabaka
Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org