La vita urbana nel conflitto israelo-palestinese è definita dalla violenza, dalla sorveglianza e dalla scarsità di risorse, condizioni che, avverte un nuovo libro, potrebbero presto essere più diffuse.
Fonte: English version
Di Zach Mortice – 27 settembre 2021
Immagine di copertina: I pannelli solari sul tetto aiutano ad alleviare la carenza di energia a Gaza City, dove le dure condizioni economiche hanno costretto i residenti ad adattarsi. Foto di Salem Al Qudwa da Open Gaza, a cura di Michael Sorkin e Deen Sharp, utilizzata con il permesso dell’editore, AUC Press & Terreform
Quando gli americani accendevano la TV o guardavano i loro smartphone alla ricerca di notizie sugli scontri mortali che hanno travolto la Striscia di Gaza a maggio, o se seguivano il più recente spasmo di violenza ad agosto che minacciava di rompere la fragile tregua della regione, molti hanno visto scene che sembravano familiari: Strade inondate di manifestanti, impegnati in una lotta contro forze di sicurezza altamente armate per le strade di una città dall’aspetto fatiscente.
Per molti versi, le condizioni politiche e fisiche della Striscia di Gaza sono uniche: Quasi 2 milioni di persone sono stipate in un rettangolo di terra lungo 25 miglia (40 km) lungo il Mediterraneo, grosso modo delle dimensioni di Filadelfia. Per decenni, il territorio ha ospitato i palestinesi sfollati dalla fondazione dello Stato di Israele nel 1948 e soggetto all’occupazione israeliana dalla Guerra dei Sei Giorni del 1967. Ma dal 2007, dopo che l’ala politica del gruppo islamista Hamas è stata eletta conquistando il potere, Gaza è sotto il blocco israeliano. In risposta, i militanti di Hamas hanno attaccato Israele con attentatori suicidi e attacchi missilistici, e le due parti hanno stabilito in un raccapricciante ritmo di bassi livelli di violenza punteggiato da intense conflagrazioni. Nei combattimenti di maggio sono stati uccisi fino a 260 palestinesi; in Israele sono state uccise 12 persone.
Gaza è un paesaggio di estrema deprivazione economica nato dalle complicate dinamiche politiche della regione, ma i cui contorni potrebbero presto diventare più comuni.
Questa è la premessa alla base del libro recentemente pubblicato Open Gaza: Architectures of Hope (Ispirarsi a Gaza: Architetture della Speranza), pubblicato dalle case editrici Terreform è Urban Research. Curato da Deen Sharp, un geografo urbano che si concentra sul Medio Oriente, e dal saggista, teorico, attivista e provocatore Michael Sorkin, il libro presenta una visione di Gaza come uno scorcio di un futuro imminente, dove violenza, sorveglianza, scarsità di risorse e l’uso provvisorio di un ambiente costruito estremamente compromesso sono davanti agli occhi di tutti.
Sharp vede collegamenti, ad esempio, tra i disordini a Gaza e le manifestazioni per la giustizia razziale nelle città degli Stati Uniti dopo l’omicidio di George Floyd nel 2020: in entrambi, la questione chiave è chi ha diritto alla città: il diritto di rivendicare lo spazio urbano contestato. “Le proteste di Black Lives Matter e quel movimento più ampio e il riconoscimento dei tipi di oppressione che stanno avvenendo a Gaza sono qualcosa che è stato reso visibile”, dice.
La Striscia di Gaza, dichiara la copia promozionale del libro, è “uno degli ambienti più assediati della terra”. Ma il territorio e il suo centro urbano, Gaza City, sono spaventosamente sottovalutati in termini di architettura e urbanistica. Questo lo rende come un opera ultima, un lascito degno di Michael Sorkin, architetto, urbanista e prolifico scrittore morto l’anno scorso di Covid. “Sorkin voleva spingersi dove gli altri non avrebbero osato”, afferma Sharp.
Con contributi di studiosi, urbanisti e architetti dei territori palestinesi occupati, Israele, India, Stati Uniti e Regno Unito, i saggi del libro esplorano la condizione esistente di Gaza e il suo più ampio contesto socio-politico e offrono progetti speculativi volti a strappare la sovranità e la dignità dei suoi abitanti. Presuppone che le tecniche di progettazione appropriate e a basse emissioni di carbonio sviluppate dagli abitanti di Gaza guardino al futuro di un pianeta che non riesce ad affrontare le sfide di un cataclisma climatico, una pandemia globale e una crescente disuguaglianza. Mentre i fragili regimi sono dilaniati dalle crisi, le migrazioni di massa induriscono i confini e le infrastrutture si indeboliscono, Open Gaza suggerisce che il resto del mondo potrebbe iniziare ad assomigliare sempre di più a Gaza.
O l’ha già fatto. Chiunque abbia cercato acqua pulita a Flint (Michigan) o abbia visto la propria casa distrutta da incendi o inondazioni potrebbe capire cosa intende Yara Sharif, un architetto palestinese che ha contribuito al libro, quando afferma: “La palestinesizzazione delle città sta avvenendo in tutto il mondo. Sta accadendo con la distruzione e la cancellazione, ma anche con i drammatici cambiamenti climatici”.
Eco-adattamento per necessità
Open Gaza non si limita a lodare l’ingegnosità e l’intraprendenza degli urbanisti e architetti di Gaza e affini; né il libro è interessato a descrivere Gaza puramente come una prigione di fatto. “Si potrebbe chiamare queste visioni utopiche, ma penso che queste siano possibilità alternative”, afferma Sharp. “Non sono immaginarie”. Invece, la raccolta funge da “richiesta che gli abitanti di Gaza siano in grado di vivere e modellare il loro contesto urbano, le infrastrutture e le vite sociali in modi dignitosi e rispettosi della loro umanità”, afferma.
Il libro presenta la condizione architettonica di Gaza, esistente e speculativa, come definita dal suo squilibrio di potere con Israele. Questa asimmetria significa che Open Gaza è libero dall’antisettico tecno-soluzionismo che spesso popola le opere architettoniche. Tali documenti spesso affermano che gli edifici a basse emissioni di carbonio, fatti di nient’altro che alberi e terra sul loro appezzamento di terreno, esisteranno in un’atmosfera di generosa illuminazione tecnologica, consumatori felici che sorseggiano latte servito da robot, assaporando insalate di avocado di provenienza locale. Open Gaza ci dice che questo scenario potrebbe essere una favola. Le prescrizioni del libro operano con condizioni riscontrate e severi vincoli locali sui materiali; suggerisce che la prima doccia riscaldata dall’energia solare potrebbe avvenire tra le sirene di un’incursione aerea.
Questa realtà è il motivo per cui parole chiave come “sostenibilità” o “resilienza” non significano nulla per il cittadino medio di Gaza, afferma l’architetto palestinese Salem Al Qudwa, che scrive ogni giorno degli edifici presenti nel territorio. Per gli architetti occidentali, riciclare i mattoni può essere un modo per limitare le emissioni di carbonio e conferire ai nuovi edifici un aspetto antichizzato. Ma a Gaza non c’è scelta.
Al Qudwa ha sviluppato modelli di “abitazioni supplementari”, dice, che iniziano con la creazione di fondamenta e colonne strutturali, e lasciando che gli abitanti di Gaza colmino le lacune, creando una griglia a basso costo per unità abitative espandibili che dispongono di cortili ombreggiati e terrazze sul tetto. Le case spesso mancano di elettricità, quindi le brezze incrociate sono essenziali. Realizzati con materiali locali, offrono una climatizzazione di cui, afferma Al Qudwa, le ONG non locali intente a costruire spesso mancano. “La mia gente ha bisogno di un riparo decente”, dice. “Una buona casa con isolamento adeguato, con luce naturale, ecc”.
Non c’è nostalgia per edifici o modi di vivere tradizionali, dice Sharif, ma queste pratiche sono fondamentali. “Gaza guarda alle pratiche ambientali per necessità”, afferma. “L’unico modo per andare avanti è attraverso modi di vivere tradizionali perché non c’è alternativa”.
Il “Solar Dome” (Scudo Solare) di Rafi Segal e Chris Mackey, il cui nome è ispirato al sistema di difesa missilistico israeliano “Iron Dome” (Scudo di Ferro), rende convincente il fatto che ci sono pochi posti più adatti ad una rete interamente solare. Gli abitanti di Gaza utilizzano meno del 2% dell’impronta energetica dell’americano medio e il clima soleggiato di Gaza riduce ulteriormente la necessità di costosi depositi di energia. E il concetto di “indipendenza energetica” assume un nuovo significato quando i cittadini acquisiscono servizi da un vicino ostile. In quanto tale, Segal e Mackey raccomandano un sistema di pannelli fotovoltaici integrati negli edificio (facciate, tetti o finestre) potenziati con scaldacqua solari e un sistema integrato distrettuale (di quartiere) di torri a concentrazione di energia solare.
Allo stesso modo, un capitolo di Denise Hoffman Brandt svela un piano per padiglioni che raccolgono acqua piovana fresca e utilizzano la luce solare per desalinizzare le acque sotterranee e moduli di desalinizzazione oceanici galleggianti realizzati con materiali riciclati.
Il piano “Learning Room” di Sharif, dettagliato nel suo capitolo di Open Gaza scritto con Nasser Golzari, affronta la mutevolezza imposta dell’ambiente costruito di Gaza. Un sistema di rifugi modulari e mobili realizzati con pareti di gabbioni, terra battuta, rete metallica, bambù e altro, è un centro comunitario migrante per lo scambio di competenze, realizzato con le macerie stesse. “L’idea della Learning Room non era di vederla come una struttura permanente che modellasse l’identità della città”, afferma Sharif. “Era uno spazio sperimentale che si può continuare a modificare e cambiare. Non è una nuova struttura urbana. È più un laboratorio per consentire la creazione di nuove strutture”. In questo modo, la Learning Room sottolinea la difficoltà della pianificazione a lungo termine a Gaza.
Esalta anche la flessibilità tattica che gli abitanti di Gaza devono dimostrare per mantenere la casa. Gli architetti occidentali hanno fatto polemica sull’uso solo di materiali a portata di mano, per progettare i loro edifici come un uccello costruisce il nido. L’architetto Jeanne Gang tiene dei nidi di uccello sulla sua scrivania come fonte di ispirazione, ma è improbabile che gli abitanti di Gaza abbiano bisogno di un simile promemoria.
La collisione più viscerale e fantasiosa dell’aspirazione a basse emissioni di carbonio con l’utilità apocalittica arriva nel capitolo di Helga Tawil-Souri sull’IPN: “The Internet Pigeon Network” (La Rete Internet Aviaria). Per superare le restrizioni israeliane su elettricità e larghezza di banda, lo studioso dei media dell’Università di New York propone una rete decentralizzata di posatoi per piccioni, addestratori e punti di raccolta. Questa Internet aviaria farebbe volare piccioni con memorie flash legate al collo da un punto all’altro, offrendo un modo più rapido e sicuro per condividere le informazioni. Affidandosi alla conoscenza e al lavoro locali, è un altro modo per Gaza di affermare l’indipendenza infrastrutturale.
Un diverso tipo di Città Intelligente
Ma non è come se l’ambiente costruito di Gaza non fosse toccato dalla tecnologia. In un certo senso, la rete digitale che monitora la città e i suoi residenti rappresenta una variazione del concetto di “Città Intelligente” ad alta intensità di dati, un altro modo in cui Gaza guarda al futuro.
Dal 2014, la ricostruzione di Gaza è stata gestita attraverso una banca dati connessa in rete chiamata Meccanismo di Ricostruzione di Gaza (Gaza Reconstruction Mechanism – GRM). Aggiornato in tempo reale, il GRM registra tutto il materiale da costruzione che transita attraverso il suo confine, insieme a cosa deve essere utilizzato e chi lo riceverà. Il meccanismo, progettato per garantire che le risorse non vengano utilizzate per scopi militari da Hamas, è stato concordato da Israele e Palestina e doveva essere temporaneo. Ma Francesco Sebregondi di Forensic Architecture afferma che pone Israele in un “ruolo di supervisore supremo”: Il suo capitolo in Open Gaza, intitolato “Frontier Urbanization” (Urbanizzazione di Frontiera), descrive in dettaglio come il GRM fornisca alle autorità israeliane un quadro minuzioso delle condizioni di edificazione di Gaza e la capacità di ritardare la ricostruzione della città.
Tale onniscienza è sempre più un obiettivo del settore della progettazione e delle costruzioni, dove c’è una spinta per tradurre i piani in dati e garantire che ciò che è stato costruito si allinei strettamente con i modelli digitali, per gestire in modo più efficiente la costruzione e le prestazioni operative. Ma non è l’unico modo in cui potrebbe essere utilizzato. Quante di queste informazioni, ad esempio, potrebbe voler condividere con le autorità per l’immigrazione un’organizzazione no profit per il reinsediamento dei rifugiati al confine tra Stati Uniti e Messico? Sebbene il GRM sia relativamente rudimentale, il suo ampio utilizzo in tutta Gaza crea una mappa aggiornata della sua ricostruzione che non esiste da nessun’altra parte.
Per Sebregondi, che ha conseguito un dottorato di ricerca sull’architettura del blocco di Gaza all’Università Goldsmiths di Londra, questa intrusione rivela che il problema della Città Intelligente non è tecnico. È politico. Come con le visioni solari del nostro futuro eco-compatibile, la progettazione e l’urbanistica stessi non hanno autonomia intrinseca per resistere alle agende politiche, e le loro richieste di semplicità, efficienza e vita a basso impatto preparano i cavalli di Troia per il potere. “Chi avrà il compito di accedere a determinati dati?”, chiede Sebregondi. “Quali livelli di trasparenza e accesso sono garantiti utilizzando questa infrastruttura? Non credo che le tecnologie alla base dell’urbanistica intelligente non possano essere riprogettate per servire un’altra idea di ambiente urbano collettivo. Ma quelli che sono attualmente commercializzati e distribuiti con molta leggerezza nelle nostre città tendono a perseguire il contrario”. Questo, dice, è un “orizzonte oscuro che dobbiamo evitare e combattere”.
La complessa intensità del conflitto israelo-palestinese ha trasformato la regione in una sorta di banco di prova per una tecnologia di sorveglianza appositamente costruita che potrebbe essere collegata a una futura Città Intelligente. Infatti, le aziende israeliane stanno vendendo tecnologia di sicurezza informatica in tutto il mondo, compresi gli Stati Uniti, dove viene utilizzata in un nuovo centro di formazione a Baltimora.
Sebregondi vede Gaza come un continuum di violenta violenza coloniale: Mentre gli stati diventano più fragili e blindati e il cambiamento climatico aggiunge livelli di stress, le disuguaglianze salgono alle stelle e le persone si dividono in campi. Laddove questi due gruppi sono vicini l’uno all’altro, il mercato della sorveglianza e del controllo tecnologico è in piena espansione. I dibattiti sul ruolo della polizia militarizzata nelle strade delle città degli Stati Uniti e l’aumento della tecnologia di sicurezza pubblica che erode la privacy hanno annullato la distanza tra la Palestina e Pittsburgh.
“C’è una misura in cui la Palestina diventa una sorta di predizione di questo particolare futuro, all’interno di un territorio molto compatto e denso, con alcuni degli aspetti più sorprendenti di questa frammentazione urbana”, afferma Sebregondi. Descrive “l’effetto boomerang della colonizzazione”, in cui le tecniche per esercitare il controllo sulle popolazioni irrequiete in paesi lontani alla fine si ritorcono contro, come con gli esperimenti della NSA che utilizzano la guerra in Iraq per sviluppare programmi di sorveglianza interna.
È un ciclo che ha annullato la distanza, dice Sharp, avvicinando gli abitanti di Gaza e il resto del mondo e condividendo la loro linea del fronte.
“Questo flusso di violenza e contenimento”, dice, “alla fine ci perseguiterà tutti”.
Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org