Una ricerca dell’università di Leida basata sugli Archivi Vaticani fa luce su una parte ignorata della storia europea: la posizione degli schiavi musulmani nelle terre cristiane.
Fonte: english version
Felicia Rosu – Docente universitario
Immagine di copertina: riscatto di prigionieri cristiani
Nonostante i recenti sforzi di sensibilizzazione sulla storia della schiavitù, gli europei la considerano ancora come un fenomeno lontano, anomalo, avvenuto in tempi remoti (il Medioevo) o in lontane regioni e società del mondo (le colonie e altri paesi extraeuropei).In realtà, la schiavitù è stata presente in Europa fino al XIX secolo e su scala più ampia di quanto precedentemente ipotizzato dagli studiosi. Nell’Europa meridionale, il periodo di massimo splendore della schiavitù fu il diciassettesimo secolo, quando decine di migliaia di musulmani furono tenuti in ostaggio o utilizzati per lavoro in Italia, Malta, Francia e Spagna.
Le fonti europee menzionano spesso i prigionieri cristiani sulla costa barbaresca del Nord Africa – Cervantes fu schiavo ad Algeri tra il 1575 e il 1580, per esempio – ma si sa molto meno dei musulmani catturati dall’altra parte. Eppure, il rapimento, il riscatto, il commercio e il possesso di schiavi di una religione diversa non era solo un affare nordafricano o ottomano. Seguiva la frontiera cristiano-musulmana, dal Marocco al Mar Nero, ed era fondamentalmente reciproco. I corsari maltesi erano terrificanti quanto i loro omologhi tunisini o algerini, e nell’Europa orientale i cosacchi cristiani rivaleggiavano con i tartari musulmani. Mentre i cristiani catturati venivano venduti sui mercati degli schiavi di Caffa, Istanbul, Tunisi e Algeri, i musulmani rapiti dai predoni cristiani finivano come rematori sulle galere del papa, costruttori di palazzi imperiali a Vienna, o schiavi domestici a Venezia e Malta.
I numeri
Resta ancora da fare una ricerca sistematica sulla demografia e sul trattamento degli schiavi musulmani nella prima Europa moderna. Sulla base delle ricerche condotte da Michel Fontenay, Salvatore Bono, Anne Brogini, Wolfgang Kaiser e Robert C. Davis abbiamo tuttavia informazioni sufficienti per trarre alcune conclusioni preliminari sulla loro presenza nell’area del Mediterraneo. In primo luogo, il loro numero era più alto di quanto si pensasse: per esempio, Salvatore Bono stima che ci fossero circa ventimila schiavi musulmani intorno al 1600 nella sola Napoli, e dai quattro ai cinquecentomila tra il 1500 e il 1800 nella penisola italiana. Se estrapoliamo questi numeri a tutta l’Europa meridionale, otteniamo facilmente più di un milione e forse anche di più per l’intero periodo della prima età moderna, come è anche il caso degli schiavi cristiani sulla costa barbaresca, che con un stima conservativa ammontavano ad almeno un milione. Questi numeri sono certamente inferiori a quelli relativi alla schiavitù transatlantica, ma non sono affatto trascurabili.
Durata della cattività
In secondo luogo, gli schiavi musulmani tendevano a trascorrere più tempo in cattività rispetto alle loro controparti cristiane, soprattutto perché gli sforzi di riscatto erano meno organizzati o semplicemente meno riusciti da parte musulmana. Al contrario, la costa barbaresca fu inondata da iniziative di riscatto europee – alcune religiose, alcune private, alcune statali – che riuscirono a rimpatriare alcuni cristiani prigionieri. Ma anche con tali sforzi concertati, il numero totale di schiavi liberati era molto basso: si stima che non più del cinque per cento degli europei catturati dai corsari barbareschi sia riuscito a tornare a casa. Il numero di schiavi musulmani riscattati è ancora più basso.
Comunicazione
Terzo – e questo è forse l’aspetto più interessante della schiavitù nel Mediterraneo – le parti musulmana e cristiana erano in costante comunicazione sul trattamento dei loro schiavi “pubblici” (cioè schiavi non di proprietà di privati, ma detenuti in istituti simili a carceri e utilizzati dalle autorità locali come galeotti o per lavori pubblici). La comunicazione seguiva un percorso indiretto. Quando si trattava di questioni religiose, passava spesso nelle mani di funzionari vaticani, che venivano usati come intermediari nelle denunce. La normale procedura prevedeva diversi passaggi. In primo luogo, un gruppo di schiavi musulmani detenuti in luoghi come Malta o Civitavecchia scriveva ai propri contatti a Tunisi o ad Algeri per lamentarsi del trattamento a loro riservato dai sorveglianti cristiani. Le lamentele riguardavano solitamente le pressioni per convertirsi al cristianesimo o la perdita di privilegi come l’uso di un cimitero separato. Le autorità di Tunisi e di Algeri minacciavano i missionari cristiani presenti nella loro zona di iniziare a perseguitare in modo simile gli schiavi cristiani locali (o costringendoli a convertirsi all’Islam o confiscando il loro cimitero). A quel punto i missionari scrivevano a Roma chiedendo l’intervento della Congregazione per la Propaganda Fide (l’istituzione pontificia che dal 1622 sovrintendeva all’attività missionaria, nota anche come Propaganda Fide). È così che a volte i funzionari papali venivano coinvolti nella negoziazione dei diritti religiosi per gli schiavi musulmani nelle aree cristiane.
Questi esempi provengono dagli archivi di Propaganda Fide, ma maggiori informazioni si possono trovare in altre sezioni degli archivi vaticani e nei depositi locali sparsi per il Mediterraneo. Le storie degli schiavi musulmani dimenticati della prima cristianità moderna aspettano di essere raccontate.
Traduzione di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali” – Invictapalestina.org