Le donne arabe e la sindrome del bikini

La donna araba è plurale sia nel passato che nel presente. La sua identità non può essere riassunta in pochi scatti in bianco e nero.

Fonte: english version

Sarah Zaaimi – 8 dicembre 2021

Online mi imbatto quotidianamente in un’abbondanza di foto vintage che ritraggono donne arabe della prima metà del ventesimo secolo immortalate in bikini, minigonne o abiti molto corti. Queste immagini sono solitamente accompagnate da commenti nostalgici che si rammaricano per il destino delle donne mediorientali, mentre glorificano gli abiti occidentali. “Altre nazioni stanno andando avanti, mentre noi stiamo andando indietro”, si legge in un post. “Come ha fatto la bruttezza a sostituire così tanta bellezza”, riporta un altro.

Donne arabe che si rilassano in spiaggia

Nell’immaginario collettivo di molte persone istruite della regione, gli indumenti occidentali sono associati all’autonomia femminile e ai valori liberali e sono l’epitome della raffinatezza e dello sviluppo umano. Questo, ovviamente, dissimula un certo disprezzo per i tradizionali copricapi o abiti coprenti, ritenuti i simboli dell’oppressione fisica e delle norme fallocratiche islamiche. Semmai, bikini, parrucche cotonate o persino cravatte sono invece il risultato di un’era vergognosa in cui volevamo assomigliare ai nostri oppressori.

Questi scatti vintage sono una parte essenziale del nostro patrimonio visivo. Tuttavia, oscurano intenzionalmente milioni di altre donne della regione che, in un universo parallelo, erano vestite di djellaba marocchine, melaya egiziane o abaya irachene. Questa visione riduzionista delle donne arabe favorisce implicitamente una narrativa che proclama che le donne hanno goduto di una maggiore libertà di espressione sotto il dominio coloniale. Al contrario, l’abbigliamento indigeno delle donne divenne un’unità di misura dell’arretratezza e della regressione. Dietro queste rappresentazioni parziali e selettive delle élite mediorientali, che potevano permettersi di essere fotografate, c’era un numero spaventoso di donne analfabete e disoccupate, un tasso allarmante di mortalità infantile, tubercolosi, bilharzia e donne vittime del colera che nessuno ricorderà o cui mai sarebbe stato chiesto di posare per una foto.

Donne marocchine che partecipano al movimento per l’indipendenza nella città di Tetouan

Questa “sindrome da foto vintage in bikini” attesta il malessere profondo che abbiamo nei confronti del nostro passato e del nostro presente. Poiché il nostro presente è assolutamente esecrabile e segnato da profondi pregiudizi e paradossi, tendiamo a idealizzare una percezione immaginaria e in qualche modo  romanzata del passato. Se non sentite l’arabo medio lodare i suoi antenati sumeri, fenici o egizi e il loro contributo alla civiltà umana, lo sentirete sicuramente soffermarsi sull’era coloniale durante la quale Il Cairo era soprannominato la “Parigi dell’Est” e il Libano la “Svizzera” d’Oriente». Naturalmente, la falsa coscienza delle nostre élite non prova alcun imbarazzo nel raccogliere e scegliere frammenti della nostra identità e memoria o nell’usare l’occidente come punto di riferimento della bellezza estetica e della civiltà.

Questa “sindrome da foto vintage in bikini ” attesta il malessere profondo che abbiamo nei confronti del nostro passato e presente. Il nostro presente è esecrabile e segnato da profondi pregiudizi e paradossi, tendiamo a idealizzare una percezione immaginaria e anche un po’ romanzata del passato

La feticizzazione di queste immagini da parte dei media occidentali non ha aiutato, grazie anche a titoli come “Non crederete dove queste foto sono state scattate “, “Ecco come apparivano l’Iraq/Il Cairo/Algeri prima della propagazione dell’islamismo”, “Immagini accattivanti di quando le donne arabe avevano stile”. Questa feticizzazione è legata anche a un altro archivio visivo tabù, quello delle cartoline erotiche coloniali che soldati e coloni europei erano soliti accumulare avidamente: una collezione di immagini pornografiche che mostravano donne seminude della nostra regione per il piacere dei loro occhi orientalisti. Queste cartoline incorniciavano in parte lo sguardo occidentale sul Medio Oriente e le fantasie che ancora si perpetuano nel cinema e nella letteratura sul corpo femminile arabo romanzato.

Questa storia ricorda una fiaba popolare che i nostri saggi anziani ci raccontavano nelle buie notti invernali. La storia del corvo che rimase così affascinato dal sontuoso incedere del pavone che decise di imitarlo. Alla fine, lo sfortunato corvo non riuscì mai a camminare come un pavone. Nel processo, dimenticò anche il suo stile originale e non poté più essere sé stesso. Così è l’arabo che desidera somigliare così tanto all’Occidente da dimenticare chi è veramente. La donna araba è plurale sia nel passato che nel presente. La sua identità non può essere riassunta in pochi scatti in bianco e nero. Indossa l’hijab, il niqab, pantaloncini sexy o niente del tutto. Lei è semplicemente il suo sé autentico.

Ragazze egiziane in costume da bagno negli anni ’60
Cartolina di epoca coloniale che mostra una ragazza beduina in topless

 

Traduzione di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali” -Invictapalestina.org