Come una lettera di rifiuto dell’esercito è diventata l’ultima resistenza della sinistra sionista

Due decenni fa, centinaia di riservisti israeliani hanno suscitato scalpore a livello nazionale per essersi rifiutati di prestare servizio nei territori occupati. Ma cosa resta della loro eredità?

Fonte: english version

Di Noam Sheizaf – 29 marzo 2022

 

Immagine di copertina: Soldati israeliani salutano durante  la cerimonia del Memorial Day presso il Muro Occidentale, nella Città Vecchia di Gerusalemme, il 10 maggio 2016. (Hadas Parush/Flash90)

Noi, ufficiali riservisti dell’esercito e soldati delle Forze di Difesa Israeliane, cresciuti secondo i principi del sionismo, del sacrificio di sé e alla fedeltà al popolo e allo Stato di Israele, che hanno sempre servito in prima linea, e che sono stati i primi a svolgere qualsiasi missione al fine di proteggere lo Stato di Israele e rafforzarlo.

Noi, ufficiali dell’esercito e soldati che abbiamo servito lo Stato di Israele per lunghe settimane ogni anno, nonostante il caro costo per le nostre vite personali, siamo stati in servizio come riserve nei Territori Occupati e abbiamo ricevuto comandi e direttive che non avevano nulla a che fare con la sicurezza del nostro Paese, ma avevano l’unico scopo di perpetuare il nostro controllo sul popolo palestinese. […]

Con la presente dichiariamo che non continueremo a combattere questa guerra degli Insediamenti.

Non continueremo a combattere oltre i confini del 1967 per dominare, umiliare, affamare ed espropriare un intero popolo.

[Lettera dei Combattenti, gennaio 2002]

Nel 1985, l’enigmatico, eclettico e molto ammirato ebreo ortodosso, poi Professore presso l’Università Ebraica, Yeshayahu Leibowitz, al tempo Professore all’Università Ebraica di Gerusalemme, rilasciò un’intervista al quotidiano Yedioth Ahronoth, in cui espresse il suo sincero sostegno ai riservisti dell’esercito che si rifiutavano di servire nella guerra di Israele in corso in Libano.

Il rifiuto, sosteneva Leibowitz, era una tattica politica legittima, persino necessaria, nella realtà israeliana successiva al 1967. “Il rifiuto di servire, anche se è la norma solo all’interno di una minoranza, potrebbe disinnescare il consenso nazifascista e diventare il primo passo sulla strada per uscire dalla barbarie”, ha detto Lebowitz. Se 500 ufficiali si fossero rifiutati di prestare servizio nei Territori Occupati, predisse, l’occupazione sarebbe finita.

In Israele, il servizio militare era ed è tuttora visto come un dovere quasi sacro e l’intervista di Leibowitz è stata accolta con clamore pubblico. Eppure, col passare del tempo, è stata la sinistra israeliana a essere perseguitata dalle parole di Leibowitz. Il numero 500 ha ricevuto lo status di mito: la soluzione semplice ad un problema complicato che, con tutte le altre opzioni esaurite, potrebbe raggiungere l’obiettivo di porre fine al governo militare di Israele sui palestinesi.

 

Foto: Soldati israeliani trattengono palestinesi a Jenin durante l’ “Operazione Scudo Difensivo” durante la Seconda Intifada, aprile 2002. (GPO)

Nel gennaio 2002, al culmine della Seconda Intifada, un gruppo di 51 militari riservisti ha pubblicato una lettera in cui dichiaravano il loro rifiuto di prestare servizio nei Territori Occupati. La presenza dell’esercito lì, hanno detto, non riguardava più la protezione di Israele, ma aveva invece lo scopo di “dominare, umiliare, affamare ed espropriare un’intera nazione”. Decine di altri hanno firmato la lettera in poche settimane e, alla fine, quasi un migliaio di soldati e ufficiali hanno espresso il loro sostegno al movimento. Molti di loro furono congedati dalle loro unità; centinaia hanno scontato pene detentive, comprese tra una settimana e un paio di mesi. È stato un momento cruciale nella storia della sinistra israeliana e il più forte atto di opposizione che ha organizzato durante la Seconda Intifada.

L’occupazione non è finita.

Una sensazione immediata

Il 20° anniversario di quella che divenne nota come “Lettera dei Combattenti” è passato quasi inosservato lo scorso gennaio. Alcuni membri del gruppo, che in seguito si sono riuniti nel movimento “Courage to Refuse” (Coraggio di Rifiutare), hanno tentato di organizzare una riunione commemorativa, ma i preparativi sono stati sospesi a causa dello scoppio della variante Omicron del Covid-19. I media, che hanno dibattuto ininterrottamente la lettera quando è stata pubblicata, se ne sono quasi dimenticati. Anche sui social media, non sono riuscito a trovare più di una manciata di post che menzionano una delle azioni politiche più significative della sinistra israeliana da decenni.

Un’eccezione è stata un lungo post su Facebook del fondatore di Courage to Refuse David Zonsheine, che ha ricordato i primi giorni del movimento e ha approfondito le ragioni che lo hanno portato, un giovane ufficiale in un’unità d’élite delle forze speciali, a scrivere la “Lettera dei Combattenti” insieme al commilitone Yaniv Iczkovits. La decisione di rifiutare pubblicamente il servizio militare ha cambiato la sua vita, ha scritto Zonsheine. Quando lui e Iczkovits hanno scritto la lettera, un amico che in precedenza aveva rifiutato ha detto loro che sarebbero stati fortunati a convincere 10 persone a co-firmarla. Zonsheine acconsentì. Ma una volta che Iczkovits ha iniziato a far circolare la lettera tra i suoi amici universitari, ha trovato decine di persone disposte a firmare.

I primi 51 nomi sono apparsi, insieme ai loro gradi e unità dell’esercito a cui appartenevano, in un annuncio pubblicato nell’edizione cartacea di Haaretz. La pubblicazione della loro lettera fece subito scalpore. Questo era già il secondo anno dell’Intifada; centinaia di palestinesi e israeliani erano stati uccisi, la sinistra israeliana era allo sfascio e l’opposizione pubblica all’occupazione era giunta a un punto morto. Improvvisamente, la lettera ha presentato una svolta, qualcosa di serio e di grande che era degno del momento. Molti volevano unirsi e quello che, iniziato come poche parole su una pagina, si è trasformato in un movimento.

Leader politici e generali dell’esercito si sono precipitati a condannare la lettera. La Commissione per gli Affari Esteri e la Sicurezza della Knesset (Parlamento) ha tenuto un lungo dibattito sull’iniziativa, in cui l’allora Capo di Stato Maggiore dell’esercito Shaul Mofaz ha accusato gli ufficiali che hanno avviato la lettera di ammutinamento, avvertendo che l’esercito dispone di metodi appropriati per i soldati determinati a continuare il rifiuto del servizio.

Tra la base della sinistra israeliana, il movimento di rifiuto era l’unica cosa di cui si parlava. La lettera fondeva il politico e il personale e costringeva anche coloro che si opponevano al rifiuto a chiedersi fino a che punto sarebbero stati disposti ad andare nella loro opposizione all’occupazione. Quando firmai la lettera nell’aprile di quell’anno, conteneva più di 200 nomi: paracadutisti, comandanti di carri armati, luogotenenti e capitani in servizio nelle unità sul campo, persino ufficiali di sottomarini e pattugliatori navali che si rifiutavano di prestare servizio nel mare al largo della Striscia di Gaza.

 

Foto: Le forze israeliane invadono Jenin come parte dell’ “Operazione Scudo Difensivo” durante la Seconda Intifada, aprile 2009. (GPO)

Insieme agli attacchi politici, la lettera ha generato molta solidarietà. “Siamo stati colpiti duramente”, ha detto Zonsheine quando gli ho parlato all’inizio di marzo, “ma c’era anche qualcosa nella nostra posizione pubblica, siamo stati fotografati in uniforme, con i nostri gradi e fregi, che ci ha reso familiari al pubblico israeliano. Anni dopo, ho incontrato persone del mondo accademico che mi hanno detto: ‘Abbiamo firmato la petizione dei professori per sostenervi, e non siamo nemmeno di sinistra.'” Zonsheine attribuisce questo all’audacia e alla chiarezza della lettera, sullo sfondo della confusione e della disperazione per la Seconda Intifada in cui molti sentivano che la sinistra israeliana si era smarrita.

Courage to Refuse ha limitato la sua opposizione alla politica israeliana all’occupazione successiva al 1967; questa era sia la sua forza che la sua debolezza. Il suo logo era una stella di David e i suoi membri dichiaravano di essere “disposti a continuare a servire in altre missioni che avrebbero servito la sicurezza dello Stato di Israele”. Ciascun firmatario poteva decidere autonomamente cosa costituisse una “missione relativa all’occupazione”. La maggior parte ha semplicemente scelto di non servire in nessuna forma oltre la Linea Verde, come suggeriva la lettera.

Ai margini del convenzionale 

Oggi la “Lettera dei Combattenti” sembra uno strano documento. Promuove uno degli atti più radicali che un ebreo israeliano possa commettere, avvolgendolo in un linguaggio militarista e sionista. La passione, la fiducia in se stessi e il privilegio della lettera sono così estranei al modo in cui parla la sinistra ora, che potrebbe far rabbrividire. È impossibile immaginare che un testo del genere venga pubblicato, per non dire celebrato, oggi.

“Courage to Refuse inizialmente ha avuto successo perché ha obbedito consapevolmente alle regole della superiorità israeliana”, afferma il Professor Yagil Levy, la cui ricerca si concentra sul rapporto dell’esercito israeliano con la società civile. “Ci è voluto un atto molto eversivo, anche Meretz si è opposto al rifiuto, ma lo ha fatto in una sorta di modo conservatore, non parlando in nome di valori universali ma in nome dello status e del contributo nazionale di chi ha firmato la lettera. E ha funzionato”, continua Levy. “Dopo che la lettera è stata pubblicata, un sondaggio ha mostrato che il 23% degli israeliani era favorevole al rifiuto. Al culmine dell’Intifada! Essere ai margini del convenzionale, questo era il loro segreto. Se fossero stati degli esclusi, il movimento sarebbe morto prima ancora di nascere”.

 

Foto: Un giovane israeliano mostra un ordine di coscrizione, durante una veglia di solidarietà con Tair Kaminer e Tania Golan, venute ad annunciare il loro rifiuto di prestare servizio nell’esercito israeliano nella base militare di Tel Hashomer, 31 gennaio 2016. (Oren Ziv/Activestills)

Infatti, gli attivisti di Courage to Refuse erano apparentemente privilegiati e superiori, anche 20 anni fa. Tutti i nomi sulla lettera iniziale, e la maggioranza assoluta di coloro che sarebbero venuti a firmarla, erano uomini. La maggior parte di loro erano ashkenaziti e molti provenivano da unità d’élite. Forse è questo il motivo per cui anche alla sinistra non piace ricordare la lettera: sembra confermare tutti i luoghi comuni e le accuse che le vengono rivolte, e smentisce i valori odierni di genere e diversità etnica.

Zonsheine non nega questo fatto. “Il rifiuto è un privilegio”, ha scritto nel suo post su Facebook. “Ci sono voluti anni per riuscire a comprenere chi è nella posizione di prendere parte a un tale atto”, mi ha detto. “Ho frequentato una grande scuola a Ramat Hasharon, un ricco sobborgo di Tel Aviv. Lavoro nell’elettronica. Non siamo mai stati ricchi, mio ​​padre non ha nemmeno finito il liceo, ma sono cresciuto con un tale senso di conforto e di appartenenza a questo posto. E per molte, molte persone, non è così”.

“La mia capacità di rifiutare è mille volte maggiore di quella di una donna mizrahi di Dimona (una città nel Negev/Naqab simbolo della periferia socioeconomica di Israele)”, ha scritto Zonsheine. “Ciò non significa che non ci siano donne provenienti da ambienti svantaggiati che hanno rifiutato, e sono profondamente commosso e ammiro il loro coraggio. Coloro che rifiutano si stanno prendendo i loro privilegi e li stanno usando per smantellare il privilegio più centrale degli ebrei israeliani: dominare il popolo palestinese”.

Un’eredità controversa

Decenni dopo, è difficile giudicare il successo o anche l’impatto di iniziative come Courage to Refuse. La realtà politica è complicata e il cambiamento non avviene mai in modo lineare. Ma in termini di dibattito pubblico israeliano, nessun’altra iniziativa della sinistra sionista ha avuto un tale impatto da allora. Questa è stata la sua ultima resistenza: l’Alamo della generazione di Oslo, o almeno il suo contingente più radicale. Da allora la sinistra ebraica ha cercato di entrare a gran voce nel dibattito israeliano.

Anche Courage to Refuse ha avuto un impatto concreto. Nel 2004, Dov Weissglas, uno dei collaboratori più intimi dell’allora Primo Ministro Ariel Sharon e una delle menti dietro il ritiro unilaterale di Israele da Gaza, disse ad Ari Shavit di Haaretz che il movimento di rifiuto era uno dei motivi del disimpegno, che fu portato avanti un anno dopo.

“Courage to Refuse ha mostrato che un gruppo di ebrei laici di classe medio-alta che facevano parte del nucleo dell’esercito può improvvisamente allontanarsi da esso”, mi ha detto Levy. “È stato un evento rivoluzionario e l’esercito ne era profondamente preoccupato. Il 2002 ha visto un aumento delle critiche interne alle politiche israeliane durante la Seconda Intifada. Courage to Refuse era parte di questo e ha generato una forma più critica di copertura giornalistica”.

In risposta, dice Levy, la dirigenza politica ha raddoppiato il senso di emergenza nella società israeliana. “Nel marzo 2003, in seguito all’attacco suicida al Park Hotel di Netanya, Sharon ha inviato le forze riserviste con ordini di emergenza e ha riconquistato le città palestinesi in Cisgiordania. Sharon sapeva che l’arruolamento di soldati riservisti inviava un messaggio al pubblico. Ha unito tutti sotto la bandiera. È stato un momento cruciale per il successo del vertice politico per contrastare l’opposizione alle sue azioni durante l’Intifada, incluso Courage to Refuse”.

Fu allora, durante i primi mesi del 2003, che dozzine di membri di Courage to Refuse stavano scontando la loro pena detentiva (a un certo punto il numero di obiettori, soldati e ufficiali, in prigione contemporaneamente arrivò a 50), quando il governo è stato in grado di assumere il controllo della narrativa. Il pubblico israeliano arrivò a considerare la Seconda Intifada come una battaglia esistenziale: una risposta a un attacco premeditato sia di Fatah che di Hamas. La distruzione dell’Autorità Palestinese di Yasser Arafat è stata legittimata; la nuova Autorità Palestinese che in seguito l’avrebbe sostituita non sarebbe più stata un’entità o uno Stato quasi indipendente, ma un subappaltatore all’interno dell’infrastruttura dell’occupazione.

“L’opzione per dire di no esiste”

Courage to Refuse ha continuato ad operare per diversi anni, ma il suo impatto è stato ridotto. Ha ispirato altre lettere di rifiuto: da unità d’élite, piloti dell’Aviazione, studenti pre-arruolamento e veterani della prestigiosa unità di intelligence 8200. Negli anni seguenti, dozzine di adolescenti israeliani sarebbero stati processati e avrebbero scontato lunghe pene detentive, molto più lunghe di quelle inflitte ai membri di Courage to Refuse, per aver rifiutato del tutto di prestare servizio militare a causa della loro opposizione all’occupazione di Israele. Tra loro c’erano molte donne e persone della periferia israeliana.

 

Foto: Gli obiettori di coscienza Eran Aviv (a sinistra) e Shahar Perets visti fuori dal centro di arruolamento dell’IDF, Tel Hashomer, nel centro di Israele, 31 agosto 2021. (Oren Ziv)

Ma nonostante l’enorme sacrificio, gli obiettori, non sono riusciti a generare un’influenza politica significativa, rimanendo nella loro natura in gran parte simbolica e individuale. Il baricentro a sinistra si è spostato sui suoi elementi più radicali, mentre gruppi relativamente piccoli come Anarchici contro il Muro e Ta’ayush, così come organizzazioni per i diritti umani, hanno rimodellato l’opposizione della sinistra ebraico-israeliana all’occupazione.

Dal 2002, l’esercito israeliano ha subito cambiamenti significativi, al punto che, dice Levy, “non si può immaginare che qualcosa come la ‘Lettera dei Combattenti’ si ripeta oggi”. Una quota molto più ampia di soldati è ora reclutata dal settore nazionale-religioso e dalla periferia socioeconomica, che vedono nell’esercito un veicolo di elevazione sociale. Sono state formate nuove unità specializzate nello svolgimento dei compiti di controllo dei palestinesi sotto occupazione, mentre i riservisti sono stati dirottati, per la maggior parte, lontano dal prestare servizio in Cisgiordania e a Gaza.

La Lettera dei Combattenti è stata parte di un momento di trasformazione nella storia dell’occupazione e delle relazioni di Israele con i palestinesi e nella storia della sinistra israeliana. Per molte persone, me compreso, il rifiuto era anche parte di una trasformazione personale, un’anticamera di passaggio per un approccio completamente nuovo alla visione del conflitto.

“Era un ponte verso una nuova realtà”, concorda Zonshiene, che è il capo del consiglio di amministrazione dell’organizzazione per i diritti umani B’Tselem (che di recente ha iniziato a etichettare l’intero sistema israeliano come un regime di apartheid). “Mi rendo anche conto di quanta distanza ci sia da dove mi trovavo al modo in cui comprendo lo stato delle cose oggi. Eppure, credo che qualsiasi rifiuto, certamente non solo il nostro, sia significativo, soprattutto se è pubblico, anche se considerato marginale”.

“Se qualcuno mi avesse detto allora che l’esercito avrebbe bombardato Gaza dagli aerei, mi sarebbe sembrato folle”, continua. “Ci siamo rifiutati per molto meno. Quindi, se le cose peggiorano e hanno sicuramente il potenziale per peggiorare molto, è necessario ricordare alle persone che esiste la possibilità di dire “no”.

Noam Sheizaf è un giornalista ed editore indipendente. È stato il direttore esecutivo e caporedattore fondatore di +972 Magazine. Prima di entrare in +972, ha lavorato per il quotidiano locale Hair di Tel Aviv, Ynet, e per il quotidiano Maariv, dove la sua ultima posizione è stata quella di vicedirettore della rivista del fine settimana. Attualmente sta lavorando a numerosi film documentari.

Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org