Dal 3 al 17 aprile 2002, le forze militari israeliane presero d’assalto il campo profughi di Jenin, uccidendo più di 50 palestinesi e rendendone 13.000 senzatetto. Jennifer Loewenstein ricorda le condizioni del campo all’indomani e l’indifferenza dei media per l’assalto.
Fonte: english version
Di Jennifer Loewenstein – 7 aprIle 2022
Immagine di copertina: Una famiglia sulle macerie della propria casa nel campo profughi di Jenin, aprile 2002. Foto: Jennifer Loewenstein
Alla fine di marzo 2002, mentre imperversava la Seconda Intifada, le Forze di Difesa Israeliane (IDF) lanciarono l’Operazione Scudo Difensivo contro città e paesi della Cisgiordania occupata. Scudo Difensivo fu la più grande operazione militare nel territorio dal 1967 con le forze militari israeliane che invasero Ramallah, Tulkarem, Qalqilya, Nablus, Bethlehem e Jenin. Si dice che l’operazione fosse stata una risposta diretta all’attentato suicida del 27 marzo all’Hotel Park di Netanya che uccise 30 turisti, noto anche come il “massacro di Pasqua”.
Lo scopo dell’Operazione “Scudo Difensivo” era riaffermare il controllo israeliano sui principali centri abitati della Cisgiordania. I piani per l’operazione, tuttavia, erano stati delineati in un progetto del 1996 noto come “Operazione Campo di Spine” pianificata dall’allora Capo di Stato Maggiore Moshe Ya’alon. Fu pensata in risposta a tre giorni di violenti scontri iniziati il 24 settembre 1996, seguiti all’apertura da parte di Israele di un tunnel turistico che avrebbe collegato il Muro Occidentale, il luogo più sacro dell’ebraismo, con la Via Dolorosa (dove, nella tradizione cristiana, si dice che Gesù abbia camminato sulla strada per la crocifissione) e passare da diversi luoghi santi islamici. Nella violenza che ne seguì morirono 25 soldati israeliani e quasi 100 palestinesi. Oltre 1.000 palestinesi rimasero feriti sia a Gerusalemme Est che a Gaza, dove la violenza si era diffusa.
Lo scopo dell’Operazione Campo di Spine era sviluppare una chiara strategia militare per riconquistare la Cisgiordania, schiacciare la resistenza palestinese e trasferire i palestinesi fuori dal territorio, o “aree sensibili”. L’operazione Scudo Difensivo era meno radicale di Campo di Spine, ma condivideva obiettivi simili e non fu meno violenta nella sua attuazione.
Dal 3 al 17 aprile 2002, le forze militari israeliane presero d’assalto il campo profughi di Jenin per stanare i “terroristi”. (Diverse fonti forniscono date diverse per quando l’IDF lasciò il campo.) In realtà, tuttavia, la demolizione del campo fu un atto di punizione collettiva che durò almeno due settimane. Jenin fu preso di mira, in questo caso, apparentemente perché era la casa dell’uomo responsabile dell’attentato suicida a Netanya. Jenin era un “covo di terroristi”, affermò il Primo Ministro israeliano, Ariel Sharon. Questo non spiega perché le altre città palestinesi vennero prese di mira nell’operazione o perché un intero campo profughi abbia dovuto pagarne il prezzo.
Le forze dell’IDF, inclusi 150 carri armati, veicoli corazzati per il trasporto truppe, elicotteri Apache e aerei F-16 insieme a 2 battaglioni di fanteria regolari, squadre di intervento speciali e 12 bulldozer corazzati D9 presero d’assalto il campo in una serrata guerra urbana nell’ambito di una campagna che avrebbe causato la morte di almeno 52 palestinesi e decine di feriti (52 è la cifra ufficiale; molti sostengono che il bilancio delle vittime fosse più alto). Morirono anche ventitré soldati israeliani. Secondo Human Rights Watch, 22 dei 52 palestinesi morti erano civili. Fino ad oggi le persone sono divise sull’opportunità o meno di chiamare la battaglia di Jenin un massacro, discutendo se rientri o meno nella classica definizione di “atto o circostanza di uccisione indiscriminata e crudele di un gran numero di esseri umani”. Amnesty International ha steso un rapporto dettagliato sull’Operazione Scudo Difensivo in cui afferma:
“Durante i combattimenti i residenti del campo, i giornalisti palestinesi e stranieri e altri fuori dal campo videro centinaia di missili lanciati contro le case del campo da elicotteri Apache che volavano sortita dopo sortita. La vista della potenza di fuoco lanciata contro il campo profughi di Jenin portò coloro che assistettero alle incursioni aeree, inclusi esperti militari e media, a credere che almeno qualche decina di palestinesi fossero stati uccisi. Lo stretto cordone intorno al campo profughi e all’ospedale principale dal 4 al 17 aprile, fece sì che il mondo esterno non avesse modo di sapere cosa stesse succedendo all’interno del campo”.
Nel suo rapporto, Amnesty documenta anche le uccisioni extragiudiziali; l’uso dei palestinesi come scudi umani; tortura e trattamento crudele, disumano o degradante dei detenuti; la mancanza di accesso a cibo e acqua; il blocco dell’assistenza medica e umanitaria e la diffusa distruzione di proprietà e infrastrutture civili.
Nella primavera del 2002 ho vissuto e lavorato a Gaza City. Ai palestinesi della Striscia di Gaza non era permesso recarsi in Cisgiordania, quindi il Centro per i diritti umani al-Mezan (dove lavoravo) mi aveva mandato a fare rapporto dal campo profughi di Jenin. Arrivai il 18 aprile e quello che segue è un resoconto di ciò che vidi. È tratto dagli articoli che scrissi all’epoca, da un diario che tenevo degli eventi, da ciò che ricordo rapportato ai fatti, e dalle innumerevoli foto che scattai , alcune delle quali divenneroparte di una mostra.
All’inizio non sapevo se ero nel posto giusto. Davanti a me c’era una distesa di rovine. Ricordo di aver chiesto a un vecchio dove fosse il campo. Mi guardò, indicò le macerie e disse: “al-mukhayim!” (“il campo!”) Fu allora che mi resi conto di quanto la distruzione fosse stata immane. Vagavo da un cumulo di detriti all’altro, spesso senza nemmeno sapere cosa stavo vedendo. Il terreno era fangoso e c’erano persone, comprese donne e bambini, che cercavano di recuperare effetti personali, liberare vie intorno agli edifici crollati per le squadre mediche di emergenza, e localizzare i morti.
L’odore della morte pervadeva il campo. Avevo sentito parlare di persone che parlavano del “terribile odore della morte”, ma fino ad allora non l’avevo mai sperimentato. Quando lo feci, capii cosa fosse quasi istintivamente. Tra le rovine della casa di qualcuno, vidi il fondo di una scarpa che spuntava da un mucchio di terra. Intorno a me le persone tenevano pezzi di stoffa sul naso e sulla bocca per evitare di soffocare per l’odore. Fu allora che mi resi conto che la scarpa era attaccata a un piede e il piede a una persona. Per tenermi alla larga, lasciai la zona e mi diressi verso quello che ora so essere stato l’ingresso del campo, dove si trovava l’ospedale. Camminai attraverso i suoi corridoi per lo più vuoti fino a quando non arrivai all’ingresso sul retro. Fuori c’era molto trambusto.
Mi allontanai dalla folla e mi arrampicai su una sporgenza che dominava l’area dietro l’ospedale. Lì, i morti erano avvolti in lenzuola bianche e giacevano a terra al sole. Il personale aveva ammucchiato alcuni dei corpi sul retro di un camioncino, lasciando il resto allineato uno accanto all’altro, i loro nomi scarabocchiati con pennarello nero sui teli, in modo che i vivi potessero identificarli. Un giovane si inginocchiò davanti a uno dei corpi, assorto nei pensieri, nella preghiera o nel dolore. Dietro le file che giacevano al sole, gli uomini scavarono una fossa dove erano stati sepolti coloro che erano morti durante l’assedio. La sepoltura era stata effettuata immediatamente in modo che i corpi di coloro che erano morti non diffondessero malattie. Successivamente furono dissotterrati, ripuliti dallo sporco e allineati accanto agli altri. Anche loro sarebbero stati caricati sul camion e portati via per dare loro una sepoltura adeguata.
Al centro di questo trambusto c’era una donna anziana che urlava ai giornalisti di smettere di scattare foto. I giornalisti la ignorarono, continuando a scattare fotografie: la necessità di documentare come prove ciò che era accaduto prevalse sulla dignità dei morti. Due uomini che trasportavano una barella improvvisata portarono un altro corpo dal campo. Non contai quanti corpi ci fossero. A quel tempo, non mi venne in mente che così tante polemiche sarebbero sorte riguardo il numero di persone uccise.
In precedenza, quel giorno dopo la fine dell’assedio, mi ero messa in fila con i giornalisti stranieri in attesa del permesso dell’esercito per entrare nel campo e documentare le conseguenze dell’assalto. Seguimmo un sentiero che si diramava da un villaggio vicino. Capii che avevamo preso quella strada per evitare di essere colpiti dai soldati che erano rimasti indietro, ma i soldati spararono comunque, sopra le nostre teste. Imperterrito, questo corteo di estranei proseguì comunque: europei dell’Est, un fotografo greco, un paio di italiani, alcuni libanesi, un russo e una varietà di altri. Solo un altro americano, uno studente del Midwest e un volontario di una ONG britannica, entrarono con noi.
Questa era la prima volta che a civili, giornalisti e fotografi, tranne pochissimi che avevano rischiato la vita per entrare in precedenza, era stato permesso di entrare. Gli autori non avevano voluto essere filmati con i loro bulldozer, armi e bombe; i loro elicotteri da combattimento, i loro missili, l’uso di scudi umani; gli esplosivi che avevano usato per far saltare in aria edifici e case di famiglia, una con un uomo costretto su una sedia a rotelle ancora all’interno. Evidentemente, non volevano che estranei sapessero che elettricità, acqua, cibo e forniture mediche erano state tagliate; che nessuno poteva entrare o uscire. Non volevano che gli osservatori vedessero come i soldati bruciavano le fotografie di famiglia; come urinavano e defecavano in pentole e padelle da cucina; infilavano spilli e facevano a pezzi i giocattoli dei bambini; lanciavano missili nei soggiorni delle persone; facevano a brandelli i vestiti delle donne e rovesciavano provviste di cibo sui pavimenti delle cucine; come avevano divelto mobili e rotto tazze, piatti, ciotole, bicchieri, vasi, cornici, televisori e radio. Nell’ingresso di una scuola in fondo al campo qualcuno si era premurato, con qualcosa di simile a un taglierino, di strappare gli occhi a ciascuno dei bambini dipinti su un murale. Quando tutto fu finito, alcuni ridevano o si vantavano dell’immane distruzione. In un’intervista ormai nota, un soldato soprannominato Kurdi Bear (Moshe Nissim detto Orso Kurdo), ricordava il suo servizio alla guida di un bulldozer corazzato intorno al campo. Con una bottiglia di whisky nascostai, Kurdi Bear aveva trascorso tre giorni di fila a demolire tutto ciò che poteva del campo.
“Per tre giorni non ho fatto altro che demolire e distruggere. L’intera area. Qualsiasi casa da cui sparavano è crollata. E per abbatterle, ne ho abbattute altre. Sono stati avvertiti dall’altoparlante di uscire di casa prima del mio arrivo, ma non ho dato a nessuno la possibilità di salvarsi. Volevo solo speronare le case con tutta la potenza, per farle crollare il più velocemente possibile. Altri potrebbero essere rimasti all’interno, o almeno così dicono. Chi stanno prendendo in giro? Non me ne fregava niente dei palestinesi, ma non ho demolito il campo di mia iniziativa. Eseguivo gli ordini. Molte persone erano all’interno delle case che cercavamo di demolire. Non ho visto, con i miei occhi, persone morire sotto la lama del D-9. E non ho visto case cadere su persone vive. Ma anche se fosse, non mi importerebbe affatto. Mi sono davvero divertito. Ricordo di aver abbattuto il muro di un edificio di quattro piani. Andavamo ai lati degli edifici, e poi pressavamo. Se il lavoro era troppo duro, chiedevamo un mezzo corazzato. Domenica, dopo la fine dei combattimenti, abbiamo ricevuto l’ordine di ritirare i nostri D-9 dall’area e di smettere di radere al suolo il campo, perché l’esercito non voleva che le telecamere e la stampa ci vedessero in azione”.
Ora il lavoro era terminato e gli stessi soldati responsabili di questo si erano ritirati fuori dal campo per riposare. Alcuni sedevano sui loro carri armati parlando tra loro; alcuni andavano in giro, con le armi a tracolla. Altri si rilassavano stesi sull’erba, guardando la sfilata di auto e camion che entravano e uscivano. Un gruppo di soldati era seduto su una panchina a mangiare un gelato.
Continuò a mancare acqua, cibo ed elettricità per gli abitanti del campo, semplicemente perché il campo non esisteva più. Era stato raso al suolo; distrutto, irriconoscibile. Alcune case vuote, con le finestre e le porte annerite e divelte, si ergevano ancora, come un’istantanea dello shock. Più di tredicimila persone fuggirono dal campo in preda al terrore, diventando profughi tra i profughi. Mariti, padri, figli e fratelli sono scomparsi, lasciando i familiari senza idea di come trovarli. Alla fine di quel primo giorno, poco prima del tramonto, una baracca di legno ai margini del campo esplose e prese fuoco.
Non c’era mai stato un appello a spedire equipaggiamenti e armi per aiutare la resistenza, e nessun’altra prova che si trattasse di resistenza. Non c’era alcun riconoscimento nei principali media della superiorità delle forze d’attacco o delle loro violazioni del diritto internazionale. Il Segretario di Stato americano Colin Powell impiegò quasi una settimana per arrivare in Israele, affermando che la sua missione di mediare un cessate il fuoco non era “per nulla compromessa” mentre la battaglia a Jenin continuava. In una dichiarazione congiunta del “Quartetto” mediorientale (Colin Powell, il Segretario Generale delle Nazioni Unite Kofi Annan, il capo della politica dell’Unione Europea Javier Solana e il Ministro degli Esteri russo Igor Ivanov), al Primo Ministro israeliano Sharon fu chiesto di “ritirarsi dalle aree palestinesi” e al leader palestinese, Yasser Arafat, di “tenere a freno il terrorismo”. “Il terrorismo, compresi gli attentati suicidi, è illegale e immorale”, afferma la dichiarazione e Israele “deve rispettare pienamente i principi umanitari internazionali e consentire l’accesso completo e senza ostacoli alle organizzazioni e ai servizi umanitari”. La dichiarazione fu ovviamente ignorata.
Ariel Sharon insistette sul fatto che sarebbe stato un “tragico errore” per Powell incontrare Yasser Arafat e affermò che “l’operazione” era per “autodifesa”, sebbene all’interno del campo un combattente palestinese avesse informato telefonicamente un leader della resistenza che erano rimasti senza munizioni.
“Spero che il nostro grande amico, gli Stati Uniti, capisca che questa è una guerra per la nostra sopravvivenza: è nostro diritto difendere i nostri cittadini e non ci dovrebbero essere pressioni per non farlo”, ha detto Sharon ai giornalisti durante la sua visita ad un posto di comando dell’esercito che domina il campo profughi di Jenin, dove questa settimana le truppe israeliane hanno combattuto contro palestinesi armati.
Gli Stati Uniti annunciarono che avrebbero posto il veto a qualsiasi risoluzione del Consiglio di Sicurezza che condannasse le azioni di Israele.
Dopo l’assedio, non c’erano Lester Holts o Anderson Coopers a Jenin per raccontare al mondo cosa era successo, intervistare i sopravvissuti che avevano perso tutto nei combattimenti, filmare le loro lacrime, raccontare le loro storie in prima persona con una troupe televisiva e traduttori al seguito. Non c’erano immagini di madri che portavano i loro bambini o donne anziane che piangevano perché avevano perso i loro figli, le loro case, i loro vicini; CNN, MSNBC, ABC e gli altri giganti dei media statunitensi non stavano filmando persone riparate nei bunker sotterranei per proteggersi (sebbene in realtà non esistessero bunker o rifugi di alcun tipo). Non ci furono analisti militari a cui fu stato chiesto di parlare in TV, o ministri degli esteri che promettessero ospitalità se i rifugiati fossero fuggiti nelle loro nazioni; nessuna promessa che sarebbero stati accolti “a braccia aperte, senza fare domande”. Non c’erano esperti politici in grado di valutare le circostanze o indovinare cosa sarebbe successo dopo.
I giornalisti occidentali non registrarono voci di uomini rimasti a combattere perché quella era la loro terra. Le organizzazioni umanitarie non poterono inviare pacchetti di aiuti umanitari nel campo per aiutare gli abitanti a sopravvivere sotto assedio. Non c’erano telecamere dentro l’ospedale per filmare persone con ferite da schegge o bende intorno alla testa e agli arti; nessun filmato di edifici bombardati e demoliti con i bulldozer e nessun commentatore che trattenesse la commozione. Non c’erano immagini di bambini aggrappati alla madre o di persone che portavano via i loro amati animali domestici per tenerli al sicuro.
Al contrario, c’era solidarietà con gli israeliani. Questa incredibile assurdità prevalse quando i conglomerati dei media sbarcaronoinvece a Gerusalemme e Tel Aviv per stringere la mano agli autori, giurando solidarietà agli occupanti e garantendo maggiori aiuti militari. Immaginate questi stessi attori che atterrano a Mosca per una conclusione del conflitto. I residenti di Jenin sono stati ignorati. Quando finalmente me ne andai il pomeriggio del 20 aprile 2002, ricordo di aver guardato indietro ai cumuli di macerie. Su un cumulo di cemento frantumato, qualcuno aveva piantato la bandiera nera della Jihad islamica.
Jenin è stata dimenticata. È stato 20 anni fa dopo tutto. Perché ricordarlo, quando da allora ci sono state operazioni molto più orribili in Palestina, in particolare a Gaza: l’Operazione Piombo Fuso, Operazione Pioggia Estiva, Operazione Autunno Nuvoloso, Operazione Inverno Caldo, Operazione Pilastro di Difesa, Operazione Margine di Protezione, Operazione Guardiano delle Mura (appena un anno fa, a maggio 2021), solo per citarne alcune. È diventato più difficile per i media, se non impossibile, entrare, e il 15 maggio 2021 un attacco aereo israeliano abbattè la Torre Jala’a, sede di numerose agenzie di media straniere tra cui l’Associated Press e Al-Jazeera, sostenendo senza prove che ospitasse una stazione di disturbo di Hamas. Ciò rese quasi impossibile per i media dall’interno della Striscia di Gaza raggiungere il mondo esterno. Dopo l’attacco, le forze militari israeliane presentaronoun rapporto modificato al Segretario di Stato americano Tony Blinken, il quale riferì che l’attacco era stato “necessario”.
Mentre le scene della guerra in Ucraina pervadono i salotti in ogni Paese, e la morte, la distruzione e la sofferenza umana vengono denunciate da una costa all’altra, le guerre e le battaglie dimenticate di altre persone richiedono il riconoscimento della sofferenza, della morte e dello sfollamento che hanno causato. Molti di questi anniversari non vengono ricordati se non da coloro che li hanno vissuti, ossessionati da immagini deliberatamente sepolte e negate. L’indignazione per l’ipocrisia delle nazioni occidentali che rendono omaggio all’Ucraina, illuminando le loro città con il blu e il giallo della bandiera ucraina e proiettando le immagini del Presidente ucraino Volodymyr Zelensky, tra le altre cose, sarebbe mitigata, soprattutto, da un riconoscimento degli Stati Uniti del sostegno ai propri crimini.
Commemorare tali eventi è quindi diventato molto più necessario: come in molti casi, la resistenza inizia con la memoria. Ricordare spesso provoca l’azione e può coinvolgere il malcontento popolare. Se i mezzi di informazione falliscono a causa della loro sottomissione allo Stato, diventa onere dei singoli cittadini porre rimedio; monitorando e controllando i centri di potere.
Jenin è solo un simbolo di battaglie dimenticate. L’Ucraina ci ha ricordato quanto possano essere convincenti i media, anche quando vengono utilizzati per ragioni discutibili, e come gli Stati e gli altri attori dovrebbero (o potrebbero) rispondere alle crisi umanitarie. Ricordare Jenin, o qualsiasi crimine dimenticato, è un atto di resistenza; un confronto con il nostro passato e una richiesta di cambiare il presente. È un primo passo verso l’azione popolare e la speranza per il futuro.
Jennifer Loewenstein è un’attivista indipendente per i diritti umani; giornalista indipendente e cofondatrice del progetto di gemellaggio Madison-Rafah; Direttore Associato di Studi Mediorientali e Professore Associato (in pensione) presso l’Università del Wisconsin di Madison.
Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org