La ripetuta presenza dell’arte palestinese a Venezia costituisce un valido argomento contro l’importanza dei padiglioni nazionali in una comunità artistica transnazionale
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Tessa Salomone – 21 aprile 2022
Immagine di copertina: ‘In Pursuit of Utopia #7’ di Nabil Anani, in mostra nell’ambito della mostra “Dalla Palestina con l’arte” (Museo della Palestina)
Al centro di Palazzo Mora a Venezia c’è un uliveto vero cosparso di chiavi. Ogni chiave rappresenta un palestinese sfollato durante gli sgomberi di massa del 1948 e simboleggia l’intenzione di tornare a casa. Una mappa storica della Palestina ricopre il pavimento della galleria; in alto, gli altoparlanti riproducono storie orali palestinesi unite alla musica tradizionale.
Tutto questo fa parte di una mostra dedicata all’arte palestinese. Intitolata “Dalla Palestina con l’arte”, la mostra è stata organizzata dal Palestine Museum US, un’organizzazione no-profit con sede nel Connecticut che si prefigge di far conoscere l’arte e la storia palestinese.
Nella mostra sono presenti diciannove artisti palestinesi, un mix di artisti attualmente residenti in Palestina e altri che fanno parte della sua diaspora, così come artisti affermati ed altri emergenti. L’esposizione vuole mostrare “la bellezza duratura della Palestina” e mira ad aiutare gli artisti a guadagnare “il loro meritato posto nell’arena artistica globale”, ha affermato Nancy Nesvat, curatrice capo del museo.
Tra gli artisti famosi ci sono Samia Halaby, una pittrice astratta, attivista e studiosa di Gerusalemme, e Nabil Anan, nato a Latroun, pittore, ceramista e scultore di spicco considerato un pioniere dell’arte palestinese contemporanea.
“Questa mostra ci offre una grande opportunità per realizzare la nostra missione di celebrare e mostrare l’eccellenza artistica palestinese e raccontare la storia palestinese a un pubblico globale attraverso le arti”, ha dichiarato Faisal Saleh, l’uomo d’affari che nel 2018 ha fondato il Palestine Museum US.
Il museo rimane l’unica istituzione negli Stati Uniti dedicata esclusivamente alla conservazione dell’arte e della cultura palestinese. Esso mantiene un programma “non politico” di conferenze, proiezioni di film e laboratori di creazione artistica. Mostre recenti hanno incluso una mostra di lavori di donne palestinesi contemporanee e un’indagine multimediale su artisti e artiste sia storici e storiche che viventi, comprese le sculture di Muhammed Al Haj, i ritratti di Jacqueline Bejani e i paesaggi della Palestina di Nahla Asia.
La Biennale di quest’anno segna la presenza della mostra inaugurale del museo al prestigioso festival internazionale d’arte, dove oltre alla mostra principale, numerosi paesi organizzano esposizioni nei propri padiglioni nazionali
A causa della contesa statualità della Palestina da parte dell’Occidente (solo 138 dei 193 membri delle Nazioni Unite riconoscono il paese), in passato gli organizzatori si sono dovuti cimentare su come presentare esattamente l’arte palestinese durante la Biennale. Nei suoi 127 anni di storia, l’evento non ha mai avuto un padiglione nazionale ufficiale per la Palestina. (Altri territori senza padiglioni nazionali che organizzano eventi collaterali ufficiali durante la Biennale includono, quest’anno, Hong Kong, Scozia e Taiwan.)
Nel 2002 il curatore Francesco Bonami, direttore artistico per l’edizione 2003, suggerì al consiglio della Biennale di considerare l’aggiunta di un Padiglione Palestinese nell’edizione successiva . L’idea ebbe vita breve: la mattina dopo un feroce articolo su “Il Gazzettino”, un importante quotidiano di Venezia, accusava Bonami di corteggiare l’antisemitismo. Bonami scelse allora di includere un’installazione intitolata “Stateless Nation”, che comprendeva immagini su larga scala di passaporti, progettata dall’architetta palestinese Sandi Hilal e dal marito italiano, Alessandro Petti.
Nel 2007, Emily Jacir fu l’unica artista araba a ricevere il Leone d’Oro, il riconoscimento più importante assegnato a un singolo partecipante, per la sua installazione “Material for a Film”, in onore della vita del poeta e traduttore palestinese Wael Zuaiter, ucciso nel 1972 vicino al suo appartamento a Roma da agenti del Mossad nell’ambito di una serie di omicidi compiuti da agenti israeliani verso artisti, intellettuali e diplomatici palestinesi.
Contro Zuaiter furono sparati tredici proiettili, l’ultimo dei quali perforò il libro che aveva con sè, Le Mille e una notte, e si conficcò nella sua spina dorsale. Prima di essere ucciso, Zuaiter stava lavorando alla traduzione del libro; “a tutt’oggi non esiste una traduzione italiana dall’arabo”, ha scritto Jacir presentando l’installazione, che comprendeva una copia del libro. Nella loro motivazione, i giurati scrissero di “Material for a film”: “Senza ricorrere all’esotismo, l’opera esposta nel Padiglione centrale ai Giardini stabilisce e amplia un incrocio tra cinema, documentazione d’archivio, narrativa e suono”.
L’anno successivo Jacir, che gestisce il Dar Yusuf Nasri Jacir for Art and Research, a Betlemme, vinse il prestigioso Premio Hugo Boss del Museo Guggenheim.
Nel 2009 la mostra “Palestine c/o Venezia” venne ammessa come primo evento collaterale ufficiale della Biennale sull’arte palestinese. A cura di Salwa Mikdadi, rifletteva sulla dura realtà dei palestinesi che vivono sotto l’occupazione israeliana, o “impermanenza cronica, una condizione che i palestinesi superano con resistenza creativa mentre rivendicano il loro posto come professionisti dell’arte liberi dall’essenzialismo politico che definisce la rappresentazione mediatica del loro estetica”, come riportava il catalogo della mostra.
La ripetuta presenza dell’arte palestinese a Venezia costituisce un valido argomento contro l’importanza dei padiglioni nazionali in una comunità artistica transnazionale. Nel 2019, Larissa Sansour rappresentò la Palestina nel Padiglione della Danimarca con il film “In Vitro”, una visione in bianco e nero dell’apocalisse climatica ambientata a Betlemme. L’anno scorso, gli architetti Elias e Yousef Anastas, co-fondatori dello studio di architettura Aau Anastas, hanno presentato alla Biennale di Architettura di Venezia il loro lavoro “All Purpose”, un padiglione il cui tetto a volta era in pietra calcarea palestinese.
“Dalla Palestina con l’arte” presenta un’ampia varietà di arte espressa con vari mezzi. Sana Farah Bishara, residente ad Haifa, presenta sculture in bronzo di figure astratte simili a quelle installate in spazi pubblici in tutta la Palestina. Rania Matar, Guggenheim Fellow del 2018, presenta fotografie che esplorano il suo interesse per l’intersezione di identità, individualità e genere in Medio Oriente e negli Stati Uniti, mentre Hanan Awad, con sede in Oklahoma, presenta la fotografia di strada. L’artista multidisciplinare Ibrahim Alazza utilizza spesso pietre di paragone e manufatti culturali palestinesi per indagare sulla memoria collettiva del paese.
“Gli artisti palestinesi stanno producendo opere eccellenti in condizioni difficili, compresi i bombardamenti”, ha detto recentemente Saleh al National. “Vogliamo che le opere d’arte palestinesi parlino, proprio come qualsiasi altro lavoro proveniente da altri Paesi”.
Traduzione di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali” – Invictapalestina.org