L’etica del tradimento della narrativa israeliana

Discorso di Yuri Novak, ex direttrice di Breaking the silence, alla cerimonia congiunta per i caduti israeliani e palestinesi che si è tenuta il 3 maggio.
Copertina: Palestinesi e israeliani partecipano alla cerimonia del Memorial Day israelo-palestinese, Tel Aviv, 3 maggio 2022. (Tomer Neuberg/Flash90)

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“Questo giorno, il giorno del ricordo dei caduti, più di qualsiasi altro mi fa sentire di appartenere a questo posto. Mi fa sentire israeliana. Essere israeliana significa crescere con la sirena e con i brividi che l’accompagnano. Da bambina ti sforzi più che altro di soffocare davanti a essa una risata di imbarazzo. Ma abbastanza presto impari e, quando suona, tutto accade automaticamente: il corpo si tende, il cuore si stringe, gli occhi si chiudono per un minuto. Allora i volti, i nomi, le foto ti scorrono in testa… e con gli anni sai già esattamente come ricordarteli tutti.
Ma essere israeliana non significa solo ricordare questa morte, ma anche onorarla, attribuirvi valore, stimarla.  La storia del giorno dei caduti è, in molti sensi, la storia della nostra israelianità. Ed è anche la base e la giustificazione dell’ordine politico che ci consente la vita su questo fazzoletto di terra.
È una storia che è sempre la più personale, ma anche la più politica. Siamo nati con essa, siamo nati in essa, è sempre con noi. E con lei anche la paura. E con loro la solitudine.
La storia della nostra israelianità è una storia di sopravvivenza, di sacrificio e separazione.
È una storia di “noi e loro”, dove le linee di ripartizione sono sempre chiare: noi siamo sempre la villa nella giungla e loro sono sempre i barbari che arrivano. E loro sono così tanti, mentre noi così pochi.
La storia israeliana è la storia di una minoranza perseguitata, sempre sola nello spazio. Come una specie di antica predestinazione. Un popolo che dovrà dimorare per conto proprio.
La storia israeliana è una storia di vita nella paura.  Essere israeliana significa aver paura: di guerre, di bombe, di attentati. Aver paura degli arabi che commettono attentati. Aver paura degli arabi. Aver paura dell’arabo, aver paura delle arabicità.
E la tragicità della storia non fa che diventare più profonda e complicata. Perché la nostra risposta alla solitudine e alla paura è una vita di spada: armare sempre più giovani, costruire sempre più mura, acquistare altri aeroplani.
Nella storia d’Israele la potenza è nel mondo militare e la forza è semplicemente forza.
Oggi, la giornata dei caduti, è quella che meglio incarna questa israelianità: quella militare, quella che combatte, quella maschilista. Questo giorno è così per noi, che ogni tentativo di riformularlo, di collocare il ricordo in una narrativa diversa, persino un tentativo semplice, ingenuo, di osservare il lutto insieme – minaccia l’ordine politico e identitario israeliano.
E noi, qui, uomini e donne che cerchiamo di proporre un’esperienza di memoria diversa, veniamo etichettati come “traditori”. E a ragione.
La volontà di tradire la storia israeliana è quella che consente a questa serata di avere luogo, già da diciassette anni. Proprio in questo giorno, nel giorno più difficile per commetterlo, il tradimento – nell’accezione profonda, intrinseca, trasformativa e positiva del termine – ci consente di sederci qui insieme e sentire, accanto al dolore, anche un senso di orgoglio. Perché non si tratta di tradire noi stessi, ma solo la narrativa nella quale siamo cresciuti.
Proprio in questo giorno, nel giorno in cui la narrativa israeliana raggiunge il suo apice, noi abbiamo il dovere di ostinarci a lasciarla andare.
E anche questo è davvero solo l’inizio. Per sfuggire veramente dalla trappola dell’israelianità dovremo decidere, con coraggio, di sostenere questo tradimento anche oltre a questo giorno.
La realtà che chiede di essere riparata si estende nello spazio, nel tempo e nella coscienza. Non si trova solo oltre la Linea Verde, e non è cominciata nel 1967. E non è solo esteriore, ma ha luogo dentro di noi: nei nostri ricordi, nella lingua, nei sogni, all’interno dei confini dell’immaginazione.
Non possiamo parlare seriamente di aggiustare questa realtà, prima di essere pronti a riconoscerla e ad assumercene la responsabilità.
Proprio in questo giorno, di fronte alla morte incomprensibile, abbiamo l’opportunità di ammettere che, benché siamo tutti vittime della stessa realtà, noi, gli israeliani, siamo al potere e ci preoccupiamo di mantenerla viva.
E, benché in questo gioco sanguinoso, tutti perdiamo alla grande, c’è anche chi perde molto più degli altri. Proprio questo è il giorno in cui ammettere che l’apartheid e la separazione sono impressi nel profondo della nostra coscienza, definiscono chi siamo e limitano quello che potemmo essere.
Ammettere che nonostante desidereremmo piangere la morte israeliana e palestinese come se fossero equivalenti, semplicemente non siamo in grado di farlo. E che si può supporre che anche nella prossima guerra, esattamente come in quella precedente, quando il numero di bambini palestinesi che avremo ucciso sarà salito, come per un crudele maleficio, il dolore di nuovo svanirà. E quando qualcuno chiederà di ricordare che, nonostante tutto, si tratta di esseri umani, anch’egli verrà chiamato traditore. Ed ecco un altro tradimento di cui andare orgogliosi: il tradimento dell’indifferenza che l’israelianità ci impone.
Solo quando saremo pronte a tradire, davvero tradire, questa storia- potremmo anche cominciare a sognare nuovamente la pace.
Ma questa non sarà una pace tra uomini ricchi in giacca e cravatta che si stringono la mano a spese della gente comune che vive qui. Sarà una pace vera e giusta, una che implicherà una nuova realtà. Una corretta, aggiustata. Una realtà in cui riconosceremo il dolore che abbiamo inflitto e spartiremo nuovamente quello che abbiamo preso con la forza.
Una realtà in cui tutti gli abitanti della Terra di Israele avranno diritto a una vita piena di opportunità e libera dall’oppressione.
In questo giorno, nel giorno in cui ci sentiamo più che mai israeliani, io ci auguro che vengono anche altri giorni. Giorni in cui vivere qui, in questo luogo, come ebrea sarà una cosa molto diversa da come è ora. Che verrà un giorno in cui la sirena e il brivido che la accompagna saranno solo un lontano ricordo, di quel qualcosa di isolato e impaurito che eravamo una volta.”
Trad. Rosario Citriniti – Invictapalestina.org