Il 31 agosto, Awawdeh ha concluso il suo sciopero della fame, dopo aver raggiunto un accordo con l’amministrazione carceraria israeliana per essere rilasciato il 2 ottobre. Le sue prime parole dopo quell’accordo non sono state certo quelle di un uomo morente, ma di un leader trionfante: “Questa clamorosa vittoria si aggiunge ad una serie di grandi vittorie ottenute dall’onorevole e potente popolo di questa nazione”.
di Ramzy Baroud, 7 Settembre 2022
“Appena ho lasciato la prigione, sono andato alla tomba di Nael. È adornata con i colori della bandiera palestinese e versi del Sacro Corano. Ho detto al mio fratellino quanto lo amavo e lo apprezzavo e che, un giorno, ci saremmo incontrati di nuovo in paradiso”.
Quanto sopra fa parte di una testimonianza resami da un ex prigioniero palestinese, Jalal Lutfi Saqr. È stato pubblicato due anni fa nel volume “These Chains Will Be Broken”(queste catene verranno spezzate).
In quanto palestinese, nato e cresciuto in un campo profughi a Gaza, ho sempre avuto familiarità con il discorso politico dei prigionieri politici e tutto ciò che li riguarda. Il mio quartiere, come ogni quartiere di Gaza, è popolato da un gran numero di ex prigionieri, o famiglie i cui membri hanno subito la prigionia nel passato o nel presente.
Tuttavia, a partire dal 2016, il mio rapporto con la materia ha assunto, in mancanza di un termine migliore, un approccio più “accademico”. Da allora, e fino ad oggi, ho intervistato decine di ex detenuti e membri delle loro famiglie. Alcuni sono stati imprigionati da Israele, altri dall’Autorità Palestinese. Ho anche parlato con prigionieri che hanno sperimentato la brutalità delle carceri mediorientali, dall’Iraq, alla Siria, all’Egitto e al Libano. Alcuni particolarmente sfortunati hanno subito molteplici esperienze carcerarie e sono stati torturati da uomini che parlavano lingue diverse.
Alcuni prigionieri, ormai piuttosto anziani, furono imprigionati dall’esercito britannico, che colonizzò la Palestina tra il 1920 e il 1948. Furono trattenuti secondo i cosiddetti Regolamenti di Difesa (Emergenza) del 1945, un codice legale arbitrario che consentiva agli inglesi di detenere il maggior numero arabi palestinesi ribelli senza dover fornire una causa o impegnarsi in un giusto processo.
Questo sistema rimane in vigore fino ad oggi, poiché è stato adottato da Israele dopo la fine del mandato britannico. A seguito di lievi modifiche nel 1979 e della ridenominazione della legge in “Legge israeliana sull’autorità negli Stati di emergenza”, questa è essenzialmente la cosiddetta “Detenzione amministrativa” odierna. Consente a Israele di incarcerare i palestinesi, praticamente a tempo indeterminato, sulla base di “prove segrete” che non vengono rivelate, nemmeno all’avvocato difensore.
Queste leggi di “emergenza” rimangono in vigore, semplicemente perché i palestinesi non hanno mai smesso di resistere. Migliaia di palestinesi furono trattenuti senza prove né processo durante la Prima Intifada Palestinese, la rivolta del 1987. La maggior parte di essi fu tenuta in condizioni di vita orribili, in tendopoli nel deserto del Naqab.
Secondo la Commissione palestinese sui detenuti e gli affari degli ex detenuti, tra il 1967 e il 2021 circa un milione di palestinesi sono stati imprigionati. Attualmente, centinaia di “prigionieri amministrativi” palestinesi sono detenuti nelle carceri israeliane, un atto che viola il diritto internazionale sotto vari aspetti: detenzione di prigionieri senza processo o giusto processo, e o trasferimento di prigionieri in territori nemici, essendo quest’ultimo una chiara violazione della Quarta Convenzione di Ginevra del 1949.
Naturalmente, il rispetto del diritto internazionale non è mai stato l’abito più forte di Israele. In effetti, Israele continua a ignorare deliberatamente il diritto internazionale in numerosi aspetti della sua occupazione militare illegale della Palestina, razionalizzando tali azioni per motivi di “sicurezza”.
I palestinesi stanno anche facendo quello che sanno fare meglio, resistere, nelle circostanze più difficili e con ogni mezzo a loro disposizione. Significativamente, la forma più forte di tale resistenza si svolge all’interno delle mura della prigione, e ha l’aspetto magro e spesso moribondo dei prigionieri in sciopero della fame.
Khalil Awawdeh, un palestinese di 40 anni di un villaggio vicino ad Al-Khalil (Hebron) è l’ultimo prigioniero in sciopero della fame a fare la storia, semplicemente astenendosi dal mangiare per 180 giorni. Il suo peso è sceso a 38 chilogrammi, dopo aver perso oltre 40 chilogrammi durante lo sciopero della fame. Le immagini del suo corpo scheletrico seminudo sono state considerate “grafiche” e “offensive” per alcuni utenti dei social media e sono state rimosse non appena sono state condivise. Alla fine riusciv solo a sussurrare qualche parola. Sebbene appena udibili, erano parole pieni di coraggio.
Il 31 agosto, Awawdeh ha concluso il suo sciopero della fame, dopo aver raggiunto un accordo con l’amministrazione carceraria israeliana per essere rilasciato il 2 ottobre. Le sue prime parole dopo quell’accordo non sono state certo quelle di un uomo morente, ma di un leader trionfante: “Questa clamorosa vittoria si aggiunge ad una serie di grandi vittorie ottenute dall’onorevole e potente popolo di questa nazione”.
Queste parole, tuttavia, non sono uniche nel loro genere. Portavano con se lo stesso sentimento che mi è stato comunicato da ogni singolo prigioniero liberato che ho intervistato negli ultimi anni. Nessuno ha rimpianti, anche quelli che hanno trascorso la maggior parte della loro vita in celle oscure ammanettati; anche quelli che hanno perso i propri cari; anche coloro che hanno lasciato il carcere con malattie croniche, per morire subito dopo la loro liberazione. Il loro messaggio è sempre quello della sfida, del coraggio e della speranza.
Awawdeh non è né il primo, né l’ultimo prigioniero a subire questi scioperi della fame pericolosi per la vita. La strategia può essere spiegata, e comprensibilmente, come l’ultima risorsa o come un atto di disperazione da parte di individui rimasti senza alternative. Ma per i palestinesi si tratta di atti di resistenza che dimostrano il potere del popolo palestinese: anche in prigione, ammanettato a un letto d’ospedale, negato ogni diritto umano fondamentale, un palestinese può combattere e vincere. Awawdeh l’ha fatto.
Quando Jalal Lutfi Saqr ha saputo che suo fratello Nael era stato ucciso dall’esercito israeliano a Gaza, era prigioniero in Israele. Mi ha detto che la prima cosa che ha fatto quando ha saputo della morte di suo fratello è stata inginocchiarsi e pregare. Il giorno seguente, Jalal ha parlato alle persone in lutto nel suo campo profughi di Gaza usando un cellulare di contrabbando dicendo loro: “La nostra è una marcia lunga e dolorosa per la libertà.
“Alcuni di noi sono in prigione; altri sono clandestini, ma non cesseremo mai la nostra lotta per il nostro popolo. Dobbiamo rimanere impegnati nell’eredità dei nostri antenati e dei nostri martiri. Siamo tutti fratelli, nel sangue, nella lotta e nella fede, quindi rimaniamo uniti come un solo popolo, come fratelli e sorelle, e andiamo avanti, nonostante le pesanti perdite e gli enormi sacrifici”.
L’appello di Jalal al suo popolo risale a vent’anni fa. Rimane rilevante oggi, come lo era allora.
Ramzy Baroud è un giornalista e redattore di The Palestine Chronicle. È autore di sei libri. Il suo ultimo libro, curato insieme a Ilan Pappé, è “La nostra visione per la liberazione: i leader palestinesi coinvolti e gli intellettuali parlano”. Il Dr. Baroud è un ricercatore senior non residente presso il Center for Islam and Global Affairs (CIGA). Il suo sito web è www.ramzybaroud.net