Per 35 anni, ABCD, Action Around Bethlehem Children with Disability (Azione Rivolta ai Bambini Disabili di Betlemme) ha lavorato duramente per migliorare la vita dei palestinesi nati con disabilità in Cisgiordania. Ma ci è voluto più della semplice riabilitazione, poiché cercano di rieducare la società.
Di Shatha Khalil – 14 settembre 2022
La vita sotto la brutale occupazione israeliana del popolo palestinese in Cisgiordania è soffocante, ma per alcuni la mancanza di infrastrutture adeguate e le barriere architettoniche significano una vita limitata alla casa.
Secondo i dati del 2017 pubblicati dall’Ufficio Centrale di Statistica Palestinese, il 2,1% della popolazione palestinese ha una disabilità, pari a quasi 44.500 persone nella Cisgiordania occupata.
A seguito delle numerose incursioni israeliane nel territorio occupato, della Battaglia della Spada di Gerusalemme del 2021 e del tasso di natalità naturale, il numero dovrebbe essere significativamente più alto oggi.
ABCD opera in Cisgiordania da oltre 35 anni per aiutare i nati con disabilità a integrarsi nella società.
Ma, con una comunità che soffre anno dopo anno una povertà sempre maggiore e un’occupazione che sta stringendo la presa sulla loro terra, questo non è un compito facile.
Oggi ABCD sta lavorando a stretto contatto con collaboratori locali in quattro campi profughi, aiutando a creare centri per sostenere questi bambini e l’intera famiglia.
“Non voglio sembrare duro, ma i bambini disabili vengono trascurati. Non esiste un sistema centrale che li sostenga. Un bambino ha bisogno di una madre da abbracciare, di qualcuno a cui stare vicino, in modo che possa avere quel conforto, quel sostegno, quell’integrità come individuo”, dice Firas Sarhan, vicedirettore e responsabile di progetto di ABCD in Cisgiordania.
Povertà, tagli al bilancio dell’UNRWA e assenza di un sistema sanitario centrale significano che la cura dei bambini è “basata sull’aiuto di organizzazioni esterne come l’ABCD per migliorare la situazione di quel bambino”, continua.
L’ente di beneficenza lavora a fianco dell’UNRWA insieme ai collaboratori locali su un sistema di riferimento, aiutando i bambini con disabilità attraverso terapisti professionisti e offrendo adattamenti domestici, installando rampe, sedie per la doccia, fornendo sedie a rotelle e altre attrezzature che potrebbero consentire loro di diventare un po’ più indipendenti.
“Prima dell’ABCD non avevano nulla, trasportavano i loro figli o usavano carrozzine inadeguate”, spiega Sarhan. “Ora stiamo fornendo loro sedie a rotelle adeguatamente progettate e istruendoli su come manovrarle”.
“La grossa fetta dei nostri beneficiari sono bambini con paralisi cerebrale, ma anche molti bambini con disturbi genetici, alcuni dei quali sono legati al matrimonio interfamiliare, causando disabilità sia fisiche che cognitive”, afferma Sarhan.
“Ci sono anche altre disabilità legate al conflitto; bambini con ferite da arma da fuoco ecc., ma il 99,9% dei nostri bambini nasce con disabilità”.
Uno degli ostacoli che l’ente di beneficenza ha dovuto affrontare è stato la mentalità delle persone per quanto riguarda la disabilità, con alcune famiglie che tengono i parenti disabili in casa “perché non vogliono che il loro stato familiare venga influenzato, o le loro future possibilità matrimoniali, il che avrà un enorme impatto sociale sulla famiglia, ecco perché ci stiamo impegnando a fondo con loro per cambiare questa situazione”, spiega Sarhan.
“Siamo riusciti a far superare con successo il complesso dell’avere una sedia a rotelle per strada o in casa o avere un figlio disabile in famiglia. Il modo in cui lo abbiamo fatto è attraverso il lavoro congiunto con i nostri collaboratori locali e con i genitori per aiutare a capire che la disabilità non è una punizione, non è una cosa di cui vergognarsi e non è qualcosa che snatura come famiglia o individuo, è la volontà di Dio”.
Oltre a contribuire a cambiare mentalità delle persone, ABCD ha lavorato per modificare il modo in cui viene offerta la riabilitazione ai bambini. “Era un approccio generale alla riabilitazione, non era un approccio multispecialistico”, afferma Sarhan. “Una stanza singola con un fisioterapista e due volontari che gestiscono il centro”.
ABCD ha introdotto un centro di riabilitazione completo in cui il bambino dovrebbe venire, ad esempio, per vedere un fisioterapista, per essere rivisto, avere un incontro come una squadra in cui si può decidere e pianificare il percorso di quel bambino, come il bambino recupererà e come verrà migliorata la sua situazione.
“Questi centri sono un rifugio sicuro per questi bambini e le loro famiglie, si sentono supportate e connesse con gli altri. Creano una forte sinergia tra loro”, aggiunge Sarhan.
Sarhan, un palestinese nato nel campo profughi di Jalazone in Cisgiordania vicino a Ramallah e arrivato nel Regno Unito nel 1988, afferma che il suo lavoro nella sanità pubblica come specialista in lesioni del midollo spinale e riabilitazione lo ha influenzato professionalmente e personalmente a sviluppare concretamente i centri con cui si stanno impegnando in Cisgiordania.
“Sto applicando le mie conoscenze e competenze per sviluppare centri adatti allo scopo e alla pratica per supportare queste persone”, dice.
“Sto guardando quello che hanno qui in termini di equipaggiamento e strutture, per trasferire l’occorrente sul posto. Stiamo riuscendo con successo a fornire camere e strutture davvero ben attrezzate per supportare questi bambini”.
Sebbene i centri stiano migliorando e passando da stanze di trattamento singole a edifici completi con una serie di stanze e maggiori terapie offerte, le condizioni di vita dei palestinesi nei campi non si sono automaticamente evolute.
“I campi sono sovraffollati, mancano delle strutture principali e le infrastrutture. D’altronde, questi campi sono stati istituiti nel 1948-1949 e sono stati previsti per ospitare 800-1.000 persone che ora in 75 anni sono arrivate a 15.000 nello stesso spazio vitale”.
“I campi non hanno la possibilità di espandersi, questo di per sé è un fattore soffocante. Come muovo un passo, trovo un impedimento. Come può migliorare la situazione?”
Nonostante questo e i problemi psicologici che spesso derivano dalle dure condizioni di vita, Sarhan afferma che la comunità è coesa.
“La vita nel campo, nonostante le condizioni e la povertà, è una gioia. È un vivere in armonia. Sì, è straziante ascoltare le storie di altre persone, ma io vedo il campo come un unico corpo; se qualcuno ha un problema, tutti aiutano. Le persone sono unite e si sostengono a vicenda. Le persone desiderano sempre il bene per gli altri; c’è una semplicità di vita”.
Shatha Khalil è una giornalista indipendente che si occupa di Medio Oriente. I suoi articoli sono stati pubblicati da Al Jazeera, Gulf News, dal quotidiano Star in Giordania e da numerosi organi di informazione globali e regionali.
Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org