“L’umanità non può sopportare molto la realtà.” – Thomas Stearns Eliot, da Four Quartets
Di Sam Bahour – 20 settembre 2022
Immagine di copertina: Poster dell’artista Franz Krausz (editore: Associazione per lo sviluppo turistico della Palestina, 1936). Fonte: Biblioteca del Congresso, Divisione stampe e fotografie. (Un articolo del 2015 su questo poster di Rochelle Davis e Dan Walsh è stato pubblicato dall’Institute for Palestine Studies)
È in corso un’accesa discussione sull’etica, il beneficio e il valore di recarsi in Palestina per testimoniare in prima persona ciò che i palestinesi stanno affrontando nel contesto della prolungata occupazione militare israeliana. Supponendo che questi visitatori abbiano buone intenzioni e vogliano vedere l’occupazione militare di Israele per quello che è, quello che ottengono nel migliore dei casi è un breve assaggio della realtà attuale dei palestinesi. Non si avvicineranno all’apprendimento approfondito della piena esperienza vissuta dai palestinesi, per non parlare dell’acquisizione di una comprensione completa della narrativa palestinese.
Con la forza o in altri modi nel corso di diverse generazioni, Israele è riuscito oltre le più rosee aspettative dei suoi fondatori e alla luce del sole a frammentare la comunità palestinese geograficamente, socialmente, economicamente e politicamente. Per un coinvolgimento autentico con la narrativa palestinese, bisognerebbe visitare anche Israele, Libano, Giordania, Siria, Iraq, Kuwait, Danimarca, Germania, Stati Uniti, Regno Unito, Canada, Cile, Brasile e Venezuela, per citare solo alcuni. I visitatori dovrebbero anche trascorrere del tempo visitando le prigioni israeliane per incontrare alcuni di un numero sempre crescente di prigionieri politici palestinesi detenuti, centinaia senza accusa, e alcuni per 10, 20, 30 anni o più.
Una piena comprensione di ciò che i palestinesi hanno dovuto affrontare dalla fondazione di Israele e di ciò che stanno affrontando oggi in ciascuno dei loro frammentati luoghi di esistenza sarebbe mentalmente ed emotivamente insopportabile per le comuni persone. Infatti, una piena comprensione di ciò che devono affrontare è anche più di ciò che la maggior parte dell’odierna generazione traumatizzata di palestinesi è disposta a discutere consapevolmente mentre si sforzano in qualche modo di ritagliarsi una vita che abbia un senso in una realtà crudele e umiliante.
“Turismo etico” nell’Apartheid
Questo dibattito sul “turismo etico” in Palestina e Israele è più evidente nelle comunità ebraiche di tutto il mondo e, in particolare, nelle comunità ebraiche americane. L’editorialista, giornalista e commentatore politico americano Peter Beinart mi ha recentemente ospitato in un incontro su questo argomento: L’etica dei viaggi organizzati tra il fiume e il mare.
I viaggi in Medio Oriente di gruppi di comunità ebraiche e molti altri, incluso un flusso costante di legislatori statunitensi, sono aumentati negli ultimi anni. Gli itinerari ora prevedono regolarmente una sosta in Palestina, di solito nella città di Betlemme o Ramallah dove risiedo. Si dice spesso che Ramallah abbia un’occupazione a 5 stelle come una delle città palestinesi meno colpite dall’occupazione israeliana, il che non vuol dire che Ramallah sia libera dall’occupazione. Guardando sotto l’apparenza di qualsiasi città palestinese, inclusa questa, e quello che inizialmente può sembrare una frenetica e movimentata babele mediorientale si rivelerà presto una società strutturalmente danneggiata. Questo è assolutamente il caso di tutte le località palestinesi nei Territori Occupati.
Negli ultimi 15 anni mi è stato chiesto di parlare a centinaia di questi gruppi in visita. Mentre osservo questo dibattito sul modo “etico” di visitare la Palestina, non posso fare a meno di interrogarmi sul valore di impegnarmi in questo modo fugace con le persone che sono di passaggio alla ricerca di una narrativa palestinese.
La stragrande maggioranza delle persone con cui ho avuto rapporti cerca sinceramente di ampliare il proprio orizzonte su Palestina e Israele. E in effetti, ciò che apprendono nel parlare con palestinesi di diversi ceti sociali e nel vedere brevemente un frammento della realtà sul campo, che si tratti degli estesi insediamenti, del muro di separazione o degli invadenti punti di controllo militari, amplierà sicuramente la loro conoscenza. Alcuni sono anche spinti ad agire, e sono questi visitatori che fanno valere la pena parlare ai gruppi.
All’altra estremità dello spettro ci sono quelli che vengono solo per aggiungere comprovabilità e credito alle loro convinzioni pregiudiziali che qualunque cosa faccia Israele deve essere per una buona ragione: Non importa quanto brutta sia la realtà, ci deve essere qualche giustificazione anche per i crimini di Apartheid e persecuzione di massa. Per tali visitatori, la premessa razzista di fondo è che i palestinesi sono violenti e Israele è giustificato nel proteggersi ad ogni costo. Al diavolo il diritto internazionale e i diritti umani.
L’edizione inglese del quotidiano israeliano Haaretz ha recentemente pubblicato un articolo intitolato: “Perché un’organizzazione universitaria pro-Israele sta portando studenti ebrei a Ramallah”, di Judy Maltz (25 agosto 2022). Due degli studenti visitatori che ha intervistato hanno espresso l’opinione che il loro unico viaggio li abbia illuminati.
Jordan Robinson, un partecipante di 21 anni che ha recentemente iniziato i suoi studi universitari presso l’Università Statale Wayne di Detroit, ha affermato che l’esperienza non ha davvero cambiato le sue opinioni su Israele e sul conflitto. “Ma ora mi sento più a mio agio nell’essere un attivista nel plesso universitario”, ha detto. “Ora ho più informazioni ed esperienze da cui posso attingere in modo da poter affrontare le discussioni sentendomi sicuro perché ho visto come sono le cose in prima persona”, ha aggiunto.
O come dice Rachel Cusnir, una studentessa del secondo anno di 19 anni all’Università del Michigan: “Mi ha dato la legittimità di dire: ‘Sì, ho visto cosa succede lì'”.
Questi studenti credono che dopo un viaggio, dopo essersi magari confrontati con alcuni palestinesi per alcune ore, siano stati testimoni di “cosa succede” qui. Purtroppo, la loro esposizione è stata così frammentaria e inadeguata che a tutti gli effetti rimangono all’oscuro, anche se certamente li applaudo per aver attraversato il baratro e aver tentato di capire.
Ovunque possa finire questo dibattito sul modo etico di visitare la Palestina, un contesto migliorerebbe considerevolmente il livello della discussione. A nessun visitatore che viene in Palestina, una sola volta, dovrebbe essere permesso di illudersi di aver sperimentato appieno la narrativa palestinese, o anche solo di aver compreso completamente l’esperienza vissuta di quei palestinesi che vivevano sotto l’occupazione israeliana.
Cosa manca all’esperienza dei visitatori
Espropriazione. In questo spazio limitato, non posso minimamente trasmettere adeguatamente il senso delle profonde ferite che rimangono non rimarginate in tutte le comunità palestinesi, indipendentemente da dove risiedano, risultanti dall’esperienza di espropriazione dalla loro casa e dalla loro Patria. Sebbene il numero di palestinesi ancora in vita che hanno assistito in prima persona a questo esproprio stia diminuendo, la coscienza collettiva dell’espropriazione sopravvive. È stato trasmesso di generazione in generazione dalle storie raccontate, alcune documentate ma la maggior parte no, e dalle generazioni più giovani che mettono in discussione le loro attuali condizioni di vita. È difficile dimenticare quando l’espropriazione continua. Immaginate di essere sradicati dalla vostra casa e di non poter tornare mai più. Immaginate che la vostra casa venga demolita. È allo stesso tempo così semplice da capire e troppo complicato da spiegare in tutte le sue implicazioni. Quando un bambino palestinese risponde alla domanda: “Da dove vieni?”, dicendo Haifa, anche se non ha mai messo piede ad Haifa ed è nato e vive in un campo profughi della Cisgiordania, sì può iniziare a vedere la profondità di queste ferite e il potere della memoria collettiva: trauma, vissuto ed ereditato. La scienza lo chiama trauma transgenerazionale.
Gaza. La stragrande maggioranza dei visitatori provenienti dall’estero, come la maggior parte dei palestinesi che vivono in Cisgiordania, non arriverà mai nella Striscia di Gaza, perché Israele controlla l’ingresso e l’uscita. Politica interna palestinese a parte, la Striscia di Gaza è un inferno. Immaginate di essere un palestinese di 15 anni e di non aver mai vissuto un giorno e una notte interi senza interruzioni dell’energia elettrica, per non parlare di aver vissuto quattro assalti militari israeliani durante l’adolescenza. Con oltre 2,1 milioni di palestinesi che risiedono su una superficie di circa 365 chilometri quadrati, Gaza è una delle aree più densamente popolate del mondo; metà della popolazione ha meno di 18 anni; il 67% sono profughi; e oltre il 70% della popolazione di Gaza fa affidamento sugli aiuti umanitari per soddisfare i bisogni primari. A parte tutti questi numeri, l’elemento invisibile a Gaza è il singolo essere umano. Immaginate di essere nati in questa realtà senza via d’uscita e di essere continuamente sotto i bombardamenti e il fuoco dei cecchini israeliani. Il continuo trauma di Gaza è qualcosa di cui la maggior parte degli israeliani dovrebbe essere attivamente preoccupata, ma fanno di tutto per dimenticarlo.
Profughi. Se i visitatori sono fortunati, il loro itinerario includerà visite ai campi profughi. Tali visite di solito avvengono nei campi più accessibili, come il campo profughi di Dheisheh situato fuori dalla strada principale appena a Sud di Betlemme, in Cisgiordania. Per quanto istruttiva sia la visita, i campi profughi della Cisgiordania sono gradualmente diventati aree edificate e i non informati possono vederli come semplici quartieri, baraccopoli, come quelle delle città in cui ancora esistono. Tuttavia, questi campi sono squallidi e oppressi e parlare con i suoi residenti inaugurerà un lungo viaggio di comprensione di cosa significhi essere un eterno profugo. E non importa quanto sia intensa l’esperienza, niente può essere paragonato alla vita nei campi profughi in Libano, dove vita e morte si equivalevano tristemente tanto tempo fa. Come se l’espropriazione originale non fosse già abbastanza grave, vedersi negare altre opzioni e costretti a vivere come profughi per decenni o nascere come profughi è un destino che rimarrà sostanzialmente opaco per la maggior parte degli estranei, anche dopo una vita di osservazione e studio. Non dovrebbe sorprendere che molti residenti del campo per far fronte a tutto questo si siano rivolti all’abuso di sostanze e ai trafficanti di esseri umani come via d’uscita.
Perdita. Per i palestinesi, il peso emotivo della perdita della propria casa e della propria terra è pari solo alla perdita dei propri cari. Affrontare tale lutto, in particolare la perdita di bambini, impone un formidabile tributo a tutti coloro che sono rimasti indietro per raccogliere i pezzi della loro vita. Immaginate di essere un adolescente e di tornare nella vostra classe per trovare le sedie vuote dei vostri compagni di classe che non torneranno mai più. Israele ha portato sempre più l’inflizione della perdita a un nuovo livello: le autorità israeliane detengono i corpi dei palestinesi che hanno ucciso, come merce di scambio: oltre 270 secondo l’ultimo conteggio. Sì, la necropolitica e la necroviolenza sono praticate “dall’unica democrazia in Medio Oriente”. Immaginate di perdere una madre o un padre nel pieno della loro vita. Immaginate il corpo della persona amata sequestrato da coloro che l’hanno ucciso. Immaginate tali perdite nella vostra stessa famiglia, non una volta nella vita, ma più e più volte, temendo ogni giorno per la vostra stessa vita. Chi visita la Palestina vedrà palestinesi allegri e sorridenti ovunque vada: persone che non portano il loro lutto al braccio, ma sicuramente lo portano con sé in altri modi, per lo più invisibili a un visitatore. Tuttavia, devono affrontare danni permanenti durante ogni ora di ogni giorno, mentre tentano di andare avanti. Sempre più persone non sono in grado di farcela e vediamo i risultati in termini di problemi di salute mentale, tossicodipendenza, abuso di alcol, violenza domestica e molto altro ancora.
Restrizioni di viaggio. I visitatori stranieri devono entrare nell’odierna Palestina attraverso i punti di ingresso controllati da Israele, di solito l’aeroporto Ben Gurion vicino a Tel Aviv. Per molti, specialmente per la maggior parte degli ebrei, l’ingresso è tranquillo. Per molti altri, invece, soprattutto se vengono profilati come “non bianchi” e, Dio non voglia, solidali con i palestinesi, l’ingresso può essere una sfida. Non di rado a queste persone viene negato l’ingresso e rimpatriate. I visitatori ammessi in Israele e Palestina generalmente viaggiano tra il fiume e il mare, Gaza esclusa, con poche complicazioni. Visitano liberamente i palestinesi che possono solo sognare di viaggiare liberamente nella propria Patria. I visitatori generalmente non vedono, o intravedono solo parzialmente, cosa significa vivere in una prigione a cielo aperto, essere sotto sorveglianza militare 24 ore su 24, 7 giorni su 7, aver bisogno di passare attraverso posti di blocco armati di mitragliatrici puntate contro per viaggiare da un punto all’altro del territorio occupato; non essere in grado di viaggiare da e verso Gaza o Gerusalemme; dover vivere l’umiliazione di lasciare il Paese solo attraverso la Giordania, attraverso il famigerato ponte di Allenby. Non è facile fotografare un labirinto orwelliano quasi perfezionato dell’infrastruttura di controllo israeliana della popolazione palestinese: comprende documenti d’identità, permessi, posti di blocco, droni e una serie di drastiche restrizioni. Vedere come tutto questo influisca su chi lo vive giorno dopo giorno è difficile da esprimere a parole, anche supponendo di averlo visto accadere durante la visita e di averne compreso appieno il funzionamento. Per avere un piccolo assaggio di com’è la vita per i palestinesi, i turisti dovrebbero attraversare i posti di blocco di Qalandiya, Ramallah e Betlemme e spostarsi tra le aree H1 e H2 a Hebron.
Detenzione amministrativa. Questa è una pratica usata attivamente da Israele per soffocare l’attivismo contro l’occupazione e incutere paura nel cuore di un’intera popolazione. Su entrambi i fronti, è una strategia perdente. Un esempio calzante: l’anno scorso mio cugino con cittadinanza palestinese-americana Jamal Niser, un anziano di circa 80 anni, è stato arrestato e detenuto da Israele per quattro mesi. Numerosi blindati israeliani arrivarono a casa sua e una dozzina di soldati lo svegliarono nel cuore della notte e lo trascinarono via. Non è stata data alcuna considerazione al fatto che fosse diabetico e avesse perso più della metà della vista. Nessuna accusa è mai stata avanzata. Abbiamo recentemente celebrato il suo rilascio. Poi, circa un mese fa, ha ricevuto una telefonata dalle autorità di occupazione. Gli è Stato chiesto di scegliere tra recarsi alla prigione israeliana per essere interrogato o essere nuovamente prelevato dai soldati israeliani nella sua abitazione ad Al-Bireh. Jamal disse loro che non c’era bisogno di spaventare di nuovo i vicini nel cuore della notte. Si è recato volontariamente al centro di detenzione di Ofer alla periferia di Ramallah ed è stato interrogato per circa un’ora prima di tornare a casa. Pochi giorni fa sono tornati di notte nella sua abitazione. Intorno alle 4 del mattino, i soldati israeliani hanno sfondato la porta d’ingresso di casa sua e sono saliti al piano di sopra per trovare lui e sua moglie a letto. Jamal è stato portato via su di un blindato e 3 giorni dopo gli sono stati assegnati altri quattro mesi di detenzione amministrativa. Ancora una volta, nessun addebito. L’uomo ha quasi 80 anni, non dimentichiamolo. A questa realtà kafkiana si aggiungono questi altri fatti: dopo aver trascorso più di quarant’anni negli Stati Uniti, Jamal ha tentato di tornare nella sua casa in Palestina nel 1995, dopo la firma degli accordi di Oslo. Gli è stato negato l’ingresso da Israele ed è tornato negli USA. Tentò di tornare a casa qualche anno dopo e fu in grado di entrare e successivamente ottenne la residenza in Cisgiordania. Poi nel 2012, mentre stava partendo per uno dei suoi frequenti viaggi negli Stati Uniti per supervisionare le sue attività, gli è stato negato l’uscita dalla Cisgiordania. Diversi avvocati non sono stati in grado di aiutarlo. Poi sono arrivati questi arresti e le detenzioni amministrative. Ora prendete questo caso e moltiplicatelo per 1.000 se volete iniziare a farvi un’idea di ciò che i palestinesi affrontano ogni singola notte. Pensate alle famiglie che devono raccogliere i cocci la mattina seguente. Immaginate di essere un bambino e di vivere l’esperienza di una dozzina di soldati pesantemente armati che fanno irruzione nella vostra casa di notte e trascinano via con forza vostro padre, madre, fratello, sorella o persino nonno.
Potrei andare avanti all’infinito, ma il punto è stato fatto. La narrativa palestinese include tutto quanto sopra e molto altro ancora. Anche se una persona che visita la Palestina è esposta a queste tematiche, sentirle e comprenderle come un’esperienza vissuta richiede molto più di qualche viaggio in un unico luogo, per non parlare di un singolo viaggio.
Benvenuti in Palestina
Eppure, nonostante tutto questo e molto altro, vi diamo il benvenuto in Palestina.
Faremo del nostro meglio per farvi sperimentare la nostra generosità, vedere la bellissima terra che è al centro dell’attacco contro di noi e assaggiare i nostri cibi tradizionali di cui Israele si sta gradualmente appropriando come suoi, una massiccia rapina culturale come ce ne sono poche. Incontrerete persone straordinarie che continuano a sorridere e sperare che l’inferno in cui si svegliano ogni mattina un giorno lascerà il posto a qualcosa di più normale.
Mentre sarete qui, incontrerete al massimo una manciata di palestinesi. Alcuni metteranno ciò che state vedendo nel suo contesto storico che vi farà sentire a disagio. Altri fingeranno che ci sia normalità nell’occupazione e parleranno di affari, sport o cooperazione transfrontaliera come se “volerlo” fosse sufficiente per renderlo vero.
Qualunque sia la vostra testimonianza sul vostro viaggio sarà di per sé preziosa. Per favore, non pensate per un minuto di aver compreso cosa significa essere palestinesi dopo 74 anni di espropriazione, 55 anni di occupazione militare, umiliazioni quotidiane e strangolamento economico progettati da Israele con il sostegno degli Stati Uniti.
Questo assalto frontale contro un intero popolo lascia i singoli palestinesi con tre strade da percorrere: 1) lasciare la Palestina, l’opzione preferita da Israele; 2) rassegnarsi al fatto di essere considerati inferiori e degni di nient’altro che miglioramenti marginali della propria qualità di vita sotto occupazione (questo significa accettare di lavorare in Israele come lavoratore a basso costo a beneficio dell’economia israeliana); o 3) diventare violenti, in risposta alla violenza continua e sfrenata di Israele. Quest’ultimo percorso sembra attrarre più palestinesi ultimamente, anche se ancora relativamente pochi, tra le moltitudini che hanno perso ogni speranza che la comunità internazionale, se esiste una cosa del genere, possa raccogliere la volontà politica di ritenere Israele responsabile e porre fine a questo incubo umano che li ha portati all’esasperazione.
Per quanto riguarda i palestinesi al di fuori della Palestina, Israele non li considera né offre loro alcuna via d’uscita. Questi palestinesi invisibili sono quelli che gli israeliani dovrebbero vedere nei loro incubi ed è probabile che ignorarli completamente si rivelerà il grande errore di Israele.
È davvero una fortuna che le persone non abbiano bisogno di sperimentare personalmente crudeltà e dolore per essere motivate ad agire per cambiare le cose prima che sia troppo tardi. Non è necessario che una giudice sia stata violentata lei stessa affinché uno stupratore sottoposto al suo giudizio sia condannato e punito. Non tutti abbiamo bisogno di essere vittime di violenza domestica per prendere posizione e porre fine a tale violenza. A volte, anche una piccola comprensione può fare molto. Nessuno che sta leggendo questo ha bisogno di comprendere appieno il trauma e il dolore senza fine dei palestinesi, individuale o collettivo, per decidere di agire per ritenere finalmente responsabili coloro che stanno facendo cadere i palestinesi nell’oblio.
Sam Bahour è un consulente aziendale palestinese-americano e frequente commentatore politico indipendente di Ramallah/Al-Bireh nella Palestina occupata. Scrive su ePalestine.ps. @SamBahour
Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org