Pensando all’uccisione delle ragazze in Iran

Chi avrebbe potuto prevedere che la morte di Jina (Mahsa) Amini sarebbe stata l’ultima scintilla per portare i nostri amici e parenti nelle strade? Uccisa perchè curda, perchè giovane donna.

Fonte: English version

Sahand Sahebdivani –  8 ottobre 20220

Fuori è buio. Sono le cinque e mezza del mattino.

Sono seduto sul divano del nostro soggiorno e sto pensando all’uccisione delle ragazze, cosa che devo davvero smettere di fare.

Fuori ci sono alcune luci: i lampioni familiari e in lontananza una luce tremolante che non riesco a individuare. Dal soggiorno sento il ticchettio dell’orologio che non guardo mai. Di tanto in tanto, c’è un leggero colpo di tosse di mia figlia Shahrzad, proveniente dalla nostra camera da letto, seguito dalla voce rassicurante di sua madre. Sua sorella, Salma, stanotte era tra le mie braccia, essendosi addormentata subito dopo avermi chiesto il biberon. Molto probabilmente non aveva fame, voleva solo stare con me. A mia moglie Rasha piace dire ai suoi amici che la nostra Salma abusa di suo padre. “Quando lui non è nei paraggi, si addormenta facilmente, invece quando lui è qui, ha bisogno di essere presa e portata da lui”. Beh, se è un abuso, va in entrambe le direzioni: anch’io ho bisogno del suo calore tra le mie braccia, sul mio corpo. Soprattutto in questi giorni e notti, quando ogni volta che sono sveglio navigo sui siti di social media, alla ricerca di notizie sull’Iran.

Devo smettere di pensare all’uccisione delle ragazze in Iran.

 Anche solo nella mia città puoi trovare autori di successo, membri del parlamento, direttori di festival, professori universitari, scienziati e un bel po’ di uomini d’affari. E tutti abbiamo imparato l’arte di nascondere le nostre ferite.

È difficile prevedere cosa ti spezzerà in un dato giorno. Siamo persone forti, noi iraniani. Dobbiamo esserlo. Ricordo un antico mito che una volta mi raccontò mio padre; di un eroe che ci difese, in piedi in cima a un colle. Aveva ucciso i nemici a destra e a manca finché nessun altro aveva osato attaccarlo. Lui si fermò, immobile, sfidando i nemici. Per tre lunghi giorni e tre notti, rimase lì, spada e scudo in mano, senza che nessuno si facesse avanti, finché un corvo si posò sulla sua spalla e gli strappò gli occhi. Era morto da tempo per le ferite riportate, ma si rifiutava ancora di cadere, per trattenere i nemici il più a lungo possibile.

Anche noi andiamo avanti, anche se le ferite sono profonde. Non si direbbe, visto quanto sembriamo realizzati e di successo. Solo nella mia città puoi trovare autori di successo, membri del parlamento, direttori di festival, professori universitari, scienziati e un bel po’ di uomini d’affari. E tutti abbiamo imparato l’arte di nascondere le nostre ferite. Non piangere, mi dico. Non si può sapere quando le lacrime si fermeranno, una volta aperto quel rubinetto. Devi presidiare la collina su cui ti trovi. Ma non si sa mai quando qualcosa potrebbe trovare delle crepe e iniziare a penetrare…

Una canzone di protesta di Ali Azimi e Golshifteh Farahani risuona in me. Ciò che mi viene in mente non sono i versi sul dolore e l’ingiustizia nel mio paese, ma piuttosto quella frase ripetuta presa da un vecchio inno nazionale; “Ey marze por gohar…” (“Oh terra di gemme abbondanti…”).

O, quando scelgo una canzone della band Pallett , oltre ad ascoltare le brevi melodie malinconiche del flauto, mi ripeto le parole: “Dandelion, hai notizie? Da dove e da parte di chi vieni?” Potrei semplicemente smettere di ascoltare la musica persiana. I film sono più prevedibili. Quando ho visto il film documentario “Born in Evin”, su una generazione di bambini nati in una famosa prigione di Teheran, ero pronto ad ascoltare le descrizioni grafiche di violenza e tortura. Forza, ho pensato. Ma quando la protagonista ha trovato un’altra donna nata nello stesso anno, probabilmente solo poche celle più in là da dove era nata lei, e le ha chiesto: “Hai visto quanto abbiamo avuto successo? Tutti noi siamo sopravvissuti… Pensi che lo abbiamo scelto noi, questo successo? È così che i nostri genitori si vendicano di un regime che voleva ucciderli. Ma ancora non lo possediamo..”, è allora che mi è apparsa la sensazione familiare di una mano fredda che mi stringeva la gola.

Va bene, vivrò.

Ho solo bisogno di smettere di pensare all’uccisione delle ragazze in Iran.

 Poi nel 2020  arrivò l’abbattimento dell’aereo ucraino che trasportava i nostri migliori e più brillanti compatrioti- per lo più migranti iraniani che si erano stabiliti in Canada – mentre tornavano dalle visite alla famiglia, dalle visite alla loro “terra delle gemme”. Alcuni erano stati in visita per partecipare a matrimoni o per sposarsi. Finché morte non ci separi…

Non è la prima volta che rimaniamo incollati ai social media, sperando che in Iran qualcosa accada. Lo abbiamo fatto nel 2009 e nel 2010, dopo le elezioni rubate, le proteste di massa e le brutali repressioni. Lo abbiamo fatto nel 2019, quando Internet fu interrotto durante le proteste e, dopo la ripresa delle comunicazioni, contammo oltre 1.500 morti. Poi nel 2020 arrivò l’abbattimento dell’aereo ucraino che trasportava i nostri migliori e più brillanti compatrioti- per lo più migranti iraniani che si erano stabiliti in Canada – mentre tornavano dalle visite alla famiglia, dalle visite alla loro “terra delle gemme”. Alcuni erano stati in visita per partecipare a matrimoni o per sposarsi. Finché morte non ci separi…

Chi avrebbe potuto prevedere che la morte di Jina (Mahsa) Amini sarebbe stata l’ultima scintilla per portare i nostri amici e parenti nelle strade? Uccisa perchè curda, perchè giovane donna.

Siamo rimasti  incollati ai nostri schermi per vedere i video delle coraggiose proteste, prima in Kurdistan, poi nel resto dell’Iran, con la presenza di giovani e meno giovani; immagini di donne che bruciano foulard, in piedi con aria di sfida davanti alla polizia in tenuta antisommossa. Vedendo tutto questo, una serie di pensieri ed emozioni mi attraversava come una fiammata: rabbia per il fatto che i notiziari internazionali non li trasmettessero;  retweettare, ripubblicare, mettere like, aggiungere hashtag. “Lo sapevi che questa celebrità non ha ancora detto nulla? È un tale codardo. Hai sentito parlare quell’altro?” Alla fine, ha sentito nell’aria l’odore di un cambiamento, ma se fosse stato davvero con noi, avrebbe parlato prima. E nonostante tutto questo, perché i media internazionali non si esprimono? Che dire dei miei amici mediorientali che postano sempre sugli attacchi alla moschea di Al-Aqsa. Questi nelle sono i miei fratelli e sorelle, cosa stanno aspettando a fare lo stesso? Dov’è la loro solidarietà?

Fondamentalmente eravamo macchine di social media, e a meno che tu non fossi iraniano, ci avresti  guardato con un misto di meraviglia e pietà.

 Chi avrebbe potuto prevedere che la morte di Jina (Mahsa) Amini sarebbe stata l’ultima scintilla per portare i nostri amici e parenti nelle strade? Uccisa perchè curda, perchè giovane donna.

Quando faccio l’inventario delle mie ferite, mi rendo conto di essere uno dei fortunati. Ho entrambi i genitori. Non ho perso nessun fratello. Ho le storie delle avventure di mio padre con i suoi amici che ovviamente finiscono invariabilmente con: “Questo è prima che lui fosse ucciso dal regime”. Ho le foto di famiglia di mia madre con i suoi due cugini, che scomparvero quando ancora adolescenti e vennero ritrovati uccisi. Ma le storie possono essere abbreviate; le foto di famiglia possono essere ritagliate. Perché fuggire sulle montagne per lasciare dietro di sé l’Iran e tutto il resto, ma continuare a portarcelo sulle spalle? Non sono come il mio amico che ha perso un padre davanti a un plotone di esecuzione e conserva ancora la sua collezione di francobolli, o l’altro mio amico che ha perso il padre ma ha i libri di tutte le sue traduzioni. Non sono come la mia amica nata da una madre che, incinta di lei, andava di stazione di polizia in stazione di polizia per chiedere dove fosse suo figlio, e che ha dovuto crescere per trovare lei stessa la prova decenni dopo: il fratello che non aveva mai incontrato era stato ucciso. Non sono come l’amica che è nata in prigione e ha vissuto lì i primi sette anni della sua vita. La maggior parte di loro ora sono genitori, come me. In qualche modo hanno deciso che la vita doveva continuare. Non piangono mai. Non possono permetterselo, ma si aggrappano ai loro figli; li viziano da morire. “Stanno abusando dei loro essere genitori”, sentono dire, “guarda come si aggrappano a loro”. È vero, sapendo che questo abuso va in entrambe le direzioni.

Quando faccio l’inventario delle mie ferite, mi rendo conto di essere uno dei fortunati. Ho entrambi i genitori. Non ho perso nessun fratello. Ho le storie delle avventure di mio padre con i suoi amici che ovviamente finiscono invariabilmente con: “Questo è prima che lui fosse ucciso dal regime”.

Dopo che erano trascorse settimane (settimane!), le proteste continuavano ancora e il mondo si era finalmente svegliato. Anche le celebrità europee e americane si sono tagliate i capelli in segno di solidarietà. Gli amici non iraniani ora pubblicano messaggi di supporto e retweet come facciamo noi. Ci sono molti video di manifestazioni in tutte le città straniere, grandi e piccole. Ma quali sono i video che riceviamo dall’Iran? Un massacro di massa a Zahedan; sparatorie, percosse, arresti, torture e uccisioni di studenti in un’università di Teheran; e ancora c’è chi scende in piazza. Adesso le adolescenti, tutte, nelle scuole superiori, strappano pagine con i volti degli Ayatollah, puntano il dito medio verso i capi supremi, cacciano i presidi. Non possiamo chiudere le nostre pagine sui social media adesso.

È questo? Qualcosa del genere non è mai successo; uomini e donne più anziani sono stati cacciati dalle strade e continuano ancora a occuparle? Cerchiamo di trovare nuovi eventi scorrendo gli stessi account familiari che pubblicano gli aggiornamenti, ma tutti ripubblicano le stesse notizie. Può una rivoluzione delle ragazze portare a un cambiamento? La polizia si fermerà?  Assolutamente no! Questa rivolta è iniziata con l’uccisione di una giovane donna, non troverà improvvisamente la sua umanità dall’oggi al domani. Hadis Najafi, 22 anni, è stata colpita da proiettili durante una protesta. Nika Shakarami, 16 anni, scompare dopo aver detto a un’amica che sta fuggendo dalla polizia. Il suo corpo straziato è stato restituito alla sua famiglia più di una settimana dopo. Uno sfortunato incidente. È caduta mentre fuggiva dalla legge. Nessuno crede alla storia, quindi il suo corpo viene rubato di nuovo, per essere sepolto lontano da casa sua. Sarina Esmaeilzadeh, 16 anni, viene riportata morta dai suoi genitori: si è suicidata. Sua madre non accetta la  menzogna e il dolore la spinge a suicidarsi. ‘Visto? Vizio di famiglia..’

 È questo? Qualcosa del genere non è mai successo; uomini e donne più anziani sono stati cacciati dalle strade e continuano ancora a occuparle?

Non riesco a smettere di guardare il mio telefono. Tutti sono dalla nostra parte ora. Se non lo sei, vivi sotto una roccia. Ma questa non può essere la novità. Continuo a scorrere e scorrere. Vedo video di Hadis, Sarina, Nika; impugna un microfono, indossa un grazioso vestito gotico, canta una vecchia canzone persiana, un sorriso stampato in faccia; si registra mentre dà consigli su come decorare la stanza, mentre si lega i capelli per andare coraggiosamente a una dimostrazione. Vedo la sua foto (quale? Ha importanza?) sdraiata a terra, con il sangue intorno al viso. Così tranquilla; solo le sue gambe hanno un angolo strano. Guardo le mie figlie mentre dormono. Occupano l’intero letto, lasciando poco spazio a me o a mia moglie. Prendetelo, è tutto vostro. Ricordo che mio padre mi disse: “Sono sempre state coraggiose, più coraggiose di noi. Ho combattuto questo regime il più a lungo possibile, ma dovevo andarmene. Non sarei vivo oggi se fossi rimasto. Quell’ultimo giorno…ricordo le studentesse, senza paura, che si lanciavano nella rissa, lanciavano sassi, rischiavano la vita. Leonesse. Vattene vecchio, mi dissero. Ero più giovane di te oggi, ma ero già vecchio. Non dimenticherò mai quell’immagine”.

E mi siedo qui al buio, sapendo che le mie figlie sono al sicuro. Sapendo che non c’è niente al mondo che io posso cambiare. Sapendo che devo smettere di pensare all’uccisione delle ragazze.

Traduzione di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali” -Invictapalestina.org