Gruppi di monitoraggio sionisti hanno lanciato campagne diffamatorie per screditare il lavoro dei giornalisti palestinesi, spesso facendo perdere l’impiego a molti di loro. Le organizzazioni dei media continueranno a consentire a tali gruppi di dettare la loro linea editoriale, o oseranno essere coraggiosi come i giornalisti palestinesi che affermano di sostenere?
Fonte: English version
Di Mondoweiss – 23 ottobre 2022
Immagine di copertina: Giornalisti palestinesi si riparano dal fuoco diretto (Foto: Jaafar Shtayyeh – AFP)
La scorsa settimana, la Fondazione Thomas Reuters ha annunciato che la pluripremiata giornalista palestinese Shatha Hammad avrebbe ricevuto il prestigioso Premio Kurt Schork per il giornalismo sul campo del 2022. Neanche 48 ore dopo, il gruppo di monitoraggio sionista Honest Reporting (“Comunicazione Obiettiva”) ha scatenato una feroce campagna diffamatoria contro Hammad per fare pressione sulle Fondazioni Reuters e Kurt Schork per revocare il premio. La campagna è riuscita.
Hammad è solo l’ultimo giornalista palestinese ad essere preso di mira da tali gruppi. All’inizio di questo mese, il New York Times ha licenziato il foto-giornalista palestinese Hosam Salem per aver espresso sostegno alla resistenza palestinese, dopo che Honest Reporting ha scavato tra i post di Facebook di Salem per “denunciarlo” al Times. Honest Reporting è una delle tante organizzazioni di monitoraggio sioniste la cui missione è quella di correre in difesa di uno degli ultimi regimi coloniali al mondo, agendo efficacemente come braccio internazionale dell'”Hasbara” israeliana e fornendo un paravento per la l’inarrestabile colonizzazione e la continua pulizia etnica della Palestina.
Come sottolineato da una lettera firmata da centinaia di giornalisti palestinesi e arabi che condannano questi recenti attacchi online, questi gruppi di monitoraggio operano in modo simile alle agenzie di spionaggio israeliane, scavando “in profondità nei profili dei giornalisti sui social media, cercando qualsiasi espressione, dichiarazione o persino leggerezze scritte in gioventù, decontestualizzandole e trasformandole in armi”.
Questo è ciò che Honest Reporting ha fatto ad Hammad, distorcendo molti dei suoi vecchi post su Facebook del 2014 nel tentativo di dipingerla come un’antisemita e una “filo-nazista”. Hammad nega categoricamente queste affermazioni oltraggiose e sostiene persino che uno dei presunti post su Facebook fosse una vera e propria invenzione.
La Fondazione Kurt Schork ha ceduto alla pressione e ha prontamente revocato il premio di Hammad. Questo di per sé è preoccupante, poiché mostra la volontà di accettare le accuse di un’organizzazione chiaramente di parte che utilizza metodi discutibili nel produrre “prove” di illeciti.
Chi è Honest Reporting?
Honest Reporting afferma chiaramente sul suo sito web di “combattere il pregiudizio ideologico nel giornalismo e nei media”. Eppure molti dei suoi massimi membri del personale hanno prestato servizio in gruppi di interesse sionisti, in altre organizzazioni di monitoraggio pro-Israele e, cosa più eclatante, nell’esercito israeliano. L’amministratore delegato di Honest Reporting ha lavorato presso il gruppo di ingerenza pro-Israele AIPAC; i suoi direttori esecutivi ed editoriali erano nell’unità del portavoce dell’esercito israeliano; e il suo esperto dei media digitali, secondo il suo sito web, ha prestato servizio nel “Comando Centrale dell’esercito come volontario estero durante la Seconda Intifada”, cioè durante lo stesso periodo in cui l’esercito israeliano ha invaso la Cisgiordania e ha commesso efferati crimini di guerra.
Arbitri poco neutrali del “pregiudizio ideologico”. Ma, naturalmente, il fatto che questi gruppi siano in grado di intimidire le organizzazioni dei media facendogli licenziare il personale palestinese è di per sé una testimonianza di come tali organizzazioni mediatiche siano pronte a disattendere i loro impegni nei confronti del giornalismo onesto. L’organizzazione mediatica Middle East Eye (Occhio del Medio Oriente – MEE), ad esempio, dove Hammad ha lavorato e prodotto un eccellente lavoro giornalistico, ha annunciato che stava tagliando i legami con Hammad dopo che Honest Reporting ha lanciato la sua campagna contro di lei, e sebbene la dichiarazione di MEE sia stata successivamente ritirata, il danno era già stato fatto, poiché Honest Reporting ha sfoggiato con entusiasmo il suo “successo” nel far licenziare Hammad.
I vigilantes sionisti rappresentano un pericolo per il giornalismo
Il pericolo in questo non può essere ignorato. Tagliando i legami con Hammad, MEE sta effettivamente inviando un messaggio a tutti i giornalisti palestinesi che permetterà alla sua agenda di essere influenzata dai gruppi di pressione filo-israeliani impegnati a difendere e sostenere il colonialismo e l’Apartheid.
Altre organizzazioni sono colpevoli di un’ambiguità ancora maggiore: il New York Times ha licenziato il foto-giornalista Hosam Salem per aver espresso sostegno alla resistenza palestinese, eppure molti dipendenti del Times in posizioni di potere molto più elevate hanno avuto intimi legami con l’esercito israeliano e non hanno subito tali punizioni. Ad esempio, il figlio dell’ex capo dell’ufficio di Gerusalemme Ethan Bronner ha effettivamente prestato servizio nell’esercito israeliano, così come il figlio dell’attuale corrispondente Isabel Kershner, e il figlio di David Brooks, opinionista del giornale. Tutte queste figure hanno scritto, riportato, commentato o diretto la copertura del New York Times di notizie dalla Palestina con questo conflitto di interessi mai dichiarato.
Questi doppi criteri sono tanto diffusi nei media quanto offensivi. Quando i giornalisti palestinesi condannano appassionatamente i crimini di cui sono stati testimoni, quando si scagliano contro l’ingiustizia, vengono diffamati e licenziati. Sono accusati di pregiudizio o di tradire la propria missione come giornalisti, come se la neutralità sotto il colonialismo colonico fosse auspicabile.
I giornalisti non palestinesi, d’altra parte, non perdono il lavoro per pregiudizio quando assistono a crimini efferati. E, naturalmente, se un giornalista dovesse aver scritto qualcosa di inesatto ai suoi inizi, non viene usato come arma contro di lui un decennio dopo. Solo quando si tratta della lotta palestinese per la liberazione viene adottato il criterio di integrità.
È inoltre fondamentale notare che questi gruppi sono specificamente alla ricerca di giornalisti palestinesi. Altri giornalisti che vincono tali premi per i loro servizi non ricevono lo stesso trattamento invasivo, la loro carriera e il loro passato non vengono toccati. In altre parole, la motivazione per prendere di mira i giornalisti palestinesi è politica. L’intera missione di questi gruppi è orientata a individuare i giornalisti palestinesi e punirli per aver osato parlare della difficile situazione del loro popolo.
E in definitiva, questo è l’obiettivo di tali campagne censorie: impedire l’ingresso di voci e prospettive palestinesi nel dibattito dominante in Occidente. I gruppi di pressione sionisti sono terrorizzati dal fatto che gli atteggiamenti stiano cambiando, e forse l’ultima speranza che queste forze pro-Apartheid hanno è quella di mantenere il rigido ruolo di vigilanti che i principali media hanno tradizionalmente svolto, impedendo la rivelazione della devastante realtà che il colonialismo israeliano ha prodotto in Palestina.
Quindi, le organizzazioni dei media devono chiedersi: continueranno a consentire ai gruppi di pressione sionisti, molti dei quali sono composti da personale che fa parte dell’apparato coloniale israeliano, di dettare la loro linea editoriale? O almeno cercheranno di essere coraggiosi come i giornalisti palestinesi che affermano di sostenere?
Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org