Liliana Córdova Kaczerginski, co-fondatrice dell’International Jewish Anti-Sionist Network, è intervenuta al Congresso dei Deputati spagnolo per discutere di antisemitismo e diritti del popolo palestinese.
Fonte: Versiòn española
Carmen Rengel – 27/11/2022
Immagine di copertina: Liliana Córdova, durante il suo intervento al Congresso dei Deputati (you tube)
Liliana Córdova Kaczerginski è la co-fondatrice dell’International Jewish Anti-Sionist Network (IJAN). Questa argentina che ora vive a Madrid è figlia di un combattente ebreo comunista del ghetto di Vilnius in Lituania durante la seconda guerra mondiale, è nata a Parigi mentre la sua famiglia era in cerca di sopravvivenza e vive in Israele da 14 anni. Sa cosa comporta l’ebraismo, la persecuzione e il sionismo e ha scelto di diventare un’attivista scomoda, che si oppone all’esistenza dello Stato di Israele così come lo conosciamo e che sostiene la causa araba. Ora la sua voce è stata ascoltata in una conferenza organizzata da Unidas Podemos al Congresso dei Deputati, in memoria del popolo palestinese.
“L’antisemitismo come scusa per perseguire la solidarietà con il popolo palestinese”. Fin dal titolo, il dibattito sembra complicato…
È che lo Stato di Israele ha un apparato di propaganda molto importante, come molti governi e paesi, ed è molto facile chiamare antisemite, cioè razziste, le organizzazioni o le persone che manifestano contro le sue politiche. Questo ti squalifica come interlocutore, fin dall’inizio e ti obbliga a dover dimostrare che non sei un antisemita. Se sei un noto politico, un autore che ha scritto cose e ha parlato… come dimostri di non essere razzista? Ecco perché devi parlarne. Per quella propaganda, il semplice fatto che uno critichi i governi di Israele o il progetto sionista è già una ragione sufficiente per metterti un’etichetta e con ciò ti chiudono la bocca. Le persone hanno paura di affrontare quell’etichetta che hanno messo su di te. E siccome si ha paura di questo, soprattutto di essere chiamati razzisti antiebraici, tacciono, e così riescono a scoraggiare l’opinione pubblica dall’esprimere le sue critiche. È la stampella più facile che esista.
Nel suo caso si aggiunge il fatto che lei stessa è ebrea, della stessa origine. Essere ebrei e non difendere lo Stato di Israele e le sue politiche è un peccato, per molti.
Per loro siamo un po’ il tallone d’Achille, perché capiscono che essere ebrei implica essere completamente sottomessi allo Stato di Israele e alle sue politiche e accettare tutto di buon grado. Certo, si può fare qualche lieve critica ma non all’essenza stessa dello Stato, che ricordiamo è uno Stato che pratica l’Apartheid, come è ben documentato oggi, uno Stato che promuove il colonialismo insediativo e addirittura tratta come cittadini di seconda classe quelli di origine palestinese che vivono nello Stato di Israele, ai confini del 48, fortemente discriminati. Che noi critichiamo queste cose che riguardano già la natura stessa del regime è per loro il segno che siamo dei traditori o, come dicono alcuni, un segno di odio per sè stessi. Ci sono anche molti ebrei che non osano parlare.
La critica al sionismo dall’interno è più sconosciuta che nuova, giusto?
Esatto, bisogna vedere che la questione della critica al sionismo non è una cosa nuova, un’invenzione originale o esotica, ma è nata insieme alla creazione del movimento sionista all’interno delle comunità ebraiche che non volevano essere trascinate in quel progetto nazionalista… In Germania o nel Regno Unito, dove il movimento era particolarmente forte, dal 1880 al 1945, queste persone si esprimevano come tedesche o britanniche, ma con l’aggiunta di una confessione o identità ebraica. Ma non siamo in un progetto nazionale ebraico. Per l’apparato di propaganda dire questo è un’eresia totale, ci rende cattivi ebrei, il che è quasi divertente perché, ad esempio, c’è un gruppo di ebrei molto, molto religiosi, i Naturei Karta (ultraortodossi), che sono assolutamente osservanti e sono militanti antisionisti e filo-palestinesi. L’antisionismo può essere di tutti i tipi: liberale, religioso, di sinistra, rivoluzionario… ma ha una critica comune e non è una novità.
“Io ritengo che non siamo un popolo, nel senso di una nazione”.
Al di là della situazione attuale, lei denuncia l’origine, la creazione dello Stato di Israele. Come mai?
Ritengo che non siamo un popolo, nel senso di una nazione. Siamo un gruppo umano che è presente in molti paesi, come altri, così come ci sono protestanti in molte parti del mondo, con molte correnti, e questo non significa che chiederanno uno stato, giusto? Anche noi. L’ebraismo è religione, ma non solo, perché gli ebrei laici sono tanti da più di 200 anni, quasi la metà oggi. È un’identità che sì, può essere religiosa ma anche culturale o familiare. E ogni gruppo umano ebraico che vive in paesi diversi ha caratteristiche e gusti propri, anche dal punto di vista dei riti religiosi. Quello che fanno quelli della Polonia e quelli del Marocco è molto diverso, dalla preghiera alla parola, al vestire… Non è scritto da nessuna parte che ogni gruppo umano debba avere il suo stato. Altrimenti, immagina come sarebbe questo mondo! Fin dall’inizio crediamo che il movimento sionista non abbia basi. Infine, si basa sullo stesso concetto dell’antisemitismo. Credono che i non ebrei saranno sempre giudeofobici, perché questo è già presente nel DNA dei non ebrei ed è per questo che devi concentrarti in un posto, avere il tuo esercito, difenderti. Diciamo di no, diciamo che il razzismo è un male terribile, condiviso da molti gruppi umani, e la soluzione è lottare contro la discriminazione e non che ogni gruppo si faccia il proprio stato per proteggersi. La protezione sta anche nell’avere un altro tipo di visione di ciò che è l’umanità.
Cioè combattere contro Israele e contro grandi alleati, come gli Stati Uniti…
Non tutto è uniforme. Proprio negli Usa sono anche molto divisi. Fino al 48, anno dell’indipendenza di Israele, non pochi ebrei non erano affatto d’accordo con il progetto sionista. Poi venne la creazione dello Stato e, soprattutto, la guerra del 1967, che portò gli ebrei in ambito occidentale, perché prima erano considerati un po’ occidentali, un po’ orientali, non erano ammessi con tutto il loro peso… Fino al 1880, era molto raro che gli ebrei avessero pari diritti nei territori europei, per esempio. Ma da quel momento, dal 1967 e dalla guerra, in Occidente si cominciò a guardare l’ebreo in modo diverso. “È forte, è intelligente, sa difendersi, avanza in materia tecnologica…”, dicevano. Quella nuova carta permetteva agli ebrei di essere considerati uguali agli altri bianchi, permetteva a molti ebrei che non erano interessati a Israele o che erano chiaramente antisionisti di cambiare giacca e lasciarsi trasportare, parallelamente a uno stato che era chiaramente associato al capitalismo internazionale. La propaganda doveva egemonizzare il sionismo in tutte le comunità ebraiche. L’hanno fatto.
Come vede l’etichetta “Stato ebraico” applicata ora a Israele?
Solo che è sempre stato così, è sempre stato uno Stato confessionale ma dato che gli ebrei non avevano ancora molta forza, Israele ha dovuto nascondersi un po’, ma non è mai stato niente altro. Si sono sempre considerati uno stato ebraico. Dissero che c’era una differenza tra l’essere un ebreo israeliano ma no, avevano tutti i privilegi e i non ebrei, specialmente i palestinesi, erano privati di quei privilegi. La più terribile è stata la questione della terra, non solo hanno confiscato tutta la terra, ma hanno continuato a farlo, mentre la popolazione palestinese cresceva e veniva sempre più costretta all’interno di sempre meno terra.
Come pensa che dovrebbe essere lo stato che ora esiste nella zona?
Penso che non ci sia altro modo che porre fine al progetto sionista. Non significa in alcun modo che gli ebrei che abitano in Israele debbano andarsene o essere cittadini di seconda classe, niente del genere. Rispetto pienamente il popolo ebraico che vuole restare lì e vivere in uno stato comune, in uno stato che normalmente sarebbe uno stato palestinese, perché i palestinesi sono la maggioranza, soprattutto se ci sarà un ritorno dei profughi. Un Paese con diritti sia collettivi che individuali per gli ebrei che vogliono restarci, senza alcun tipo di egemonia o supremazia sui palestinesi. Non vedo come si possa vivere con uno Stato sionista che sarà sempre militare, espansionista, razzista, colonialista… Non si può vedere uno Stato ebraico che non sia sionista, non ha ragione di esistere, perché anche prima del 48 era assolutamente accettabile che alcuni ebrei volessero vivere lì, perché per alcuni di loro è la Terra Santa. Ma una cosa è vivere da abitanti e ovviamente avere i propri diritti e un’altra è avere un progetto nazionale. Era logico, dal punto di vista umanitario, che gli ebrei perseguitati dal 1933 e bisognosi di rifugio andassero lì ed è molto positivo che i palestinesi ne abbiano accolti molti ma, ancora una volta, come abitanti. Non c’è motivo, se accettano di rimanere lì, come abitanti, con il loro diritto alla religione, alla cultura o alla lingua, che ci siano problemi, perché la popolazione palestinese è molto varia, ci sono tutti i tipi di comunità, non solo musulmani e cristiani, ma circassi, drusi… Non è una novità vivere nella diversità.
“Non vedo come si possa vivere con uno stato sionista che sarà sempre militare, espansionista, razzista, colonialista…”
Perché sostenete la campagna BDS?
La prima attività dell’International Jewish Anti-Sionist Network, a San Francisco, nel 2006, fu un’azione a sostegno della campagna di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni. Abbiamo aderito completamente a quella visione, ma questa è ancora una base, dobbiamo andare oltre con Israele. Ci sono due cose che sono requisiti essenziali, diciamo, per indebolire le loro politiche aggressive: una è il BDS, un blocco fatto da persone, istituzioni, partiti e stati, dal culturale allo sportivo, anche economico, ovviamente, come è stato fatto con il Sudafrica. E l’altro è l’indebolimento militare dello Stato, più problematico ma avvenuto in Libano con il confronto con Hezbollah. Ora non osano andare via terra e poco per via aerea. Quella forza importante che ha nella sicurezza, nella difesa e nell’intelligence gli conferisce una sorta di supremazia che alcuni temono.
Cosa pensa che la Spagna dovrebbe fare riguardo a Israele? Il Congresso, per esempio, ha chiesto il riconoscimento dello stato palestinese.
La cosa più importante sono le sanzioni a livello governativo, non sostenendo alcun progetto che possa favorire l’economia israeliana, compresi i militari. Non è necessario favorire alcun tipo di scambio, di qualsiasi tipo. Nelle istituzioni internazionali in cui vengono proposte sanzioni, sostenere questo percorso o addirittura essere in anticipo. Israele ha progetti con enormi privilegi rispetto all’Europa, ha scambi di armi. Fermare tutto ciò sarebbe un modo molto importante per mostrare il proprio sostegno ai palestinesi e al diritto internazionale. Sarebbe un sostegno anticoloniale, schierarsi con i popoli che combattono. Ora il presidente, Pedro Sánchez, lo ha fatto con l’Ucraina. Lo sento al G-20, parlare per cinque minuti del suo sostegno incondizionato…
Pensa che l’invasione dell’Ucraina possa aiutare a far parlare la gente dell’occupazione israeliana della terra palestinese?
Sarebbe logico che ciò accadesse, l’invasione dell’Ucraina dovrebbe mettere sul tavolo l’occupazione israeliana della Palestina, ma non credo che sarà così. Se ci fosse un minimo di responsabilità e coerenza, dovrebbe portare a compimento la pressione sull’occupazione israeliana, almeno nei territori del 1967, ma dubito fortemente che accadrà. Anche nei gruppi pro-palestinesi questa relazione si fa raramente, non perché non lo sappiano. Di nuovo, lo stesso meccanismo.
Traduzione di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali” – Invictapalestina.org