Non si può salvare la democrazia in uno Stato esclusivamente ebraico

il movimento contro Netanyahu  è un movimento per salvare la democrazia liberale per gli ebrei.

Fonte. English version

Di Peter Beinart – 19 febbraio 2023

Immagine di copertina: Manifestanti marciano a Tel Aviv, in Israele, contro il governo di estrema destra del primo ministro Benjamin Netanyahu, 7 gennaio 2023.

Gli avvertimenti arrivano ogni giorno: La democrazia israeliana è in pericolo.

Da quando il nuovo governo di Benjamin Netanyahu ha annunciato piani per minare l’indipendenza della Corte Suprema di Israele, centinaia di migliaia di israeliani hanno manifestato nelle strade. Tutti gli ex procuratori generali viventi di Israele, in una dichiarazione congiunta, hanno avvertito che la proposta di Netanyahu mette in pericolo gli sforzi per “preservare Israele come Stato ebraico e democratico”. I leader ebrei americani liberali incoraggiano le proteste. All’inizio di questo mese, Alan Solow, l’ex capo della Conferenza dei Presidenti delle Principali Organizzazioni Ebraiche Americane (Conference of Presidents of Major American Jewish Organizations), ha affermato che lui e altri noti ebrei americani “condividono le preoccupazioni di decine di migliaia di israeliani determinati a proteggere la loro democrazia”. In una dichiarazione pubblica, Alan Solow e altri 168 influenti ebrei americani hanno avvertito che “la direzione del nuovo governo rispecchia le tendenze antidemocratiche che vediamo sorgere altrove”.

In apparenza, la battaglia tra Netanyahu e i suoi avversari è qualcosa di già visto. Negli ultimi anni, dal Brasile all’Ungheria, dall’India agli Stati Uniti, i manifestanti antigovernativi hanno accusato i populisti dalla mentalità autoritaria di minacciare la democrazia liberale. Ma guardando più da vicino il dramma politico di Israele, si nota qualcosa di sorprendente: le persone più minacciate dall’autoritarismo di Netanyahu non fanno parte del movimento che vi si oppone.

Le manifestazioni includono pochissimi palestinesi. Infatti, i politici palestinesi li hanno criticati per non avere, nelle parole dell’ex membro della Knesset Sami Abu Shehadeh, “niente a che fare con il problema principale nella regione: giustizia e uguaglianza per tutte le persone che vivono qui”.

Il motivo è che il movimento contro Netanyahu non è come i movimenti di opposizione pro-democrazia in Turchia, India o Brasile, o il movimento contro il Trumpismo negli Stati Uniti. Non è un movimento per la parità dei diritti. È un movimento per preservare il sistema politico che esisteva prima che la coalizione di estrema destra di Netanyahu prendesse il potere, e che non era per i palestinesi una vera democrazia liberale. È un movimento per salvare la democrazia liberale per gli ebrei.

Il principio che i critici sionisti liberali di Netanyahu affermano minacci, uno Stato ebraico e democratico, è in realtà una contraddizione. Democrazia significa governo del popolo. Stato Ebraico significa governo di ebrei. In un Paese in cui gli ebrei costituiscono solo la metà della popolazione tra il Fiume Giordano e il Mar Mediterraneo, il secondo imperativo divora il primo.

Per capire quanto sia illiberale il sionismo liberale sostenuto dai principali oppositori di Netanyahu, si considerino le azioni di Yair Lapid, suo predecessore come Primo Ministro. Il mese scorso, Lapid ha scritto un saggio di quasi 2000 parole in cui ha scritto: “Se questo governo Netanyahu non cade, Israele cesserà di essere una democrazia liberale”. Non includeva la parola “palestinese”.

Ciò diventa meno sorprendente quando si realizza che come Ministro degli Esteri, nel 2021, Lapid ha implorato la Knesset di rinnovare una legge che nega ai palestinesi della Cisgiordania e della Striscia di Gaza che sono sposati con cittadini palestinesi il diritto di vivere con i loro coniugi all’interno di Israele. La legge è palesemente discriminatoria; Gli ebrei possono immigrare in Israele e ottenere la cittadinanza immediata indipendentemente dal fatto che abbiano o meno parenti nel Paese. E lungi dal negare la natura discriminatoria della legislazione, Lapid l’ha celebrata. La legge, ha spiegato in un tweet nel luglio 2021: “È uno degli strumenti destinati a garantire la maggioranza ebraica nello Stato di Israele”.

Quando Tucker Carlson e Viktor Orban impiegano questo tipo di logica, quando promuovono politiche progettate per garantire che la percentuale di cristiani bianchi nei loro Paesi non scenda troppo in basso, i liberali ebrei americani lo riconoscono come un attentato al principio di eguale cittadinanza su cui si fonda la democrazia liberale. Eppure molti ora vedono Lapid come il paladino della democrazia liberale perché si oppone alle riforme giudiziarie di Netanyahu.

Un’altra figura importante nel movimento anti-Netanyahu è l’ex Ministro della Difesa Benny Gantz, che il mese scorso ha esortato gli israeliani “a protestare per la salvaguardia della democrazia israeliana”. Ma come Ministro della Difesa nel 2021, Gantz ha designato sei importanti gruppi palestinesi per i diritti umani come organizzazioni terroristiche in quello che il gruppo israeliano per i diritti umani B’Tselem ha definito “un atto caratteristico dei regimi totalitari”. Successivamente le truppe israeliane hanno fatto irruzione negli uffici dell’organizzazione, sequestrato documenti e sigillato le porte. Sembrano le azioni di qualcuno interessato a “salvaguardare” la democrazia?

Il problema è più profondo di questi politici. Quando leader ebrei americani come Solow esprimono solidarietà a quegli “israeliani determinati a proteggere la loro democrazia”, ​​non si stanno solo illudendo sui principali oppositori di Netanyahu. Si stanno illudendo sulla stessa statualità ebraica.

Per la maggior parte dei palestinesi sotto il controllo israeliano, quelli della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, Israele non è una democrazia. Non è una democrazia perché i palestinesi nei Territori Occupati non possono votare per il governo che domina le loro vite. Quando Benny Gantz invia truppe israeliane per chiudere i loro gruppi per i diritti umani, i palestinesi della Cisgiordania non possono punirlo alle urne. Possono sporgere denuncia all’Autorità Palestinese. Ma l’Autorità Palestinese è un subappaltatore, non uno Stato. Come altri comuni palestinesi, anche i suoi funzionari hanno bisogno del permesso israeliano per lasciare la Cisgiordania. Anche a Gaza Israele determina, con l’aiuto dell’Egitto, quali persone e prodotti entrano ed escono. E i residenti di Gaza, che vivono in quella che Human Rights Watch chiama “una prigione a cielo aperto”, non possono votare contro i funzionari israeliani che detengono la chiave.

Questa mancanza di diritti democratici aiuta a spiegare perché i palestinesi sono meno motivati ​​degli ebrei israeliani a difendere la Corte Suprema di Israele. Come notano i professori di legge israeliani David Kretzmer e Yael Ronen nel loro libro “L’Occupazione Della Giustizia” (The Occupation of Justice), “in quasi tutte le sue sentenze relative ai Territori Occupati, specialmente quelle che trattano questioni di principio, la Corte ha deciso a favore delle autorità”. Indebolire la Corte minerebbe le tutele legali che gli ebrei israeliani danno per scontate, ma di cui la maggior parte dei palestinesi non ha mai goduto.

Ad essere onesti, circa il 20% dei palestinesi sotto il controllo israeliano gode della cittadinanza israeliana e del diritto di voto alle elezioni israeliane. Eppure sono spesso questi palestinesi che protestano più rumorosamente contro le credenziali democratiche di Israele. Nel 2009, il membro palestinese della Knesset Ahmad Tibi ha detto scherzosamente che Israele era davvero “ebraico e democratico: democratico verso gli ebrei ed ebreo verso gli arabi”. A molti sionisti liberali, questo potrebbe suonare meschino.  Dopotutto, Tibi ha prestato servizio nel Parlamento israeliano per quasi 25 anni. Ma comprende che lo Stato Ebraico contiene una struttura profonda che nega sistematicamente l’uguaglianza giuridica dei palestinesi, siano essi cittadini o meno.

Basti considerare come Israele assegna la terra. La maggior parte della terra all’interno dei confini di Israele è stata confiscata ai palestinesi durante la Guerra d’Indipendenza israeliana alla fine degli anni ’40, quando più della metà della popolazione palestinese fu espulsa o fuggì per paura. All’inizio degli anni ’50, il governo israeliano controllava più del 90% della terra di Israele. Lo fa ancora. Il governo distribuisce quella terra per lo sviluppo e la affitta ai cittadini attraverso l’Autorità Fondiaria Israeliana. Quasi la metà dei seggi nel suo consiglio direttivo sono riservati al Fondo Nazionale Ebraico, la cui missione è “rafforzare il legame tra il popolo ebraico e la sua Patria”.

Questo aiuta a spiegare perché i palestinesi rappresentano più del 20% dei cittadini israeliani, ma, secondo un rapporto del 2017 di una varietà di gruppi per i diritti umani palestinesi e israeliani, possiedono meno del 3% della terra di Israele. Nel 2003, una commissione del governo israeliano ha rilevato che “molte città e villaggi arabi erano circondati da terreni designati per scopi come zone di sicurezza, consigli regionali ebraici, parchi nazionali e riserve naturali o autostrade, che ostacolano o impediscono la loro possibilità di espansione”. Incapaci di ottenere il permesso, molti cittadini palestinesi costruiscono case illegalmente, che sono quindi soggette alla demolizione del governo. Il 97% degli ordini di demolizione in Israele tra il 2012 e il 2014, secondo il rapporto del 2017, erano contro i palestinesi.

Questo non è un caso. È la logica conseguenza dell’autodefinizione di Israele. Israele non è uno “Stato per tutti i suoi cittadini”, un concetto che Lapid ha esposto nel 2019 a cui si è opposto “da sempre”. Nel 2018, quando diversi parlamentari palestinesi hanno introdotto una legislazione “per ancorare nel diritto costituzionale il principio di eguale cittadinanza”, il portavoce della Knesset ha stabilito che non poteva nemmeno essere discussa perché avrebbe “minato le fondamenta dello Stato”. Nello stesso anno, la Knesset approvò una legislazione che riaffermava l’identità di Israele come “Stato-Nazione del popolo ebraico”, il che significa che il Paese appartiene agli ebrei come me, che non ci vivono, ma non ai palestinesi che vivono sotto il suo  controllo, anche i pochi fortunati che detengono la cittadinanza israeliana. Tutto questo è accaduto prima che il nuovo governo di Netanyahu prendesse il potere. Questa è la fervida democrazia liberale che i sionisti liberali vogliono salvare.

Alcuni ebrei potrebbero temere che sostenendo un’autentica democrazia liberale, ed esponendosi così ad accuse di antisionismo, i critici di Netanyahu si emargineranno. Ma se allargano la loro visione vedranno che è vero il contrario. Includendo i palestinesi come pari a pieno titolo, il movimento democratico israeliano scoprirà una vasta riserva di nuovi alleati e svilupperà una voce morale molto più chiara. In definitiva, un movimento fondato sull’etnocrazia non può difendere con successo lo stato di diritto. Solo un movimento per l’uguaglianza può farlo.

Peter Beinart è professore di giornalismo e scienze politiche alla Facoltà di Giornalismo Newmark presso il Plesso Universitario di New York. È anche redattore di Jewish Currents e pubblica The Beinart Notebook (l’Agenda di Beinart), una rubrica settimanale.

Traduzione di Beniamino Rocchetto -Invictapalestina.org