Negare la Nakba significa perpetuarla

Per 75 anni, Israele ha cercato di cancellare la storia palestinese per legittimare i suoi miti fondativi e giustificare l’Espropriazione e l’Occupazione in corso. Questa negazione è la realizzazione del razzismo anti-palestinese.

Fonte: English version
Di Emad Moussa – 15 maggio 2023

Nella vita delle nazioni, dice George Orwell, nessun gruppo condannerebbe i crimini commessi dal suo popolo. Anche se ammessi, è probabile che tali crimini siano razionalizzati e giustificati.

Questa mentalità definisce ampiamente il rapporto di Israele con la Nakba, l’espropriazione, lo sfollamento e la sostituzione nel 1948 di centinaia di migliaia di palestinesi dalla loro Patria.

Costruendo un insieme densamente stratificato di occultamenti, omissioni e manipolazioni, il sionismo ha plasmato non solo ciò che gli ebrei israeliani ricordano, ma soprattutto ciò che dovrebbero dimenticare, e le fondamenta del loro Paese. Questo ha prodotto ciò che può essere descritto come una “semplice indifferenza” nella società ebraica israeliana per quanto riguarda la storia palestinese.

Cancellazione fisica

Nell’immediato dopoguerra, il nuovo Stato Ebraico ha cercato di distruggere, nascondere o alterare l’identità dei centri residenziali, dei siti storici e persino dei manufatti palestinesi pre-Nakba.

I resti delle centinaia di villaggi distrutti dalle milizie sioniste durante la Nakba, ad esempio, si trovano oggi all’interno di spazi aperti non edificati dove sono stati piantati boschetti, creati parchi e istituite riserve naturali.

Anche le strade vicine sono state costruite usando pietre e macerie di case palestinesi distrutte frantumate in ghiaia per diventare materiale da fondo stradale.

La pratica è nota come “spaziocidio”, l’imposizione di una nuova realtà fisica al di sopra o al posto di quella originaria.

Al fine di perpetuare la cancellazione fisica, il governo israeliano ha anche cercato di controllare qualsiasi traccia cartacea che potesse contraddire la narrativa ufficiale dello Stato.

Di recente, il dipartimento segreto per la sicurezza del Ministero della Difesa israeliano ha iniziato a rimuovere e risecretare i documenti storici sulla Nakba dopo che erano stati autorizzati alla pubblicazione dal decisore militare.

L’obiettivo, praticamente, era quello di minare il lavoro degli storici revisionisti che utilizzavano materiali d’archivio per decostruire i miti fondanti di Israele.

Allo stesso tempo, i manufatti, i tesori, le biblioteche, i registri e le fotografie palestinesi che furono saccheggiati dalle milizie ebraiche durante l’Operazione Dalet e successivamente, furono censurati e molti secretati.

Lo scopo era ed è tuttora quello di svuotare la storiografia israeliana da qualsiasi riferimento artefatto o archivistico che mettesse in risalto il popolo, la cultura e la storia palestinese pre-Nakba. Dopo tutto, recita il mito sionista, la Palestina era “una terra incolta, arida e senza popolo”, che presto sarebbe stata trasformata in un “Paese fiorente” dai coloni ebrei europei.

Crimini morali

Quando la cancellazione fisica e l’occultamento archivistico erano insufficienti, la negazione esplicita della Nakba veniva sostituita da quella implicita.

Come prima tattica, la colpa della Catastrofe palestinese è stata attribuita agli stessi palestinesi. Ciò si basava principalmente sulla falsa premessa che il Piano Dalet, concepito e attuato da Ben-Gurion, non fosse un progetto per l’espulsione e la Pulizia Etnica dei palestinesi, ma solo una strategia militare di difesa.

I leader israeliani hanno affermato che i palestinesi hanno lasciato le loro case volontariamente dopo che gli Stati arabi li hanno incoraggiati a farlo per facilitare i piani per “gettare gli ebrei in mare”.

Non importa che la retorica usi le rimostranze antisemite come facciata per uno sforzo coloniale di insediamento, non riesce nemmeno a spiegare perché ai palestinesi è stato vietato il ritorno, illegalizzati come “infiltrati”, quindi arrestati o uccisi quando hanno tentato di tornare alle loro case dopo la guerra.

Nella seconda tattica, la Nakba non veniva negata in sé, ma alle sue implicazioni veniva data una dimensione morale: era, quindi, giustificata, razionalizzata e legittimata.

Lo storico israeliano Benny Morris, uno dei fondatori del nuovo movimento storico israeliano alla fine degli anni ’80, che ha decostruito molti dei miti fondanti del sionismo, ammise che l’esodo palestinese del 1948 fu in gran parte dovuto agli attacchi militari ebraici, alla paura degli attacchi e alle espulsioni.

Tuttavia, ha giustificato tutto questo come un risultato inevitabile della nascita di Israele. “Non si può fare una frittata senza rompere le uova”, disse.

Eterna vittima

Dietro gran parte della deliberata negazione della Nakba c’è anche un fattore psicologico riguardante il vittimismo di Israele, sia in relazione alla storia ebraica, all’Olocausto, al conflitto arabo-israeliano, o a tutto quanto sopra.

L’enfasi sul vittimismo come pilastro formativo dell’identità ebraica israeliana ha costretto lo Stato Ebraico e la corrente principale a tentare di negare qualsiasi nozione di vittimismo palestinese.

Ciò ha comportato un accresciuto senso di diritto, un ridotto senso di colpa per la sofferenza palestinese e, di conseguenza, il rifiuto di responsabilità per il danno inflitto al popolo palestinese nel 1948 e in seguito.

L’alternativa sarebbe ammettere che il vittimismo palestinese, in particolare la Nakba, è reale e continuo, e che è quasi tutto opera di Israele.

Con tale ammissione arriva la terrificante prospettiva che non solo i miti sionisti siano privi di fondamento, ma lo siano anche le convinzioni radicate sul vittimismo israeliano. Particolarmente inquietante è quando queste convinzioni sono collegate alle affermazioni secondo cui la fondazione di Israele fu una giustizia storica e una redenzione per gli ebrei un tempo perseguitati nella diaspora.

Anti-palestinianismo 

Una ragione altrettanto importante ma meno conosciuta per la negazione della Nakba è il cosiddetto anti-palestinianismo.

L’anti-palestinianismo è una forma di pregiudizio inseparabile dal più ampio sentimento anti-musulmano e anti-arabo soprattutto in Occidente. Discrimina i palestinesi in quanto tali, senza necessariamente riferimenti alle questioni politiche o geopolitiche della regione.

È, in quanto tale, un tipo latente di razzismo che tratta i palestinesi e i loro diritti con criteri diversi da tutti gli altri valori liberali o persino universali.

Per la comunità internazionale, che è in gran parte controllata dal Nord del mondo, i diritti dei palestinesi non sono mai stati una priorità. Questo si è visto recentemente, quando le nazioni occidentali hanno mostrato i loro doppi criteri dando il loro pieno sostegno alla resistenza ucraina mentre condannavano quella dei palestinesi.

Per questo motivo, per decenni dopo la Nakba, i palestinesi sono stati cancellati dal dibattito pubblico occidentale, e così la loro Catastrofe. Ciò non solo ha permesso a Israele e ai suoi sostenitori occidentali di imporre la narrativa sionista, ma ha anche, inevitabilmente , impedito ai palestinesi di raccontare la loro storia.

Poiché la storia palestinese era intrecciata anche con la narrazione dominante sull’antisemitismo, è stata messa in ombra e sminuita. In realtà, è stato ed è ancora occasionalmente condannato per aver rappresentato una “contro-narrativa indesiderabile” in un mondo occidentale post-Olocausto nel processo di espiazione per le sue vittime ebree.

Per citare Edward Said, nei quattro decenni successivi alla Nakba, ai palestinesi fu negato il “permesso di narrare”. In; La Questione Palestinese (The Question of Palestine – 1979) Said riflette: “Semplicemente menzionare i palestinesi o la Palestina in Israele, o per un sionista convinto, significa nominare l’innominabile, tanto potentemente la nostra nuda esistenza serve ad accusare Israele di ciò che ci ha fatto”.

Tutto considerato, i palestinesi negli ultimi decenni sono riusciti a riaffermare la Nakba come l’elemento più non negoziabile nella nostra storia e nel nostro rapporto con Israele. Tuttavia, ad eccezione dei gruppi di difesa delle minoranze, come Zochrot, che cercano di aumentare la consapevolezza sulla questione, la negazione rimane la tendenza principale in Israele.

Fino a quando Israele non avrà riconosciuto il suo peccato originale e facilitato un meccanismo di giustizia transitoria per le vittime della Nakba e i loro discendenti, così come non avrà posto fine all’attuale Occupazione, la realizzazione di una giustizia in Palestina rimane lontana.

Emad Moussa è un ricercatore e scrittore palestinese-britannico specializzato in psicologia politica delle dinamiche intergruppi e dei conflitti, con particolare attenzione all’area MENA (Medio Oriente – Nord Africa) con un interesse speciale per Israele/Palestina. Ha una specializzazione in diritti umani e giornalismo, e attualmente collabora frequentemente con diversi media e istituti accademici, oltre ad essere un consulente per un circolo di pensiero con sede negli Stati Uniti.

Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org