Nato a Birzeit, nella Cisgiordania occupata da Israele, l’artista ha iniziato a dipingere da giovane dopo l’incoraggiamento di un insegnante tedesco.
Fonte: English version
Di Nadda Osman – 12 luglio 2023
Immagine di copertina: Opere famose di Mansour includono ‘Last Summer in Palestine’ e ‘Camel of Heavy Burdens’ [MEE/Nadda Osman]
Lo studio di Sliman Mansour a Ramallah si adatta all’immagine stereotipata dello spazio creativo di un artista: disordinato, con penne, pennelli e foto sparpagliati sul tavolo accanto a tazze di tè e mozziconi di sigaretta.
Le pareti dello spazio di lavoro sono ricoperte con i suoi dipinti, così come le tele che gli sono state donate da altri artisti.
Nel corso della sua carriera, il lavoro di Mansour è diventato famoso a livello internazionale per le sue opere figurative e simboliche, che catturano le realtà sociali e culturali della vita palestinese sotto l’Occupazione israeliana.
Uno dei suoi dipinti più famosi è il suo lavoro del 1994, Last Summer in Palestine (L’Ultima Estate in Palestina), che è la sua interpretazione dell’Ultima Cena di Leonardo Da Vinci, tranne per il fatto che l’immagine di Gesù è sostituita da un uomo palestinese e 12 donne palestinesi prendono il posto dei discepoli.
Un’altra opera famosa è Camel of Heavy Burdens del 2005, che mostra un fragile anziano palestinese che porta sulla schiena una sfera a forma di occhio e al suo interno c’è la città di Gerusalemme.
Le sue opere attingono a comuni motivi palestinesi, tra cui l’ulivo, che è un simbolo del legame profondamente radicato che i palestinesi hanno con la terra.
“Ricordo che quando avevo 12 anni, mio nonno acquistò un pezzo di terra. Non lo misurava in dunam/kmq o acri, diceva di aver comprato 53 alberi di ulivo”, dice Mansour, sottolineando l’importanza del raccolto nella sua educazione.
La vita stessa dell’artista è inestricabile dai simboli che mette nei suoi dipinti e dalla realtà dell’Occupazione.
Mansour vive a Gerusalemme ma gestisce il suo studio a Ramallah, nella Cisgiordania Occupata, attraversando i posti di blocco israeliani diverse volte alla settimana.
Quel viaggio può durare da 45 minuti a sei ore, dice.
L’occupazione e l’arte
Mansour è nato a Birzeit, una città palestinese a Nord di Ramallah, nel 1947, un anno prima della Nakba, che vide più di 700.000 palestinesi espulsi con la forza dalle loro case per far posto alla creazione di Israele.
Il giovane artista ha iniziato a disegnare fin da giovanissimo e più tardi un tutor tedesco in un collegio di Betlemme ha notato il suo talento, incoraggiando il giovane Mansour ad approfondire la pittura e partecipare a concorsi d’arte.
“Ha fatto domanda di iscrizione a mio nome ad un club di disegno e poi mi ha detto che avevo vinto un concorso internazionale per giovani delle Nazioni Unite. Era il 1962”, ricorda Mansour.
Per il suo impegno, l’adolescente Mansour ha vinto un premio in denaro di 200 dollari ma, cosa più importante, si è reso conto che gli sarebbe piaciuto dedicarsi all’arte in modo più attivo.
Gli anni ’60 furono un periodo in cui un forte senso di identità nazionale stava prendendo forma sia tra i palestinesi che tra gli israeliani.
L’auto-narrazione israeliana durante questo periodo è stata quella che ha in gran parte cancellato la presenza palestinese sulla terra della Palestina storica prima delle migrazioni sioniste dell’inizio del 20° secolo.
Era un periodo in cui c’era una forte enfasi su improbabili stereotipi, come l’idea che i moderni coloni ebrei nella regione avessero trovato una terra arida e scarsamente popolata; che avevano fatto fiorire il deserto.
Non c’era spazio per una comunità palestinese nativa nella creazione di un tale mito.
Secondo Mansour, i palestinesi durante questo periodo hanno affrontato il rischio che la loro narrativa storica scomparisse completamente a scapito di tali miti sionisti.
“Quella era la vera strategia del movimento sionista, negare la nostra esistenza, perché quando non ci sei, è molto più facile prendere la tua terra, ucciderti, imprigionarti”, dice.
Fu quindi compito di artisti come Mansour riaffermare la storia palestinese inserendo simboli tradizionali e nuovi nella loro arte.
“Come artisti, abbiamo iniziato a cercare immagini che riflettessero l’identità”, spiega, chiarendo che si trattava di un processo che implicava riferimenti alla cultura antica e al paesaggio della Palestina storica.
“Il paesaggio è un’opera d’arte dei nostri antenati. Quando gli israeliani hanno occupato la nostra terra, hanno iniziato a piantare cipressi e pini non autoctoni invece di ulivi per cambiare il paesaggio”, dice.
Simboli di Resistenza
Oltre all’ulivo, il lavoro di Mansour presenta una serie di altri simboli associati alla lotta palestinese, come l’arancia di Jaffa, i thobe ricamati nel tradizionale stile tatreez, la colomba e la sciarpa kefiah.
“Quando dipingo alberi di aranci, dipingo la terra che fu occupata nel 1948, e quando dipingo gli ulivi, dipingo la terra che fu occupata nel 1967”, dice riferendosi alla Nakba, così come alla successiva conquista israeliana di Cisgiordania, Gerusalemme Est e Gaza.
Un altro simbolo più recente, secondo Mansour, è la pianta di cactus, che secondo lui è stata associata alla Resistenza e alla lotta palestinese.
“Se voleste sapere se una volta c’era un villaggio, dovreste cercare le piante di cactus. Non muoiono facilmente”, dice.
La cura di una serie di simboli, che rafforza l’identità palestinese e probabilmente aiuta a mantenerla in vita, si è scontrata con Israele.
Nell’esempio più recente e famigerato della repressione israeliana dei simboli palestinesi, i legislatori israeliani hanno spinto per il divieto della bandiera palestinese, includendola tra le bandiere di una “entità ostile”.
Mansour afferma che il suo lavoro è stato preso di mira per decenni.
“Nel 1979, quando avevamo iniziato a fare mostre, gli israeliani venivano e confiscavano i dipinti che non gli piacevano”, dice, aggiungendo: “Guardavo cosa prendevano, ed erano cose innoque, come una contadina che indossava bei ricami e lavorava sul campo”.
La giustificazione offerta dagli israeliani a Mansour e ad altri artisti era che le immagini costituissero “incitamento”. Per gli artisti stessi, l’idea di una donna palestinese che si prende cura della sua terra mina direttamente il mito fondante di Israele secondo cui i pionieri sionisti trasformano il deserto in terra fertile.
Mansour dice anche che i funzionari israeliani hanno visitato le mostre di Mansour in passato e le hanno chiuse, portando con sé le chiavi della galleria che ospitava il suo lavoro.
“Si incontravano con noi e discutevano dell’arte che dovremmo fare, dicendoci di dipingere bei fiori o belle donne invece di arte politica”.
Se l’intenzione di Israele era soffocare l’attivismo palestinese censurando l’arte l’obiettivo gli si è completamente ritorto contro.
“Tutto ciò che ha fatto arrabbiare Israele in seguito è diventato un simbolo”, spiega Mansour, descrivendo come la reazione di Israele abbia costretto gli artisti ad assumere simboli più sottili dell’identità palestinese.
Uno di questi esempi è l’anguria, che è stata associata alla Palestina in virtù della condivisione dei colori della bandiera palestinese.
L’artista palestinese
Nel corso dei decenni, Mansour ha accumulato un seguito devoto e ha ottenuto riconoscimenti internazionali per il suo lavoro.
È stato insignito del Premio Unesco-Sharjah per la Cultura Araba 2019; ha anche ricevuto il Gran Premio alla Biennale del Cairo nel 1998 e il Premio Palestina per le arti visive nel 1998.
Oggi Mansour dedica il suo tempo al tutoraggio di giovani artisti e studenti, offrendo loro l’opportunità di coltivare le loro capacità creative e beneficiare dell’esperienza della sua vita.
Come artista, Mansour dice che preferirebbe stare alla larga dalla politica. Ma come palestinese, l’arte è una via d’uscita; un modo per placare una coscienza che non gli permetterà di distogliere lo sguardo dalla realtà dell’Occupazione.
“Credo fermamente nel significato di abbracciare il mestiere e la connessione con la gente, la loro cultura e la loro ricerca della libertà”, afferma Mansour. “È fondamentale per i miei studenti cogliere il senso di appartenenza e non perdere mai la speranza.
“Se la mia arte può persuadere la mia gente, allora ha il potere di influenzare chiunque altro al mondo”, spiega.
“Credo di aver dato un contributo significativo all’arte palestinese, non solo attraverso le mie creazioni, ma anche assistendo alla creazione della Lega degli Artisti Palestinesi. Posso dire di avere la coscienza pulita”.
Alla domanda su cosa dipingerebbe se non ci fosse un’Occupazione, Mansour risponde: “Dipingerei fiori e donne accattivanti”.
Nadda è una giornalista ed editrice britannico-egiziana risiedente nel Regno Unito. Scrive su diritti umani, tendenze e questioni sociali, nonché cultura e le arti nella regione del Medio Oriente e del Nord Africa.
Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org
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