Mentre Israele continua ad attaccare l’accesso dei palestinesi all’acqua, è importante evidenziare la resistenza contro le continue ingiustizie ambientali. Il citare la resilienza, da parte delle ONG, non coglie gli obiettivi trasformativi del sumud, sostiene Asmaa Ashraf.
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Asmaa Ashraf – 25 agosto 2023
La scarsità d’acqua in Palestina non è semplicemente un fenomeno fisico, ma una crisi creata dallo Stato israeliano per controllare la società e l’industria palestinese, scrive Asmaa Ashraf.
Durante i mesi più caldi dell’anno, ad Al-Hijrah Israele si è adoperato per sigillare i pozzi d’acqua palestinesi con il cemento. La regione, situata a sud di Hebron, è stata attaccata con i bulldozer alla fine di luglio per fermare l’irrigazione dei terreni agricoli che riforniscono 25 famiglie che non sono collegate alla rete idrica. Questo è solo l’ultimo di una recente serie di attacchi contro i mezzi di sussistenza ambientali dei palestinesi.
All’inizio di questo mese Mekorot, la compagnia idrica nazionale israeliana, ha ridotto la quota d’acqua fornita alla Cisgiordania.
Mentre si prevede che la regione del Mediterraneo orientale si riscalderà a un ritmo più rapido rispetto alla media globale, gli impatti del cambiamento climatico saranno avvertiti in modo asimmetrico tra palestinesi e israeliani che abitano lo stesso territorio. Gli israeliani usufruiscono delle ultime innovazioni tecnologiche, incluso un nuovo progetto di desalinizzazione che pompa l’acqua del Mediterraneo nel Mar di Galilea, il tutto intensificando la siccità in Cisgiordania e Gaza. Israele controlla tutte le fonti idriche palestinesi, come stabilito dagli accordi di Oslo del 1995, inizialmente previsti come piano quinquennale, ma ancora in vigore 28 anni dopo.
”I discorsi sulla resilienza non riescono a rappresentare adeguatamente la crisi climatica in Palestina, in quanto inquadra gli impatti ambientali dell’occupazione come “pericoli” apolitici, piuttosto che come ingiustizie strutturali.”
Una crisi fabbricata
La scarsità d’acqua in Palestina non è semplicemente un fenomeno fisico, ma una crisi creata dallo Stato israeliano per controllare la società e l’industria palestinese. L’assalto all’ambiente naturale è stato a lungo uno strumento utilizzato da Israele nella sua pulizia etnica, come riaffermato da documenti storici recentemente pubblicati che delineano la dipendenza di Israele dalla distruzione della terra e dei raccolti per scacciare i palestinesi dalle loro case.
Sapendo questo, la resistenza e la fermezza palestinese (sumud) hanno prevalso anche nel corso della storia dell’impresa colonialista dei coloni sionisti.
Sumud è un concetto culturale palestinese che fa parte della coscienza collettiva sin dai tempi del mandato britannico. La traduzione letterale più vicina è “fermezza”, sebbene abbia un significato culturale di forte determinazione a rimanere sulla terra. Il concetto è stato ripreso negli anni ’60 dalle Organizzazioni per la Liberazione della Palestina per descrivere la difficile situazione dei rifugiati e dei sopravvissuti alla Nakba. Fu nuovamente invocato negli anni ’80 per rappresentare gli sforzi per l’autosufficienza durante la prima Intifada, proteggendo i palestinesi dalla punizione economica collettiva da parte di Israele.
La pratica emerge nella vita quotidiana palestinese per costruire un sistema di continuità nonostante l’occupazione in corso. Contiene al suo interno spazio per la perseveranza strategica e pratiche di resistenza inclusiva. Sumud è quindi un quadro ideale per comprendere le risposte palestinesi all’oppressione ambientale, inclusa Al-Hijrah.
Nonostante la costante distruzione e la chiusura dei pozzi nelle aree palestinesi, le comunità continuano a ricostruirli per raccogliere l’acqua, pur sapendo che saranno demoliti per mancanza di un permesso – che è quasi impossibile da ottenere. Questa continua perseveranza strategica tenta di riscrivere la realtà sul campo, caratterizzata dal rifiuto di accettare o normalizzare l’aggressione ambientale israeliana nella vita di tutti i giorni.
In risposta alla scarsità d’acqua indotta da Israele, gli agricoltori palestinesi hanno riadattato le loro pratiche agricole piantando più alberi che possono crescere dipendendo solo dall’acqua piovana, pratica nota come coltivazione Ba’li (rainfed). Questa soluzione basata sulla natura rafforza l’agro-biodiversità e riduce la necessità di fertilizzanti inorganici e di pratiche di lavorazione del terreno che alterano il suolo.
Mantenere pratiche ancestrali di coltivazione della terra nonostante la scarsità d’acqua è sia un mezzo di sopravvivenza che una forma di resistenza di fronte alla cancellazione colonialista dei coloni.
Ingiustizie strutturali
Tuttavia, sumud viene sempre più interpretato erroneamente come “resilienza”, in particolare nei settori politici e delle ONG. I discorsi sulla resilienza non riescono a illustrare adeguatamente la crisi climatica in Palestina, inquadrando gli impatti ambientali dell’occupazione come “pericoli” apolitici piuttosto che come ingiustizie strutturali.
La teoria e le politiche della resilienza ambientale attribuiscono erroneamente all’individuo la responsabilità di “riprendersi” dopo un attacco, poiché il soggetto neoliberista è definito dalla sua capacità di resistere, piuttosto che di trasformare le condizioni oppressive che lo circondano.
Il continuo attacco di Israele alla vita palestinese si basa in gran parte sulla percezione che la comunità internazionale ha dei palestinesi come un popolo resiliente, capace di sopravvivere alla violenza ambientale di routine. Invece, sumud offre una prospettiva alternativa, che ispira resistenza e perseveranza, chiedendo che i palestinesi meritino qualcosa di più della semplice sopravvivenza.
Solo tre giorni dopo che le forze d’attacco israeliane erano state filmate mentre riempivano di cemento il pozzo di Al-Hijrah, i coloni si sono scatenati nell’adiacente villaggio di Burin dando fuoco alle fattorie palestinesi. Di fronte all’accresciuta violenza dei coloni che prende di mira sia i palestinesi che la loro terra, le politiche ambientali apolitiche come la piantumazione di alberi e la conservazione dell’acqua si rivelano inutili. Invece, sumud offre una risposta adattativa e orientata alla giustizia alla crisi climatica.
Israele non solo crea lotte ambientali attraverso le sue pratiche militari inquinanti e di scarico dei rifiuti, ma ne aggrava gli effetti attraverso la sua occupazione, e poi criminalizza le soluzioni e le infrastrutture necessarie per affrontarle. Pertanto, sopravvivere e adattarsi ai cambiamenti ambientali è diventato parte di una strategia deliberata che costituisce la base per una resistenza proattiva contro l’occupazione.
La resilienza, anche nelle sue iterazioni più radicali, non riesce a spiegare la resistenza delle comunità mentre cercano di riordinare le relazioni di potere che ne determinano la cancellazione. Guardando oltre la resistenza passiva, sumud è un valore palestinese che è emerso dalla resistenza culturale di base e rimane nella sua essenza anticoloniale dopo essere sopravvissuto a molti tentativi di cooptazione in discorsi istituzionalizzati.
Asmaa Ashraf è un’organizzatrice palestinese e neolaureata in Ecologia e Sviluppo. I suoi interessi di ricerca si concentrano sulla giustizia ambientale palestinese.
Traduzione di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali” -Invictpalestina.org