Ci sono decine di giornalisti e fotografi palestinesi, molti dei quali sono stati uccisi, che sono determinati a documentare e denunciare l’orrore di questo Genocidio. Sconfiggeranno le bugie degli assassini.
Fonte: English version
Di Chris Hedges – 23 dicembre 2023
Scrivere e fotografare in tempo di guerra sono atti di Resistenza, atti di fede. Affermano la convinzione che un giorno, un giorno che scrittori, giornalisti e fotografi potrebbero non vedere mai, le parole e le immagini evocheranno empatia, comprensione, indignazione e ci conferiranno saggezza. Raccontano non solo i fatti, sebbene i fatti siano importanti, ma anche la consistenza, la sacralità e il dolore delle vite e delle comunità perdute. Raccontano al mondo com’è la guerra, come sopportano coloro che sono intrappolati nelle sue fauci di morte, come c’è chi si sacrifica per gli altri e chi no, cosa sono la paura e la fame, com’è la morte. Trasmettono le grida dei bambini, i lamenti di dolore delle madri, la lotta quotidiana di fronte alla selvaggia violenza di massa, il trionfo della loro umanità attraverso la sporcizia, la malattia, l’umiliazione e la paura. Questo è il motivo per cui scrittori, fotografi e giornalisti vengono presi di mira dagli aggressori in guerra, compresi gli israeliani, e uccisi. Sono testimoni del male, un male che gli aggressori vogliono seppellire e dimenticare. Espongono le menzogne. Condannano, anche dalla tomba, i loro assassini. Israele ha ucciso almeno 13 poeti e scrittori palestinesi insieme ad almeno 67 giornalisti e operatori dei media a Gaza e tre in Libano dal 7 ottobre.
Ho sperimentato l’inutilità e l’indignazione quando sono stato corrispondente di guerra. Mi chiedevo se avevo fatto abbastanza o se valeva la pena rischiare. Ma vai avanti perché non fare nulla significa essere complici. Denunci perché ci tieni. Renderai difficile agli assassini negare i loro crimini.
Questo mi porta al romanziere e drammaturgo palestinese Atef Abu Saif. Lui e suo figlio Yasser, 15 anni, che vivono nella Cisgiordania Occupata, stavano visitando la famiglia a Gaza, dove è nato, quando Israele ha iniziato la sua campagna di terra bruciata. Atef non è estraneo alla violenza degli occupanti israeliani. Aveva due mesi durante la guerra del 1973 e scrive: “Da allora ho vissuto guerre. Proprio come la vita è una pausa tra due morti, la Palestina, come luogo e come idea, è una pausa nel mezzo di molte guerre”.
Durante l’Operazione Piombo Fuso, l’assalto israeliano a Gaza del 2008/2009, Atef si è rifugiato nel corridoio della casa della sua famiglia a Gaza per 22 notti con sua moglie, Hanna e due figli, mentre Israele bombardava. Il suo libro: “The Drone Eats with Me: Diaries from a City Under Fire” (Mangiare in Compagnia dei Droni: Diari da Una Città Sotto il Fuoco), è un resoconto dell’Operazione Margine di Protezione, l’assalto israeliano del 2014 a Gaza che ha ucciso 1.523 civili palestinesi, tra cui 519 bambini.
“I ricordi della guerra possono essere stranamente positivi, perché per averli bisogna essere sopravvissuti”, osserva ironicamente.
Ha fatto ancora una volta quello che fanno gli scrittori, incluso il professore e poeta Refaat Alareer, che è stato ucciso, insieme al fratello, alla sorella e ai suoi quattro figli, in un attacco aereo sul condominio di sua sorella a Gaza il 7 dicembre. L’Ossevatorio Euro-Mediterraneo per i Diritti Umani ha affermato che Alareer è stato deliberatamente preso di mira, “bombardato chirurgicamente dall’intero dell’edificio”. La sua uccisione è avvenuta dopo settimane di “minacce di morte che Refaat ha ricevuto online e telefonicamente da utenti israeliani”. Si era trasferito da sua sorella a seguito delle minacce.
Refaat, il cui dottorato riguardava il poeta metafisico John Donne, a novembre scrisse una poesia, intitolata: “Se devo morire”, che divenne il suo lascito. È stata tradotta in numerose lingue. Una lettura della poesia dell’attore Brian Cox è stata vista quasi 30 milioni di volte.
“Se devo morire,
devi vivere
per raccontare la mia storia
per vendere le mie cose
per comprare un pezzo di stoffa bianca
e alcune corde,
per costruire un aquilone con una lunga coda
che un bambino, da qualche parte a Gaza
alzando gli occhi al cielo
in attesa di suo padre che se ne andò tra le fiamme
senza poter dire addio a nessuno
nemmeno alla sua carne
nemmeno a se stesso
vede l’aquilone, il mio aquilone che hai costruito,
volare lassù
e pensa per un momento che ci sia un angelo lì
per riportare l’amore
Se devo morire
lascia che porti speranza
fai che sia una storia da raccontare”
Atef, ritrovandosi ancora una volta a vivere tra le esplosioni e le carneficine causate dalle granate e dalle bombe israeliane, pubblica ostinatamente le sue osservazioni e riflessioni. I suoi resoconti sono spesso difficili da trasmettere a causa del blocco di Internet e del servizio telefonico da parte di Israele. Sono apparsi sul Washington Post, il New York Times, The Nation e Slate.
Il primo giorno del bombardamento israeliano, un amico, il giovane poeta e musicista Omar Abu Shawish, viene ucciso, apparentemente in un bombardamento navale israeliano, anche se rapporti successivi direbbero che è stato ucciso in un attacco aereo mentre stava andando al lavoro. Atef si interroga sui soldati israeliani che osservano lui e la sua famiglia con “le loro lenti a infrarossi e la fotografia satellitare”. Possono “contare le pagnotte di pane nel mio cestino, o il numero di polpette di falafel sul mio piatto?” si chiede. Osserva la folla di famiglie stordite e confuse, con le loro case in macerie, che trasportano “materassi, borse di vestiti, cibo e bevande”. Sta in silenzio davanti “al supermercato, all’ufficio di cambio, al negozio di falafel, alle bancarelle di frutta, alla profumeria, al negozio di dolciumi, al negozio di giocattoli, tutti bruciati”.
“Il sangue era ovunque, insieme a pezzi di giocattoli per bambini, lattine del supermercato, frutta spappolata, biciclette rotte e bottiglie di profumo frantumate”, scrive. “Il posto sembrava la fotocopia di una città bruciata da un drago”.
“Sono andato alla Sala della Stampa, dove i giornalisti scaricavano freneticamente immagini e scrivevano resoconti per le loro agenzie. Ero seduto con Bilal, il direttore della Sala Stampa, quando un’esplosione ha scosso l’edificio. Le finestre andarono in frantumi e pezzi del soffitto crollarono su di noi. Corremmo verso la sala centrale. Uno dei giornalisti sanguinava, colpito da schegge di vetro. Dopo 20 minuti ci siamo avventurati fuori per ispezionare il danno. Ho notato che le decorazioni del Ramadan erano ancora appese in strada”.
“La città è diventata un deserto di macerie e detriti”, scrive Atef, Ministro della Cultura dell’Autorità Palestinese dal 2019, nei primi giorni del bombardamento israeliano di Gaza City. “I bellissimi edifici cadono come colonne di fumo. Penso spesso a quando mi hanno sparato da bambino, durante la Prima Intifada, e a come mia madre mi ha detto che ero morto per pochi minuti prima di essere riportato in vita. Forse posso fare lo stesso questa volta, penso”.
Lascia il figlio adolescente con i familiari.
“La logica palestinese è che in tempo di guerra dovremmo dormire tutti in posti diversi, così che se una parte della famiglia viene uccisa, un’altra parte sopravvive”, scrive. “Le scuole delle Nazioni Unite sono sempre più affollate di famiglie sfollate. La speranza è che la bandiera dell’ONU li salvi, anche se nelle guerre precedenti non è stato così”.
Martedì 17 ottobre scrive:
Vedo la morte avvicinarsi, sento i suoi passi farsi più forti. Basta, penso che sia finito. È l’undicesimo giorno di conflitto, ma tutti i giorni sono confluiti in uno solo: lo stesso bombardamento, la stessa paura, lo stesso odore. Al notiziario leggo i nomi dei morti sul telescrivente in fondo allo schermo. Aspetto che appaia il mio nome.
Al mattino, il mio telefono squillò. Era Rulla, una mia parente della Cisgiordania, che mi diceva di aver sentito che c’era stato un attacco aereo a Talat Howa, un quartiere nella parte Sud di Gaza City dove vive mio cugino Hatem. Hatem è sposato con Huda, l’unica sorella di mia moglie. Vive in un edificio di quattro piani che ospita anche sua madre, i suoi fratelli e le loro famiglie.
Ho chiamato in giro, ma il telefono di nessuno funzionava. Sono andato all’Ospedale al-Shifa per leggere i nomi: gli elenchi dei morti sono affissi ogni giorno fuori da un obitorio improvvisato. Riuscivo a malapena ad avvicinarmi all’edificio: migliaia di abitanti di Gaza avevano fatto dell’ospedale la loro casa; i suoi giardini, i suoi corridoi, ogni spazio vuoto o angolo libero contenevano una famiglia. Ho desistito e mi sono diretto verso Hatem.
Trenta minuti dopo, ero sulla sua strada. Rulla aveva ragione. L’edificio di Huda e Hatem era stato colpito solo un’ora prima. I corpi della figlia e del nipote erano già stati recuperati; l’unico sopravvissuto conosciuto era Wissam, una delle loro altre figlie, che era stata portata in terapia intensiva. Wissam era stata subito operata, ha dovuto subire l’amputazione di entrambe le gambe e della mano destra. La sua cerimonia di laurea all’Istituto d’Arte aveva avuto luogo solo il giorno prima. Dovrà passare il resto della sua vita senza gambe, con una mano sola. “E gli altri?” Ho chiesto a qualcuno.
“Non riusciamo a trovarli”, fu la risposta.
Tra le macerie, abbiamo gridato: “C’è nessuno? Qualcuno ci sente?” Abbiamo chiamato i nomi di quelli ancora dispersi, sperando che qualcuno fosse ancora vivo. Alla fine della giornata eravamo riusciti a trovare cinque corpi, compreso quello di un bambino di tre mesi. Siamo andati al cimitero per seppellirli.
La sera andai a trovare Wissam in ospedale; era appena sveglia. Dopo mezz’ora, mi chiese: “Khalo (zio), sto sognando, giusto?”
Dissi: “Siamo tutti in un sogno”.
“Il mio sogno è terrificante! Perché?”
“Tutti i nostri sogni sono terrificanti”.
Dopo 10 minuti di silenzio, disse: “Non mentirmi, Khalo. Nel mio sogno, non ho le gambe. È vero, o no? Non ho gambe?”
“Ma hai detto che è un sogno”.
“Non mi piace questo sogno, Khalo”.
Dovevo andarmene. Per 10 lunghi minuti, ho pianto e pianto. Sopraffatto dagli orrori degli ultimi giorni, sono uscito dall’ospedale e mi sono ritrovato a vagare per le strade. Ho pensato che potremmo trasformare questa città in un set cinematografico per film di guerra. Film sulla Seconda Guerra Mondiale e film sulla fine del mondo. Potremmo affidarlo ai migliori registi di Hollywood. Il giorno del giudizio su richiesta. Chi avrebbe potuto avere il coraggio di dire ad Hanna, così lontana a Ramallah, che la sua unica sorella era stata uccisa? Che la sua famiglia era stata cancellata? Ho telefonato alla mia collega Manar e le ho chiesto di venire a casa nostra con un paio di amici e cercare di ritardare la notizia. “Mentile”, ho detto a Manar. “Supponiamo che l’edificio sia stato attaccato dagli F-16, ma i vicini pensano che Huda e Hatem fossero fuori in quel momento. Qualsiasi bugia che possa aiutare”.
Volantini in arabo lanciati dagli elicotteri israeliani scendono dal cielo. Annunciano che chiunque rimanga a Nord del corso d’acqua Wadi sarà considerato un complice del terrorismo, “il che significa”, scrive Atef, “che gli israeliani possono sparare a vista”. L’elettricità viene interrotta. Cibo, carburante e acqua cominciano a scarseggiare. I feriti vengono operati senza anestesia. Non ci sono antidolorifici o sedativi. Va a trovare sua nipote Wissam, tormentata dal dolore, all’Ospedale al-Shifa che gli chiede un’iniezione letale. Dice che Allah la perdonerà.
“Ma non perdonerà me, Wissam”.
“Glielo chiederò, a nome tuo”, dice.
Dopo gli attacchi aerei si unisce alle squadre di soccorso “sotto il ronzio simile a quello di un grillo dei droni che non potevamo vedere nel cielo”. Una frase di Thomas Stearns Eliot: “un mucchio di immagini spezzate”, gli passa per la testa. I feriti e i morti vengono “trasportati su biciclette a tre ruote o trascinati su carri bestiame”.
“Abbiamo raccolto pezzi di corpi mutilati e li abbiamo stesi su una coperta; trovi una gamba qua, una mano là, mentre il resto sembra carne macinata”, scrive. “La scorsa settimana, molti abitanti di Gaza hanno iniziato a scrivere i propri nomi sulle mani e sulle gambe, con penna o pennarello indelebile, in modo da poter essere identificati quando sopraggiunge la morte. Potrebbe sembrare macabro, ma ha perfettamente senso: vogliamo essere ricordati; vogliamo che le nostre storie vengano raccontate; cerchiamo la dignità. Per lo meno, i nostri nomi saranno sulle nostre tombe. L’odore dei corpi non recuperati sotto le rovine di una casa colpita la settimana scorsa rimane nell’aria. Più il tempo passa, più forte è l’odore”.
Le scene intorno a lui diventano surreali. Il 19 novembre, giorno 44 dell’aggressione, scrive:
Un uomo su di un cavallo viene verso di me con il corpo di un adolescente morto appoggiato sulla sella davanti. Sembra che sia suo figlio, forse. Sembra la scena di un film storico, solo che il cavallo è debole e riesce a malapena a muoversi. Non è tornato da nessuna battaglia. Non è un cavaliere. Ha gli occhi pieni di lacrime mentre tiene in una mano il frustino e nell’altra la briglia. Ho l’impulso di fotografarlo ma poi mi sento improvvisamente male all’idea. Non saluta nessuno. Alza appena lo sguardo. È troppo consumato dalla propria perdita. La maggior parte delle persone utilizza il vecchio cimitero del campo; è il più sicuro e, anche se tecnicamente è pieno da tempo, hanno iniziato a scavare tombe meno profonde e a seppellire i nuovi morti sopra i vecchi, tenendo insieme le famiglie, ovviamente.
Il 21 novembre, dopo continui bombardamenti di carri armati, decide di fuggire dal quartiere di Jabaliya, nel Nord di Gaza, verso il Sud, con il figlio e la suocera su una sedia a rotelle. Devono passare attraverso i posti di blocco israeliani, dove i soldati selezionano casualmente uomini e ragazzi dalla fila per la detenzione.
“Decine di corpi sono sparsi lungo entrambi i lati della strada”, scrive. “Marciscono a terra. L’odore è orrendo. Una mano si allunga verso di noi dal finestrino di un’auto bruciata, come se chiedesse qualcosa, specificatamente a me. Vedo quelli che sembrano due corpi senza testa in un’auto: arti e parti preziose del corpo sparse e lasciati a marcire”
Dice a suo figlio Yasser: “Non guardare. Continua a camminare, figliolo”.
All’inizio di dicembre la casa della sua famiglia viene distrutta da un attacco aereo.
“La casa in cui cresce uno scrittore è un pozzo da cui attingere materiale. In ognuno dei miei romanzi, ogni volta che volevo rappresentare una tipica casa nel campo, ho evocato la nostra. Spostavo un po’ i mobili, cambiavo il nome del vicolo, ma chi stavo prendendo in giro? È sempre stata casa nostra”.
“Tutte le case a Jabalya sono piccole. Sono costruite in modo casuale, approssimativo, e non sono fatte per durare. Queste case hanno sostituito le tende in cui vivevano i palestinesi come mia nonna Eisha dopo gli sfollamenti del 1948. Coloro che le costruirono hanno sempre pensato che presto sarebbero tornati nelle case belle e spaziose che avevano lasciato nelle città e nei villaggi della Palestina storica. Quel ritorno non è mai avvenuto, nonostante i nostri tanti rituali di speranza, come custodire la chiave della vecchia casa di famiglia. Il futuro continua a tradirci, ma il passato è nostro”.
“Anche se ho vissuto in molte città in tutto il mondo e ne ho visitate molte altre, quella minuscola dimora fatiscente è stato l’unico posto in cui mi sono sentito a casa”, continua. “Amici e colleghi mi chiedevano sempre: perché non vivi in Europa o in America? Hai l’opportunità. I miei studenti hanno chiesto: perché sei tornato a Gaza? La mia risposta era sempre la stessa: “Perché a Gaza, in un vicolo del quartiere Saftawi di Jabalya, c’è una casetta che non si trova in nessun’altra parte del mondo”. Se il giorno del giudizio Dio mi chiedesse dove vorrei per essere inviato, non esiterei a dire: ‘Casa.’ Ora non c’è più casa”.
Atef è ora intrappolato nel Sud di Gaza con suo figlio. Sua nipote è stata trasferita in un ospedale in Egitto. Israele continua a colpire Gaza provocando oltre 20.000 morti e 50.000 feriti. Atef continua a scrivere.
La storia del Natale è la storia di una povera donna, incinta di nove mesi, e del marito costretto a lasciare la loro casa a Nazaret, nel Nord della Galilea. La potenza romana occupante ha chiesto loro di registrarsi per il censimento a 150 chilometri di distanza, a Betlemme. Quando arrivano non ci sono stanze. Partorisce in una stalla. Re Erode, che apprese dai Magi della nascita del messia, ordina ai suoi soldati di dare la caccia a tutti i bambini dai due anni in giù a Betlemme e nei dintorni e di ucciderli. Un angelo avverte Giuseppe in sogno di fuggire. La coppia e il bambino fuggono col favore dell’oscurità e intraprendono il viaggio di 60 chilometri verso l’Egitto.
All’inizio degli anni ’80 mi trovavo in un campo profughi per guatemaltechi fuggiti dalla guerra in Honduras. I contadini e le loro famiglie, che vivevano nella sporcizia e nel fango, con i villaggi e le case bruciati o abbandonati, decoravano le loro tende con strisce di carta colorata per celebrare la Strage degli Innocenti.
“Perché è un giorno così importante?” chiesi.
“Fu in questo giorno che Cristo divenne un profugo”, rispose un contadino.
La storia di Natale non è stata scritta per gli oppressori. È stata scritta per gli oppressi. Siamo chiamati a proteggere gli innocenti. Siamo chiamati a sfidare il potere occupante. Atef, Refaat e quelli come loro, che ci parlano a rischio della morte, fanno eco a questa ingiunzione biblica. Parlano perché non rimaniamo in silenzio. Parlano, quindi prenderemo queste parole e immagini e le presenteremo ai principati del mondo: i media, i politici, i diplomatici, le università, i ricchi e i privilegiati, i produttori di armi, il Pentagono e i gruppi di lobby israeliani, che stanno orchestrando il Genocidio di Gaza. Il Cristo bambino oggi non giace sulla paglia, ma su un mucchio di macerie di cemento.
Il male non è cambiato nel corso dei millenni. Nemmeno il bene.
Chris Hedges è un giornalista vincitore del Premio Pulitzer, è stato corrispondente estero per quindici anni per il New York Times, dove ha lavorato come capo dell’Ufficio per il Medio Oriente e dell’Ufficio balcanico per il giornale. In precedenza ha lavorato all’estero per The Dallas Morning News, The Christian Science Monitor e NPR. È il conduttore dello spettacolo RT America nominato agli Emmy Award On Contact.
Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org