La recente invasione di 38 ore da parte di Israele del campo profughi di Nour Shams ha intensificato il suo attacco alla resistenza armata in Cisgiordania. I combattenti della Brigata Tulkarem dicono a Mondoweiss, “la resistenza non finirà: una generazione la passerà alla successiva”.
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Shatha Hanaysha – 5 gennaio 2024
Immagine di copertina. Un combattente della resistenza palestinese della Brigata Tulkarem nel campo profughi di Nour Shams, 31 dicembre 2023. (Foto: Shatha Hanaysha)
Giovedì 4 gennaio l’esercito israeliano si è ritirato dal campo profughi di Nour Shams dopo un’invasione durata 38 ore. Il ritiro ha fatto seguito a un’operazione militare che è stata descritta dai residenti come la più intensa che Tulkarem abbia affrontato dai tempi della Seconda Intifada.
Situato nella parte orientale di Tulkarem, nel nord della Cisgiordania, Nour Shams si traduce come “la luce del sole”. Forse il campo prende questo nome perché l’alba fa la sua prima apparizione nei vicoli del campo prima di illuminare il resto del mondo.
Nour Shams ospita anche la Brigata Tulkarem, un’organizzazione ombrello composta da combattenti della resistenza con diverse affiliazioni politiche, comprese le ali armate di Fatah, Hamas e la Jihad islamica palestinese. A differenza degli eponimi “Uomini nel sole” del classico romanzo di Ghassan Kanafani, morti senza resistenza, i combattenti palestinesi nel campo profughi di Nour Shams resistono in cerca della libertà.
Durante l’operazione durata due giorni, le forze israeliane hanno ferito 17 palestinesi con colpi di arma da fuoco e vi sono state numerose aggressioni fisiche. L’esercito ha inoltre bombardato due case, distrutto strade e infrastrutture e si è impegnato nella confisca e nel sabotaggio delle proprietà dei residenti, comprese case e strutture pubbliche e private. In una dichiarazione, l’esercito israeliano l’ha definita un’operazione ad ampio raggio che ha previsto arresti, interrogatori sul campo, la distruzione delle capacità militari della resistenza palestinese e la confisca delle armi.
Proprio come è avvenuto durante l’invasione di tre giorni del campo profughi di Jenin il mese scorso, le forze israeliane hanno ostacolato il lavoro delle ambulanze e hanno sparato ai giornalisti, impedendo loro di coprire l’incursione. I soldati israeliani hanno fatto irruzione nelle case e ne hanno convertito alcune in caserme militari e punti di osservazione. Hanno anche praticato dei buchi nei muri, ricordando la strategia militare dell’esercito israeliano nel campo profughi di Jenin nell’Operazione Scudo Difensivo del 2002.
L’Autorità per gli Affari dei Prigionieri ed Ex-Detenuti Palestinesi e la Società dei Prigionieri Palestinesi hanno riferito che le forze israeliane hanno arrestato e condotto indagini sul campo con 500 palestinesi, compresi bambini e donne. Circa 150 di loro sono stati trasferiti in uno dei suoi campi e alla fine 20 palestinesi sono stati arrestati
Uno dei detenuti rilasciati, che ha preferito non rivelare il suo nome, ha fornito un resoconto dei fatti.
“Quello che è successo è stata una massiccia invasione del campo”, ha detto a Mondoweiss. “Hanno demolito case, sfollato famiglie e distrutto proprietà come parte di una politica di punizione collettiva… questa è una politica di umiliazione”.
“All’interno delle case, le donne sono state detenute come forma di tortura psicologica”, ha continuato. “E poi, uomini e giovani sono stati trasportati con veicoli militari in aree come fabbriche o spazi aperti, facendo loro credere che li stavano portando in un luogo lontano”.
La natura degli interrogatori consisteva per lo più in domande di routine e tentativi da parte degli interrogatori di incitare i residenti del campo contro i combattenti della resistenza, ha detto a Mondoweiss.
“Vogliono che ci ribelliamo contro la resistenza e i giovani in essa coinvolti, e cercano di farci dire qualcosa contro di loro”, ha spiegato il detenuto rilasciato. “Hanno ripetutamente affermato che la distruzione e la situazione attuale sono colpa loro e che dovremmo opporci alla resistenza”.
Dopo il loro rilascio, sono stati riuniti in una moschea ed è stato loro impedito di tornare alle loro case.
“Non sapevamo nulla delle nostre famiglie”, ha continuato. “Non potevamo comunicare con loro perché hanno preso i telefoni delle donne e delle ragazze, rimaste confinati nelle loro case per due giorni senza che potessimo sapere nulla di loro, isolati dal mondo”.
“Quando imbracciamo le nostre armi, smettiamo di sentirci umiliati”
L’esercito israeliano aveva già fatto irruzione a Nour Shams il 31 dicembre, quattro giorni prima di quest’ultima incursione. Ero nel campo e ho visto i momenti immediatamente successivi al ritiro dell’esercito. Come è consuetudine, alla fine di ogni incursione israeliana, decine di residenti del campo escono per valutare le conseguenze dell’invasione, che tipicamente comportano la distruzione di case e strade.
Dai vicoli erano emersi i combattenti della Resistenza,con abiti sporchi, con gli occhi visibilmente stanchi nonostante le maschere nere che coprivano i volti, imbracciando ancora le armi e restando in allerta.
I combattenti avevano osservato la distruzione del campo e avevano iniziato a rastrellare negozi e case nelle vicinanze, anticipando la presenza delle forze israeliane rimaste indietro per una potenziale imboscata, soprattutto nelle aree abbandonate – un combattente ha detto che l’esercito lo aveva già fatto in precedenza nel campo profughi di Jenin.
“Con un’invasione durata 12 ore e l’ingresso di una grande forza militare, non hanno potuto fare altro che sfogare la loro rabbia su alcune case, rocce e alberi”, aveva detto un combattente della resistenza di 19 anni. “Quando non possono, ricorrono agli attacchi aerei, ma siamo diventati più consapevoli su come evitarli”.
Tulkarem è diventata un campo di battaglia negli ultimi mesi, poiché l’esercito israeliano ha approfittato della guerra a Gaza per cercare di sradicare la resistenza armata in Cisgiordania. Il peso della recente offensiva israeliana in Cisgiordania è stato sopportato dal campo profughi di Jenin, soprattutto durante il raid di tre giorni il mese scorso, che ha trasformato il campo in una “piccola Gaza”. In quei raid, l’esercito mirava ad assassinare o arrestare i combattenti della resistenza della Brigata Jenin, uno dei gruppi armati più importanti che opera anche come organizzazione ombrello che comprende combattenti di diverse fazioni.
Ora, l’esercito israeliano ha rivolto la sua attenzione a Tulkarem, in particolare al campo profughi di Nour Shams. L’obiettivo principale della sua rinnovata campagna è la Brigata Tulkarem.
Ciò che distingue la Brigata Tulkarem, secondo i residenti di Nour Shams, è ciò che chiamano la sua “ferocia”. I combattenti della Resistenza del gruppo sono impegnati in quelli che molti considerano gli scontri armati più intensi in Cisgiordania, che comportano lo scambio di munizioni vere e il targeting di veicoli militari israeliani con esplosivi di produzione locale.
La Brigata pubblica spesso video sul suo canale Telegram, evidenziando le perdite subite dall’esercito israeliano durante i suoi raid. Ciò che ha attirato la mia attenzione durante il raid più recente è stato il fatto che la Brigata ha continuato ad aggiornare il canale e a riferire sulle operazioni del gruppo contro i soldati israeliani anche durante il raid durato 36 ore. Dopo la conclusione dell’operazione militare, la Brigata ha rilasciato una dichiarazione indirizzata ai residenti del campo:
“I vostri soldati, le truppe della Brigata, sono stati una spina nel fianco dell’esercito israeliano organizzando imboscate, lanciando ordigni esplosivi e distruggendo a distanza auto con trappole esplosive, provocando vittime tra le loro forze in diverse zone del campo. Diciamo al nemico che nasconde ciò che è accaduto: la vostra sconfitta e la vostra umiliazione si manifesteranno sul suolo del campo e domani assisterete ad una resa dei conti ravvicinata”.
Queste invasioni militari di Nour Shams sono diventate una routine dal 7 ottobre.
“Ogni giorno c’è un’incursione”, ha detto a Mondoweiss il giovane combattente della resistenza. “Tuttavia, questo non ci influenzerà, né indebolirà la nostra determinazione. Fin dalla nostra infanzia viviamo sotto occupazione e non vediamo il nostro Paese”.
La maggior parte dei combattenti della resistenza sono nella tarda adolescenza o ventenni, il che significa che la maggior parte di loro è nata durante o subito dopo la Seconda Intifada. Nessuno di loro ricorda di aver vissuto in un paesaggio non deturpato dai checkpoint e dalla presenza militare israeliana.
“Vivere nel campo è come essere in una prigione. Prima di unirmi alla resistenza, vivevo come qualsiasi altro giovane: lavoravo, tornavo a casa e passavo il tempo con gli amici”, ha continuato il combattente della resistenza. “Ma ciò che mi ha cambiato e mi ha fatto pensare alla resistenza è stato quando sono uscito da Tulkarem. Ci sono molti posti di blocco e al posto di controllo ci sono perquisizioni, umiliazioni, percosse e abusi verbali. L’occupazione ci ha costretto su questa strada. Quando portiamo le nostre armi, ci sentiamo vittoriosi e smettiamo di sentirci umiliati. Invece, proviamo orgoglio. Ogni volta che entrano nel campo, li facciamo uscire umiliati, ed è allora che ritroviamo la nostra dignità”.
Quando gli ho chiesto quali fossero i suoi sogni per il futuro, la sua risposta e’ stata una conseguenza della realtà impostagli dall’occupazione.
“Il mio sogno è la vittoria o seguire le orme dei miei amici”, ha detto. “Quattro dei miei amici sono stati martirizzati di recente. Uno dei miei amici è stato ucciso proprio davanti a me e non era nemmeno un combattente: era un civile. A Dio piacendo, vendicheremo i nostri martiri a caro prezzo”.
Un altro membro della resistenza ha parlato dell’impegno solenne dei combattenti a resistere anche sapendo che sarebbero morti.
“L’occupazione non ci colpirà con le sue ripetute invasioni e non indebolirà la resistenza”, ha detto con chiarezza il combattente. “Questa è una tattica di pressione; l’occupazione stessa lo è e, ovviamente. Continueranno a fare questo e altro ancora. Lo ripeteranno, una, due e dieci volte, ma non ci influenzerà”.
“Resistiamo perché questa è la nostra terra, la nostra dignità e il nostro onore – e per la nostra gente a Gaza, in Cisgiordania e nelle terre del ’48”, ha continuato. “Ci viene imposto di resistere… mi aspetto di essere martirizzato – oggi, stasera, domani, in qualsiasi momento. Ma la resistenza continuerà. A un combattente della resistenza succederà un altro. La resistenza non finirà, una generazione la trasmetterà a quella successiva, noi la trasmetteremo alla generazione dopo di noi”.
Si trovava con il suo compagno sui resti di un bulldozer militare israeliano nel cortile del campo di Nour Shams. Il bulldozer è una testimonianza delle più recenti innovazioni dei combattenti nel difendere le loro case contro la forza militare perennemente invasiva, impiegando IED per tendere imboscate ai soldati e ai veicoli israeliani, insistendo nel pretendere un prezzo elevato per ogni assalto israeliano.
“Vorrei poter vivere anche un solo giorno senza occupazione”
Ci troviamo nel mezzo di un vicolo nel quartiere di Al-Manshiyah a Nour Shams, comunemente soprannominato dai residenti del campo il “vicolo dell’orrore” dell’esercito israeliano. Il cielo è nascosto da un telone di plastica predisposto dai combattenti della resistenza per impedire agli aerei da ricognizione israeliani di osservarli, monitorarli e prenderli di mira.
Dopo l’invasione del 31 dicembre, ho incontrato un combattente della resistenza di 19 anni. Suo fratello era un combattente ucciso da un attacco aereo israeliano durante uno scontro armato.
Mi informa che ha lasciato l’università, dove studiava odontoiatria, per unirsi alla resistenza. Ha descritto la sua gioia nell’acquisire un’arma, paragonandola al sentimento di un padre che tiene in braccio il suo primo figlio.
Mi racconta di suo fratello martire. “Il mio rapporto con mio fratello era più che semplice fratellanza”, ha detto. “Era mio amico. Era un amico di mio padre, di mia madre, di tutti. La sua morte è ciò che mi ha spinto a intraprendere questa strada. Era la sua volontà: è stato lui a spingermi verso la resistenza”.
“Ero con mio fratello quando è stato ucciso”, ha spiegato. «Alcuni altri e io lo abbiamo trasportato. Inizialmente aveva pulsazioni e respirava leggermente, ma non era cosciente, a differenza del suo amico che ci parlava. Ma poi sono morti entrambi”.
Come tutti i suoi compagni combattenti della resistenza, mi ha detto che sogna di liberare la sua patria, che questo gli dà la spinta per andare avanti.
“Sono un rifugiato e il mio sogno è tornare nella patria da cui siamo stati sfollati”, ha spiegato. “Il mio sogno, come il sogno di ogni persona libera e onorevole, è liberare la Palestina dall’occupazione. Vorrei poter vivere solo per un giorno senza occupazione”.
Dopo aver parlato con lui, ho visitato la sua casa di famiglia e ho incontrato suo padre, che, decenni fa, era stato anche lui un combattente della resistenza nelle Brigate dei Martiri di Al-Aqsa, l’ala militare di Fatah. Era stato imprigionato per diversi anni nelle carceri israeliane.
“Ero un combattente della resistenza durante la Prima e la Seconda Intifada, e oggi mio figlio è un combattente della resistenza”, mi ha detto. “E anche il mio [altro] figlio è un martire e un combattente della resistenza. I miei figli sono cresciuti per continuare la nostra missione”.
“In Palestina ereditiamo la resistenza e il fucile, da una generazione all’altra”, ha continuato. “È diventato naturale per coloro che vivono sotto occupazione. La resistenza è presente nei nostri cuori e nella nostra coscienza. Questo è quello che ho insegnato ai miei figli”.
“Considero tutti questi giovani come miei figli”, ha aggiunto, riferendosi ai combattenti nel campo. “Mi preoccupo per loro, e quando i soldati israeliani si ritirano dal campo, corro a controllarli e ad assicurarmi che stiano bene”.
Suleiman Zuhairi, un leader locale di Fatah nel campo, dice a Mondoweiss che negli ultimi due mesi a Nour Shams sono state martirizzate 27 persone, la maggior parte delle quali bambini. Un numero significativo di loro è stato ucciso a causa del ritardo delle ambulanze in quanto l’esercito ha impedito loro di raggiungere l’ospedale.
“Durante i raid, i residenti non possono raggiungere le cliniche dell’UNRWA all’interno del campo, perché sono chiuse”, spiega Zuhairi. “Le ambulanze vengono trattenute e viene loro impedito di avvicinarsi al campo. La maggior parte di coloro che sono stati uccisi di recente sono morti dissanguati, le loro ferite non erano gravi”.
Zuhairi aggiunge che la distruzione del campo da parte dei bulldozer dell’esercito israeliano e occasionali attacchi aerei hanno causato il collasso delle sue infrastrutture.
“Alcune aree sono state scavate più volte e distrutte più volte”, afferma Zuhairi. “L’acqua, l’elettricità, le reti fognarie, tutto è stato dissotterrato e distrutto, e persino le moschee sono state attaccate”.
Anche la distruzione delle case è significativa, poiché l’esercito israeliano ha praticato buchi nei muri, sfondato porte e distrutto finestre. “Ora abbiamo più di 100 case senza finestre o porte”, ha detto Zuhairi.
Mentre camminavo per le strade del campo all’indomani del raid, osservavo le persone che tornavano alle loro case, scambiandosi saluti ed esprimendo gioia per il fatto che fossero al sicuro. Ogni volta che passavano davanti a una casa o a un negozio distrutto, rassicuravano il proprietario, dicendo: “Non importa, i soldi possono essere risarciti, ciò che conta è che tu e la tua famiglia siate al sicuro”.
Lo svolgersi della scena mi ha riportato al campo profughi di Jenin: la stessa scena, le stesse conseguenze, che si ripetono ancora e ancora.
Shatha Hanay è una giornalista palestinese con sede a Jenin, nella Cisgiordania occupata.
Traduzione di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali” – Invictapalestina.org