La Palestina non è solo guerra. C’è una vita oltre la guerra, l’occupazione militare e i posti di blocco. E c’è anche una cucina che non è di campo, ma di casa.
di Giulia Ubaldi – Valori.it – 29 gennaio 2024
Forse voi oggi stenterete a crederci. Ma vi assicuro che è tutto vero. C’è stato un tempo in cui “eravamo tutti palestinesi”, in quanto abitanti della Palestina. Non importava se eri musulmano, cristiano o ebreo perché la religione era secondaria e la politica ancor di più», mi ha detto Armani. Certo, difficile immaginarla oggi questa convivenza.
Le cose sono cambiate dopo la creazione dello Stato di Israele. Quando per sostenere il mito del Paese e di conseguenza legittimarne l’esistenza, è iniziato un processo di occupazione e di appropriazione. Anche culturale ovvio, perché la cultura è la cosa più difficile da rubare ma allo stesso tempo è anche la più potente. «Così anche in cucina, ad esempio, hanno iniziato ad etichettare il cibo palestinese come israeliano, proprio quello stesso cibo che prima apparteneva a tutti e veniva condiviso». Ma ormai si sa, l’occultamento delle tradizioni è uno degli aspetti di questa politica di espropriazione e disumanizzazione, che non dà più spazio ad alcuna forma di espressione.
Ecco, quando sono andata per la prima volta in Palestina, non avevo ancora conosciuto Armani. In realtà non ero nemmeno così informata su tutta la lunga e complessa storia che negli ultimi anni ha lacerato questa terra, come tanti altri presunti saccenti. Perché è una storia difficile, troppo.
È come essere davanti ad una porta e non aprirla
Sono arrivata a Tel-Aviv nel dicembre del 2019 con Carlo. Dopo la lettura del Breviario Mediterraneo di Predrag Matvejevic, mi era venuta una sete inarrestabile di divorarmi il Mediterraneo, di andare alla ricerca di ciò che unisce, accomuna o separa i vari Paesi che affacciano su questo mare. Anche se la Palestina, il più delle volte, non appariva tra questi. O meglio, non appariva praticamente da nessuna parte. La prima sensazione che ho avuto all’aeroporto è rimasta la stessa nelle ore e nei giorni a seguire; strano, di solito cambiano. Ed era quella di sentirmi di fronte ad una porta e di non aprirla. Come se la Palestina fosse il cuore più rovente e dolente di quella terra, di cui i locali di Tel-Aviv non sono che una luccicante facciata.
In realtà c’è stato un locale in particolare, uno degli innumerevoli presenti in quella città, estremamente emblematico da questo punto di vista: da fuori si vede solo un grande portone, come di una casa, di un palazzo; poi, una volta aperto, dentro è pieno di locali su più piani che fanno musica, sempre frequentati da una marea di gente. Ma io dopo quella sera volevo aprire un’altra porta: quella che porta in Palestina. Che poi è in realtà, più che una porta che si apre, è un muro che si chiude. Il muro più grande che ci sia, forse non per dimensioni, ma sicuramente perché racchiude tutti i conflitti del mondo.
Gerusalemme, uno shangai di equilibri, e Hebron, la città divisa
Siamo passati prima da Gerusalemme, che se per molti è una città santa, piena di energia sacra e profonda spiritualità, io l’ho trovata uno shangai umano e religioso di equilibri così sottili da poter crollare da un momento all’altro. Anche se indubbia è ovviamente la bellezza e la potenza di questa città, soprattutto della Moschea al-Aqsa. Siamo poi andati al campo profughi di Dheisheh Camp, qualche chilometro fuori da Betlemme, perché avevamo prenotato su Airbnb un alloggio presso una famiglia che stava lì. Lì, dove il complesso di case è ricoperto di murales con i volti delle persone che proprio lì sono state uccise.
Appena arrivati siamo andati a Hebron, la città di Abramo, che paradossalmente vuol dire amico. È tutta divisa in due tra israeliani, tendenzialmente nelle abitazioni più in alto e palestinesi, in quelle più in basso. Per questo motivo, ci sono delle reti che ricoprono la città, perché spesso vengono lanciate delle cose dall’alto verso il basso, come lattine o altro. Le strade non si incrociano con altre strade come in qualsiasi altra città, ma con un muro, che alla fine di ogni via separa le due parti. Persino la Tomba dei Patriarchi è divisa in due: da una parte c’è la moschea interdetta agli israeliani e dall’altra la sinagoga, più che proibita ai palestinesi. Ma noi, in quanto turisti, siamo potuti entrare da entrambe le parti. E pensate che dal 2017, l’UNESCO l’ha dichiarata Patrimonio dell’Umanità…
Il mansaf, uno dei piatti più palestinesi che ci siano
Ci siamo mangiati dei falafel, che in Palestina si trovano ovunque, preparati al momento all’angolo di ogni strada. E poi anche dei fatayer, dei fagottini di carne o spinaci, altro street food palestinese per eccellenza. La sera Shimaa, da cui alloggiavamo, ci ha preparato il mansaf, che è uno dei piatti più palestinesi che ci siano. Perché?
Perché trovandosi ormai a “convivere” da anni, molti piatti come humus o falafel, si trovano da entrambi i lati del muro, mentre questo no, perché non rispetta le regole dell’alimentazione kosher, che vieta il consumo di carne e di latticini nello stesso pasto, che non vanno nemmeno cucinati o lavorati insieme. E nel mansaf c’è la carne di agnello o di capretto con il formaggio di capra o di pecora. «Non si può bagnare la carne del figlio con il latte della sua mamma».
La colazione palestinese, abbondante e salata
Il giorno dopo siamo andati a Betlemme, sempre con Shimaa, dove abbiamo fatto colazione con il ful (una sorta di humus di fave) e falafel. Non dimentichiamo che i palestinesi sono in origine un popolo di allevatori e coltivatori, abituati a lavorare in campagna (avete mai provato l’olio palestinese?), per cui la colazione è rimasto uno dei pasti più importanti della giornata: abbondante, salata e nutriente, deve dare energia per tutto il giorno.
A pranzo io mi sono divorata in macchina una shawarma, una sorta di kebab in versione palestinese e mi ricordo che Shimaa si era molto divertita vedendomi mangiare così. In realtà c’è stato un altro episodio divertente: ad un certo punto ha iniziato a piovere molto forte e io e Carlo abbiamo tirato fuori l’ombrello, anche se non c’erano molte altre persone che lo avevano. In Palestina ci sono tantissimi problemi legati all’acqua e alle tubature, per cui quando piove nel giro di pochissimo tempo si allaga tutto. Un gruppo di ragazzi che usciva da scuola vedendoci sotto l’ombrello ha iniziato a guardarci e a ridere senza smettere più. Non abbiamo mai capito perché.
La Palestina non è solo guerra
Sul volo di ritorno, alternavo stati d’animo contrastanti: da un lato volevo ritornare in Palestina il prima possibile, dall’altro non volevo ritornarci mai più. Perché questo conflitto è talmente grande da diventare quasi personale; ve ne siete mai accorti quando parlate con qualcuno che non è d’accordo con voi? È insanabile, e non si troverà mai una soluzione perché una soluzione non c’è. E gli anni passati e soprattutto presenti purtroppo mi hanno dato ragione. Sempre Matjevic nel suo breviario scrive che «non c’è una regola secondo la quale si possa stabilire dove cessa l’appartenenza a una terra nella quale hanno vissuto gli antenati di un popolo o fissare il termine con cui si vanifica il diritto dello stesso popolo a quella terra».
Ma la Palestina non è solo guerra. C’è una vita oltre la guerra, l’occupazione militare e i posti di blocco. E c’è anche una cucina che non è di campo, ma di casa. È quella che ho cercato di raccontare quando sono tornata, tenendo una rubrica per un anno sulla cucina palestinese su La Cucina Italiana, perché credevo che fosse uno dei modi per legittimare l’esistenza di questo Stato che non si sentiva nemmeno nominare. E invece è una cucina con una storia, così come quella di quasi tutti i popoli; una cucina che cerca di resistere soprattutto per tramandarsi e per ricordarsi, in primis di sé stessa.
La cucina palestinese arriva al Laboratorio di Antropologia del Cibo
Quando ho aperto il LAC, il mio Laboratorio di Antropologia del Cibo a Milano, con 30 cucine da tutto il mondo, volevo assolutamente che ci fosse quella palestinese e Majdulin è arrivata subito, sul mio balcone, proponendosi a poche ore dal mio annuncio, con un colloquio fatto a casa mia perché eravamo ancora in periodo di Covid. La prima cosa che mi ha detto è stata: «Te lo dico subito, sono palestinese, ma non sono mai andata in Palestina perché non posso».
Con Majdulin ci siamo trovate all’istante e continuiamo a trovarci, perché ha una sensibilità, una visione del mondo e uno sguardo sulle cose per me rari, che ho incontrato e conosciuto raramente. In questi anni Majdulin mi ha detto delle frasi che mi sono rimaste impresse e che spesso mi risuonano nella testa. Poi ho conosciuto anche sua mamma, Sahar, con la quale oggi tengono insieme il corso e così ho capito che… Una mela non cade mai troppo lontano dall’albero! Al LAC fanno Qedra, il piatto per eccellenza di Hebron, che riscuote sempre un grandissimo successo. Ma il piatto con cui i palestinesi si identificano di più, quello con cui esprimono tutta la loro esistenza come sinonimo di resilienza, è senza dubbio il maqloubeh, uno dei piatti più diffusi nelle case.
Il maqloubeh, piatto tipico della cucina palestinese e sinonimo di resilienza
In arabo significa rovesciato, sottosopra, ribaltato perché il riso viene capovolto dalla pentola prima di essere servito; rovesciato e capovolto, proprio come la loro storia e la loro esistenza. È proprio questa, infatti, la caratteristica principale di questo piatto: il fatto che, pochi istanti prima di essere consumato, viene appunto capovolto su un largo piatto “piatto” e poi portato in tavola. Sono sempre attimi di suspense, momenti cruciali in cui i commensali fanno un’ovazione, poiché non è affatto semplice rigirare la pentola in quel mondo. Anzi, capita spesso che il riso si sfaldi, ma tanto il gusto non cambia!
Quando mia nonna, milanese, l’ha visto girare da Sahar e Majdulin per la prima volta ha detto: «Ma è come la polenta!» Il cibo si conferma sempre uno strumento di incontro potente.
Giulia Ubaldi è un’antropologa, in particolare del cibo, e una giornalista, che collabora con diverse testate. A Milano ha fondato il LAC – Laboratorio di Antropologia del Cibo, un luogo con 30 cuochi provenienti da tutto il mondo, in cui persone e cucine si incontrano, ogni volta in modo diverso.