Agonia e dolore: Gli operatori sanitari statunitensi riflettono sulla guerra di Gaza

L’infermiere Omar Sabha condivide la sua esperienza di cura dei pazienti nei pressi di Gaza City, mentre Israele continua la guerra nell’enclave.

Fonte: English version

di Mohammed Zain Shafi Khan, 2 luglio 2024

Immagine di copertina: Omar Sabha posa per una foto sul Mar Mediterraneo durante una missione medica di volontariato a Gaza [Per gentile concessione di Omar Sabha].

I ricordi di notte lo tengono sveglio. Basta che un telefono cellulare vibri o che un aereo voli basso sopra di lui e la sua mente torna di scatto a Gaza, dove gli aerei da guerra solcano il cielo e i droni a basso volume annunciano attacchi imminenti.
Omar Sabha, 44 anni, di Orange County, California, ha trascorso solo 10 giorni a Gaza. Ma ciò che lui e il personale medico americano hanno vissuto lì li ha lasciati alle prese con la portata del disastro umanitario che si sta verificando.
Gaza è sottoposta all’assalto militare israeliano dall’ottobre dello scorso anno. Più di 37.900 palestinesi sono stati uccisi e altri 87.000 sono stati feriti, mettendo a dura prova un sistema sanitario già a pezzi.
E poi ci sono le accuse di violazione dei diritti umani. Quando Sabha ha attraversato per la prima volta il confine tra Gaza e l’Egitto, ad aprile, ha raccontato ad Al Jazeera di essere stato catapultato in una scenario caotico.
I camion erano ovunque. La gente si affannava a raccogliere i propri bagagli. In mezzo a loro, Sabha ha notato un uomo che trasportava uova, una vista apparentemente strana. In seguito scoprì che quell’uomo lavorava per World Central Kitchen, un’organizzazione no-profit che consegna cibo ai palestinesi alla fame.
Quella è stata l’ultima volta che Sabha ha visto l’uomo e la sua squadra vivi. “Sono partiti 20 minuti prima di me”, ha raccontato. “Quaranta minuti dopo il nostro arrivo in ospedale, sono stati portati qui morti”.
Sono stati i primi cadaveri che Sabha ha visto al suo arrivo all’ospedale Al-Aqsa Martyrs di Deir el-Balah, a sud di Gaza City.
Le forze israeliane avevano bombardato il convoglio degli operatori umanitari – qualcosa che il governo israeliano ha descritto come un incidente, ma che i gruppi per i diritti hanno definito un possibile crimine di guerra.
Ancora oggi, Sabha è tormentato dal frastuono degli attacchi aerei che ha sentito. “Quel suono non si spegne mai nella mia testa”, ha detto.

Ispirato dal dolore

Padre di due figli, calvo e con la faccia tonda dal sorriso cordiale, Sabha stava cercando di cambiare carriera quando ha deciso di diventare un infermiere specializzato. In precedenza aveva prestato servizio nel Corpo dei Marines degli Stati Uniti e gestito una palestra.
L’ingresso in medicina di Sabha coincide con l’inizio della guerra di Israele a Gaza. Il 7 ottobre 2023, il gruppo palestinese Hamas ha lanciato un attacco nel sud di Israele e Israele ha risposto con una dichiarazione di guerra.
Meno di tre settimane dopo, il 23 ottobre, Sabha si è laureato alla West Coast University in California con il diploma di infermiere di sala operatoria.
Ma le notizie dalla sua famiglia allargata a Gaza hanno interrotto il felice evento. Un attacco di droni israeliani aveva ucciso alcuni dei suoi parenti.
“Un’ora dopo essermi laureato e superati gli esami, l’edificio di mio cugino di secondo grado è stato bombardato e 20 di loro sono stati uccisi”, ha raccontato Sabha. “Sono stato sopraffatto dal senso di colpa, dal dolore e sono rimasto sconvolto”.
Alla fine ha deciso di fare volontariato con Humanity Auxilium, un’organizzazione sanitaria senza scopo di lucro che fornisce assistenza medica nelle aree di conflitto e nelle regioni colpite da disastri naturali.

Sulle orme di suo fratello

Sabha è arrivato a Gaza proprio mentre suo fratello minore Mahmoud Sabha, 39 anni, stava concludendo una missione con la stessa organizzazione. Il loro soggiorno si è incrociato per un paio di giorni.
Medico residente in Texas, Mahmoud aveva lasciato gli Stati Uniti a marzo, sapendo che il viaggio a Gaza comportava dei rischi.
A maggio, il Ministero della Sanità di Gaza ha riferito che più di 493 operatori sanitari sono stati uccisi a Gaza dal 7 ottobre. Altri 214 sono stati arrestati dalle forze israeliane, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità.
L’esercito israeliano ha anche effettuato più di 400 attacchi alle strutture sanitarie dell’area. Ha ammesso di aver condotto attacchi aerei contro ambulanze e cliniche, che secondo i gruppi per i diritti potrebbero costituire violazioni del diritto umanitario internazionale.
Israele, tuttavia, ha negato di aver commesso illeciti, affermando di aver preso di mira i combattenti di Hamas.
Per Mahmoud, affrontare i pericoli per il personale medico a Gaza significava prepararsi alla propria morte prima della partenza.
“Ci siamo assicurati di redigere il testamento prima di partire, perché c’era sempre la possibilità di venire bombardati o rimanere bloccati lì”, ha detto Mahmoud. “Sapevamo che c’era la possibilità di morire”.
Quando Mahmoud ha incontrato a Gaza suo fratello, gli sono balenate in mente paure simili.
“Quando sono partito, ho iniziato a preoccuparmi per lui, anche se mi ero trovato in quella stessa condizione solo pochi giorni prima”, ha raccontato Mahmoud. “Desideravo poterlo vedere più a lungo”.

Confortati dai colleghi

Ma Sabha non è arrivato a Gaza da solo. Ha viaggiato con il suo amico Jawad Khan, un medico ortopedico di 40 anni specializzato in chirurgia della mano.
I due uomini hanno condiviso una stanza durante il loro soggiorno nell’enclave palestinese e si sono spesso confidati le loro esperienze.
A differenza di Sabha, Khan era alla sua terza missione medica volontaria, avendo già prestato servizio nella città cisgiordana di Ramallah nel 2012 e nel 2017. Ma questo viaggio è stata la sua prima volta a Gaza, devastata dalla guerra.
“È stata una sensazione veramente surreale”, ha detto Khan. “Si avvertivano subito i segni della guerra”.
Khan ricorda ancora il suo primo caso come se fosse ieri: ha dovuto curare una bambina di otto anni che era stata colpita al braccio.
Stava giocando con le sue sorelle quando i droni israeliani hanno sparato a tutte e quattro. Una è morta e due sono state colpite alla gamba, ha detto Khan.
“È un fatto che mi tocca da vicino perché ho una figlia della stessa età”, ha aggiunto Khan. Secondo le sue stime, più del 75% delle persone che ha curato erano bambini, di età inferiore ai 18 anni.
Nel frattempo, nel suo ruolo di infermiere, Sabha ha assistito agli interventi chirurgici, spesso eseguendo amputazioni. Le ferite più comuni che ha riscontrato sono state ferite mortali da schegge.
“All’inizio avevo paura. Avevo paura dei droni, delle bombe e di tutto il resto. Ma poi ti guardi intorno e vedi gli altri”, ha spiegato Sabha. “È da lì che prendi il coraggio”.
Persino il costante frastuono degli attacchi aerei cominciava a essere confortante: “Le bombe arrivano e fanno tremare l’edificio. Se lo senti, significa che sei vivo”.
Sabha e Khan hanno anche detto di essersi aiutati a vicenda a superare gli orrori, parlando di ciò che avevano visto.
“Penso che con quelle conversazioni, sai, siamo stati entrambi in grado di elaborare le nostre emozioni”, ha spiegato Khan.

Poche risorse ma tanti pazienti

Anche l’ospedale in cui Sabha e Khan erano di stanza era sotto pressione. Progettato per 200 persone, secondo Sabha ne ospitava più di 10.000.
Molti pazienti soffrivano di gravi ferite. Altri rischiavano amputazioni. Pochi avevano un altro posto dove andare.
Sabha ha ricordato che c’era solo “un bagno ogni 200-300 persone”. I medici, nel frattempo, hanno dovuto improvvisare il pronto soccorso.
“Quando i pazienti arrivano al pronto soccorso, non c’è un letto per loro. Li visitano a terra”, ha detto Sabha. “Nel corridoio dell’ospedale si salta sempre sulla gamba di qualcuno, su un corpo”.
Sabha ricorda di aver visitato dai 20 ai 30 pazienti al giorno, il tutto mentre digiunava per il mese sacro del Ramadan. Musulmano praticante, sopravviveva con quattro ore di sonno e circa due barrette proteiche al giorno.
Ma il volume dei pazienti non si limitava a mettere a dura prova lo spazio limitato dell’ospedale: ne ha anche ridotto le risorse. Dal 7 ottobre, Gaza è sottoposta a un assedio più intenso, con scarsità di cibo, acqua e forniture mediche.
Ciò significa che Sabha e Khan hanno dovuto lavorare con farmaci e strumenti limitati.
“Abbiamo dovuto essere molto creativi e uscire dalla nostra zona di comfort”, ha detto Khan. Ha spiegato che, in circostanze normali, “quando ripariamo le fratture, usiamo certi tipi di viti, certi tipi di placche, certi tipi di aste”.
Ma a Gaza “abbiamo dovuto usare impianti sbagliati per sistemare qualcosa, perché era l’unica cosa disponibile”.
La situazione sanitaria era resa ancora più grave dalle infrastrutture fatiscenti di Gaza. I continui bombardamenti hanno lasciato gli edifici indeboliti e instabili, e la mancanza di servizi igienici ha fatto dilagare le zanzare.
“Non c’è un sistema igienico-sanitario in questo momento. L’immondizia si sta accumulando. Quindi l’odore è presente ovunque”, ha detto Khan.
“Immaginate di passare accanto a una discarica di rifiuti. Non è un odore piacevole”.

Affrontare la violenza

Ancora oggi, a distanza di mesi dalla sua esperienza, Sahba fatica a fare i conti con la situazione a Gaza.
“Agonia e dolore per tutto il tempo. E vi dico che la scena era surreale. Faccio fatica a togliermi quell’immagine dalla testa perché è così vivida”, ha detto.
Ricorda di essere scoppiato a piangere nella sua stanza d’ospedale dopo aver curato i pazienti. Una bambina di otto anni di nome Dana è arrivata con ustioni che coprivano circa il 70% del suo corpo, ha detto.
Mentre continua la sua carriera di infermiere negli Stati Uniti, ha ancora dei flash dello spargimento di sangue a cui ha assistito.
Quando si lava le mani con il Betadine antisettico per sterilizzarsi prima di entrare in una sala operatoria, l’odore lo riporta a Gaza. La stessa cosa accade quando sente l’odore di carne bruciata mentre cauterizza le ferite.
“Per i primi due giorni in cui sono tornato in ospedale, è stato molto traumatizzante per me”, racconta Sabha. “È stato estremamente difficile”.
All’inizio non si era reso conto del peso che la visita aveva avuto su di lui, ma da allora ha deciso di rivolgersi a un psicologo.
“Mi farò aiutare da un professionista per il PTSD [disturbo da stress post-traumatico]”, ha detto, aggiungendo: “Sono molto depresso. Piango in continuazione”.
Ma spera, condividendo le sue esperienze con altri negli Stati Uniti, di poter contribuire a promuovere un cessate il fuoco a Gaza. Gli Stati Uniti, dopo tutto, sono il principale alleato di Israele e forniscono al Paese aiuti militari per 3,8 miliardi di dollari all’anno.
Sabha ha aggiunto che il viaggio lo ha portato a mettere in discussione la sua vita.
“Ho imparato a non lasciarmi turbare dalle piccole cose, a non lasciarmi turbare da nulla, perché potrebbe sempre andare peggio. Ho imparato a essere più paziente”, ha detto. “Ho imparato a essere più resistente e sono diventato un musulmano migliore”.

Traduzione: Simonetta Lambertini – invictapalestina.org