Beirut, la minaccia della guerra israeliana e il ricordo del 4 agosto

Ogni giorno è una lotta tra andare avanti e essere tirati indietro dalle catene invisibili del trauma.

Fonte: English version

Cendrella Azar- 5 agosto 2024

Questa settimana è stata come un vortice. La minaccia imminente della guerra a Beirut e in varie regioni del Libano mi ha consumata. Le notizie inquietanti da Gaza e dal Sud del Libano mi hanno tenuta in tensione e mi sono trovata occupata a stendere un piano di sopravvivenza. Cosa dovrei fare se scoppiasse una guerra su larga scala in Libano? E se perdessi il lavoro? Dove andremo? La mia mente era occupata da domande infinite.

In mezzo a tutto questo caos, una notizia in TV mi ha riportata alla realtà. Mi ha ricordato che mancano solo poche ore all’anniversario del 4 agosto. I ricordi e le emozioni di quel giorno hanno cominciato a riemergere. Come potrei dimenticare?

“Dov’eri il giorno dell’esplosione?”

“Dove eri il giorno dell’esplosione?”: una domanda che ha caratterizzato ogni conversazione dal 4 agosto 2020. Ci poniamo questa domanda perché comprendere cosa è successo è importante. Quando parlo di questo incidente, questo evento enorme che ha continuato a plasmare tutta la mia esistenza, mi chiedo: la persona dall’altra parte capirà di cosa sto parlando? Come descrivi il suono? E l’odore del sangue? Come trasmetti l’immagine in un modo che non ne diminuisca l’importanza?

Ero al lavoro, immersa nella monotonia della giornata quando il mondo intorno a me si è diviso in due. Nel silenzio assordante dopo l’esplosione, il tempo si è diviso in un “prima” e in un “dopo”. Questo momento di confusione e incertezza si è posato su di noi come polvere, insediandosi nelle crepe delle nostre vite, e non possiamo scuoterlo via.

Nel 2020, facevo la pendolare quotidiano dal Nord del Libano a Beirut. Ora, abito in strade che furono completamente distrutte nell’agosto 2020. Oggi, quattro anni dopo, ho il mio rituale: girovago per le strade di questa città con gli amici, assaporando il suo fascino unico. Scattiamo foto come turisti che visitano la città per la prima volta, catturando l’essenza di una Beirut che forse non vedranno mai più.

Ieri, come al solito, sono uscita con la mia migliore amica. La nostra conversazione è stata l’ispirazione per questo articolo.

Beirut: un intreccio di ricordi

Quando cammino per le strade di Beirut, sembra che la città sia un arazzo di ricordi, tessuti insieme con fili di gioia, tristezza e resilienza. Ogni passo che faccio batte al ritmo di una città che ha conosciuto sia l’estasi della vita, che l’agonia della distruzione.

Ho lasciato la mia casa a Gemmayzeh, dove una volta prosperava la vita notturna. Le strade strette, piene di vecchi edifici, raccontano storie di un’epoca passata. Un silenzio inquietante ha sostituito la musica vibrante che un tempo riecheggiava qui. Le cicatrici dell’esplosione sono ancora visibili, come ferite aperte che rifiutano di guarire. Ogni finestra infranta e muro sgretolato mi ricorda la fragilità della vita e quanto velocemente può essere distrutta.

Ho continuato a camminare verso Mar Mikhael, dove avevo intenzione di incontrare la mia amica. Lungo la strada, ho visto i silos del grano. Il mio cuore ha accelerato. Ho visto l’edificio di Electricité du Liban, un promemoria crudo del potere della distruzione. Potevo quasi sentire il ruggito assordante dell’esplosione, sentire il terreno tremare sotto i piedi e annusare il fumo acre che riempiva l’aria. I ricordi tornano sempre. Sono indesiderati, ma arrivano comunque e sopraffanno la mia mente.

Sono arrivata, e abbiamo cominciato a parlare. Davanti a noi c’erano quattro tazze di caffè, anche se eravamo solo in due, circondate da quaderni, penne, laptop, libri e un posacenere pieno di sigarette. Sedevamo sotto un albero di Beirut dai fiori gialli. Metà di essi erano caduti, eppure l’albero continuava a fiorire. Le nostre discussioni scorrevano, inevitabilmente ruotando intorno a Beirut e all’esplosione. Ci siamo raccontate  dove eravamo. Dopo quattro anni, nuove emozioni sono emerse. Abbiamo condiviso e parlato del percorso di guarigione che non finisce mai e potrebbe non finire mai davvero.

Ci siamo immerse nei nostri sentimenti ed emozioni, analizzando l’intricata rete di paure e dubbi condivisi dalla nostra generazione. Ognuno di noi parla come se fosse di fronte a una folla, recitando monologhi emozionali su innumerevoli argomenti. Ci siamo ascoltate, davvero ascoltate l’un l’altra. Abbiamo parlato del nostro desiderio di semplicità, di una vita priva della necessità di coraggio e eroismo costanti.

Abbiamo lottato con la domanda: è meglio ricordare o dimenticare? La conversazione sulle nostre case è vivida e personale, come se stessimo descrivendo una persona amata, un essere umano vivo fatto di carne, sangue e sentimenti.

Incolpiamo la città

La mia amica ha sottolineato qualcosa che non avevo mai considerato prima: “Diamo la colpa alla città,” ha detto. È vero. Ho incolpato e maledetto Beirut per anni. Ma Beirut non è responsabile della nostra miseria. In questi momenti, ho capito come la città sia diventata una parte integrante delle nostre vite e delle nostre storie. Esperienze condivise, comprensione tacita e uno spirito collettivo ci legano a Beirut in un modo che trascende la semplice geografia. Ogni tazza di caffè, ogni passeggiata, ogni conversazione, è un passo nel nostro continuo percorso di guarigione e riscoperta, ricordandoci dell’amore profondo che proviamo per questa città e per l’un l’altro. Sembra quasi che i muri ascoltino le nostre interminabili conversazioni sull’esplosione, che spesso si ripetono mentre raccontiamo le nostre esperienze e condividiamo le nostre paure.

Le cicatrici della città

Le strade di Beirut, una volta vibranti di vita, ora portano le cicatrici di quel momento devastante. Noi, i sopravvissuti, camminiamo per queste strade, le nostre menti che ripetono scene della catastrofe e i nostri cuori pesanti di una miscela di paura e resilienza. Ogni giorno è una lotta tra andare avanti e essere tirati indietro dalle catene invisibili del trauma. L’incertezza è diventata una compagna indesiderata. Ogni suono, ogni vibrazione, porta un’ondata di panico. Mettiamo in discussione la nostra sicurezza, il nostro futuro e la nostra capacità di ricostruire non solo la nostra città, ma anche noi stessi. Il peso psicologico è immenso. È una battaglia incessante che prosciuga la nostra forza, ma alimenta la nostra determinazione a resistere e sopravvivere.

Un nuovo giorno

Oggi, vagabondo senza meta per Beirut, questa disgraziata città che ancora mi affascina. Giro per le sue strade, scegliendo una canzone che calma i miei nervi e mi fa sentire che da qualche parte, dentro questi muri crepati, si nasconde un barlume di speranza che si rivelerà inaspettatamente. È una speranza ostinata, ferma. È presente nello sforzo collettivo di ricostruire, nelle risate che occasionalmente trafiggono il nostro dolore durante i nostri incontri, nella nostra lotta contro coloro che speravano che diventassimo un cumulo di cadaveri e che Beirut diventasse una fossa comune.

Sorseggio il mio caffè mattutino e sfoglio un libro di Rabee Jaber. Mi vedo come uno dei personaggi dei suoi romanzi, camminando per i vicoli e le piazze di Beirut in cerca di me stessa e della città. E ricordo la domanda: “Dov’eri il giorno dell’esplosione?”

Questa volta, la mia risposta è chiara e risoluta: “Ero qui, e sono ancora qui. Mi ricostruisco, e poi crollo. A volte, mi sento felice, e altre volte, sono consumato dalla frustrazione e dalla disperazione travolgente che si insinua in ogni angolo di questa città. Ma nonostante tutto, sono ancora qui. Io sono la città, e amo Beirut. E sto imparando ad amare me stessa.”

Traduzione di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali” -Invictapalestina.org