Un anno di guerra implacabile di Israele ai giornalisti palestinesi

Approfondimento: il blackout mediatico imposto da Israele nei confronti della stampa internazionale a Gaza ha reso i giornalisti palestinesi più importanti che mai, motivo per cui sono presi di mira.

Fonte: English version

di Mariam Barghouti, 8 ottobre 2024

Ramallah – il 22 settembre l’esercito israeliano ha fatto irruzione a Ramallah e ha chiuso gli uffici di Al Jazeera per ordine militare.

Verso le 3 del mattino, decine di jeep militari israeliane e blindati per il trasporto del personale sono entrati nella città, di fatto il quartier generale dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), sparando proiettili e gas lacrimogeni mentre i soldati allontanavano tutto il personale di Al Jazeera dai loro uffici, consentendo loro solo di prendere i propri effetti personali.

La chiusura, ordinata dal comandante distrettuale dell’esercito israeliano, ha comportato la chiusura degli uffici dell’organizzazione per 45 giorni e la confisca di tutta l’attrezzatura di Al Jazeera. I soldati israeliani hanno addirittura sequestrato il microfono e la telecamera utilizzati dal capo dell’ufficio, Walid Omary, e dal corrispondente senior, Givara Budeiri, durante la loro copertura in diretta dell’assalto.

La chiusura dell’organizzazione mediatica con sede in Qatar rientra nell’intensificarsi della campagna israeliana per sopprimere la trasmissione di notizie dalla Palestina da quando Israele ha lanciato la sua brutale guerra in corso contro Gaza e gli attacchi nella Cisgiordania occupata.

L’attacco di Israele alle agenzie di informazione

Il 1° aprile, il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha commentato su X che “il canale terroristico Al Jazeera non trasmetterà più da Israele. Ho intenzione di agire immediatamente in conformità con la nuova legge per fermare l’attività del canale”.

La legge a cui si riferiva era stata promossa dalla Knesset israeliana lo stesso mese, consentendo al governo israeliano di chiudere e confiscare le attività dei media nella regione se fossero state considerate una minaccia per Israele.

A maggio, la legge è stata approvata e nel giro di poche ore Al Jazeera è stata rimossa dai maggiori provider televisivi di Israele. Anche gli uffici dell’organizzazione giornalistica a Gerusalemme sono stati chiusi, le attrezzature confiscate e le credenziali stampa per il personale ritirate.

La legge ha consentito al Primo Ministro israeliano e al Ministro delle Comunicazioni di chiudere temporaneamente gli uffici dei media stranieri per 45 giorni, con possibilità di rinnovo per altri 45 giorni.

Sebbene le parole di Netanyahu abbiano fatto  sembrare che l’obiettivo della legge fosse quello di chiudere Al Jazeera, un’organizzazione mediatica la cui copertura è stata storicamente problematica per il governo israeliano, la nuova legge è stata applicata anche più ampiamente e tutte le agenzie di informazione straniere.

Solo poche settimane dopo la chiusura di Al Jazeera a Gerusalemme, il governo israeliano ha sequestrato apparecchiature di trasmissione e una telecamera appartenenti all’Associated Press. Il ministro delle comunicazioni israeliano, Shlomo Karhi, ha accusato l’agenzia di stampa statunitense di ignorare gli avvertimenti israeliani e di fornire servizi ad Al Jazeera.

I giornalisti palestinesi aumentano in mezzo alla censura globale

Le principali agenzie di stampa internazionali come la CNN, il New York Times e altre hanno da tempo adottato politiche di censura sulla copertura della Palestina/Israele. Ciò include restrizioni all’uso di parole come “genocidio”, “apartheid” e “Palestina”. Queste agenzie di stampa hanno anche acconsentito, con compiacenza, a inviare filmati alla censura militare israeliana a Gerusalemme, violando i pilastri dell’integrità giornalistica.

Mentre i corrispondenti internazionali hanno storicamente ceduto alle richieste di informazione di Israele, spesso riferendosi ai palestinesi uccisi da Israele in forma passiva o trascurando di menzionare nei titoli e nei resoconti quando l’autore è Israele, i giornalisti palestinesi non acconsentono a tali pressioni.

“I giornalisti palestinesi stanno facendo un ottimo lavoro nello smascherare tutte le bugie, lontano dalla censura e dalle linee editoriali dei media stranieri che non possono controllare, perché stanno trasmettendo in diretta ciò che sta accadendo qui”, dice a The New Arab Faten Elwan, una giornalista veterana che ha seguito la regione per decenni.

Negli ultimi anni, le pratiche israeliane di maltrattamenti, abusi e persecuzioni hanno attirato l’attenzione mondiale, in gran parte grazie al lavoro e alla copertura incrollabile dei giornalisti palestinesi che rischiano la vita per denunciare. Sono anche spesso i primi soccorritori sul campo in aree ignorate dalla stampa internazionale.

Per queste ragioni, Israele sta intensificando i meccanismi di censura e, al contempo, sta creando ambienti sempre più ostili per i membri della stampa palestinese.

L’esercito israeliano ha ucciso almeno 116 giornalisti palestinesi nell’ultimo anno a Gaza, l’anno con il più alto tasso di mortalità per i giornalisti a livello mondiale negli ultimi decenni.

Nel 2022, la corrispondente senior di Al Jazeera Shireen Abu Akleh è stata uccisa da un proiettile al collo mentre copriva gli attacchi militari israeliani contro i rifugiati palestinesi,di fronte al crescente fenomeno della resistenza armata nel campo profughi di Jenin.

Abu Akleh è stata una delle prime giornaliste di un’agenzia di stampa mainstream a coprire gli eventi in corso a Jenin. Da allora, la storia ha attirato l’attenzione mondiale e la copertura di vari giornalisti internazionali.

A Gaza, data l’impossibilità per i corrispondenti internazionali di essere sul campo e il rifiuto da parte del governo israeliano di qualsiasi appello alla libera circolazione della stampa internazionale, sono i giornalisti locali e gli influencer dei social media a diventare le principali fonti di informazione.

Tale copertura da parte dei giornalisti palestinesi locali ha esposto al mondo i crimini di guerra israeliani, e la documentazione di questi crimini ha facilitato gli attori statali internazionali nel portare Israele di fronte ai tribunali internazionali per pratiche di genocidio e nel mobilitare la società civile affinché Israele ne risponda.

“La violenza contro i palestinesi è in aumento, ma anche il vero volto di Israele viene sempre più mostrato e le persone lo vedono nel modo giusto”, ha affermato Elwan.

I giornalisti palestinesi: una minaccia alla narrazione israeliana

Durante la chiusura degli uffici di Al Jazeera a Ramallah, l’esercito israeliano ha anche strappato i manifesti della giornalista uccisa Shireen Abu Akleh, appesi al balcone.

“Ho pensato, oh accidenti, vi sta davvero facendo impazzire, vi ha messo davvero in una brutta situazione con il mondo che ancora oggi vorreste vendicare anche solo una foto”, ha detto Elwan.

Mentre i palestinesi sono collettivamente minacciati da Israele, sono i giornalisti palestinesi a rappresentare il rischio maggiore per l’immagine di Israele agli occhi della comunità internazionale. “[L’esercito israeliano] non vuole che l’immagine o la voce escano”, dice a TNA Ranin Abahra, giornalista di Jenin. “C’è un impatto sui giornalisti palestinesi che trasmettono una narrazione e una storia onesta sui palestinesi, quindi l’esercito intensifica l’attacco ai giornalisti”, ha detto.

Gli attacchi di Israele ai giornalisti abbracciano decenni di manipolazione mediatica radicata nella strategia militare di Israele di annettere terre palestinesi come parte del suo progetto di espansione coloniale. Ciò fa parte della “guerra cognitiva” di Israele che include la consapevolezza come campo di battaglia.

La capacità di Israele di continuare l’espansione degli insediamenti, l’approvvigionamento di aiuti militari e il sostegno degli Stati Uniti dipende in larga misura da come viene percepito agli occhi non solo dei decisori politici, ma anche della società civile.

Nel manuale militare israeliano, c’è una politica di “modellazione della percezione”, che si trova come parte necessaria di tutte le operazioni israeliane. Vale a dire, Israele deve sempre essere percepito in una luce positiva agli occhi della comunità internazionale. “Ecco perché stanno [prendendo di mira i media]”, dice Elwan a TNA. “Non si tratta dell’aumento della violenza israeliana, è l’aumento della [nostra] narrazione, è una guerra alla narrazione ora”, ha detto.

Una macchina fotografica contro un proiettile:  il rischio della copertura

Sebbene l’attacco ai media palestinesi sia da tempo parte integrante dell’occupazione israeliana, dal 7 ottobre i soldati israeliani sono diventati più spregiudicati nei  loro attacchi contro i giornalisti.

Senza una presenza internazionale a Gaza, l’esercito israeliano ha ucciso almeno 116 giornalisti palestinesi nell’ultimo anno, secondo il Comitato per la protezione dei giornalisti (CPJ), il periodo più mortale a livello mondiale per i giornalisti da quando il gruppo ha iniziato a registrare i dati nel 1992.

Nella Cisgiordania occupata, c’è una tendenza simile. “Come giornalista in Cisgiordania, in ogni dispaccio sul campo, metto le opzioni che potrei tornare a casa oppure no”, dice a TNA Ranin Abahra, che scrive da Jenin. “Questo perché sto seguendo uno degli eserciti fascisti più duri e capaci che stanno commettendo crimini di pulizia etnica a Gaza e non si fermeranno all’uccisione di un giornalista in Cisgiordania”, ha spiegato.

I politici israeliani giustificano l’uccisione di giornalisti a Gaza sostenendo che sono collegati ad Hamas. Quando Israele ha ucciso il corrispondente di Al Jazeera Ismail Al-Ghoul il 31 luglio durante un servizio, Israele ha affermato che era un membro “Nukhba” (senior) del gruppo. Tuttavia, un’indagine di Hala Gorani della NBC mostra che, secondo i registri israeliani, Al-Ghoul era elencato da Israele come un agente di Hamas nel 2007, quando aveva 10 anni.

Nonostante la falsità di queste affermazioni, quando Netanyahu descrive le organizzazioni mediatiche come minacce nazionali e Israele sostiene che i giornalisti sono combattenti di Hamas, di fatto dà il via libera alla violenza contro tutti gli operatori dei media palestinesi.

“Oggi assistiamo a una forte escalation contro i giornalisti. Prima [l’esercito] prendeva di mira i giornalisti con gas lacrimogeni e granate stordenti, oggi no. L’esercito prende di mira i giornalisti con munizioni vere”, ha detto Abahra.

All’inizio di settembre, quando Israele ha lanciato la sua offensiva militare “Operazione Campi Estivi” in Cisgiordania, i giornalisti, tra cui Elwan, sono stati presi di mira da colpi di arma da fuoco israeliani e inseguiti da un bulldozer militare D-9 mentre coprivano l’assedio di Jenin e Tulkarem. Almeno quattro giornalisti sono stati feriti direttamente da colpi di arma da fuoco, tutti mentre indossavano i giubbotti antiproiettile con la scritta PRESS, e due mentre guidavano la loro auto, anch’essa visibilmente contrassegnata con “PRESS”.

Quando il mese scorso l’esercito israeliano ha fatto irruzione e chiuso gli uffici di Al Jazeera a Ramallah, ha deliberatamente strappato un manifesto di Shireen Abu Akleh, uccisa dai soldati mentre stava facendo un reportage nei pressi di Jenin nel 2022.

Spezzare lo spirito dei giornalisti palestinesi

I giornalisti palestinesi sono a rischio non solo di attacchi mirati mentre scrivono sul campo, ma anche di arresti e detenzioni da parte di Israele.

Il 19 settembre, il giornalista palestinese Mujahed El-Saadi è stato violentemente arrestato a casa sua dopo essere stato picchiato di fronte alla moglie e ai tre figli, il più piccolo dei quali ha solo otto mesi. Al momento in cui scrivo, El-Saadi era ancora detenuto nel campo di detenzione di Megiddo.

Tra il 7 ottobre dell’anno scorso e settembre 2024, la Palestinian Prisoners Society (PPS) ha documentato almeno 108 giornalisti palestinesi arrestati da Israele. Di questi, 22 provenivano da Gaza e 59 sono ancora in stato di arresto, mentre 14 sono trattenuti senza processo o accusa, una pratica arbitraria nota come “detenzione amministrativa”.

In alcuni casi, Israele si è rifiutato di confermare dove si trovino le persone detenute a Gaza o se siano vive o morte, dando vita a un fenomeno di sparizione forzata.

“Tutti i detenuti a Gaza sono stati detenuti ai sensi della legge sui ‘combattenti illegali’. L’emendamento di questa legge è stato fatto a dicembre e include che finché non viene emesso un ordine di arresto vengono fatti sparire con la forza. Non sappiamo nulla di loro”, ha spiegato a TNA S., un avvocato che lavora con i detenuti politici palestinesi. S. non può usare il suo nome completo a causa delle restrizioni israeliane imposte agli avvocati.

I giornalisti sono trattenuti da Israele in quella che l’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem definisce “una rete di campi di tortura”. Tuttavia, secondo S., mentre i giornalisti palestinesi sono esposti a metodi di tortura come la privazione del sonno e del cibo, il rifiuto di fare la doccia e percosse fisiche, ricevono anche ulteriori maltrattamenti a causa della loro professione. “Il giornalista è uno spirito libero, la cui parola è libera”, ha spiegato S. “È molto chiaro nel trattamento che viene loro riservato, che [Israele] sta cercando di spezzarli”.

Per S., avendo lavorato sui casi di decine di palestinesi, sia della Cisgiordania che di Gaza, è diventato sempre più chiaro che i giornalisti rappresentano una minaccia maggiore per Israele. “Esiste una chiara politica israeliana nel trattare i detenuti istruiti, tra cui dottori, giornalisti e così via, in un modo incredibilmente umiliante e tortuoso, perché hanno una maggiore consapevolezza politica di un cittadino medio”, ha spiegato S.

La continua copertura dei giornalisti palestinesi, la loro sfida alle politiche israeliane di censura e il rifiuto di adottare politiche accettate dai media internazionali li rendono ancora più vulnerabili agli abusi israeliani. “Il modo in cui i tribunali israeliani stanno trattando i giornalisti è un approccio non solo di “ vi sbatteremo in prigione”, ma “ imprigioneremo la vostra parola e la vostra intera volontà di voler essere indipendenti e avere una parola libera”, ha detto S. a TNA.

Mariam Barghouti è una scrittrice e giornalista che vive in Cisgiordania. Ha seguito la regione come reporter e analista per dieci anni, è stata corrispondente senior per la Palestina per Mondoweiss ed è membro del Marie Colvin Journalist Network

 

“Su questa terra esiste qualcosa per cui vale la pena vivere”- Mahmoud Darwish-

traduzione di Nicole Santini per Invictapalestina.org